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Eni, sparite le cozze utilizzate come indicatori ambientali
Le cozze usate per controllare i livelli di inquinamento delle acque sono andate perdute per il mare grosso. E l’Eni le ricompra, senza avvisare l’Ispra.
“Glielo diciamo all’Ispra o no?”, “No, io sono qua con loro ma non glielo dico… io mi sto zitto e basta”, “Ce le rimettiamo… le compriamo e si rimettono”, “Eh va beh, le cozze dove le andiamo a prendere uguali?”.
È questo il surreale dialogo tra due dipendenti Eni intercettati in alcune conversazioni telefoniche finite negli atti dell’ordinanza che riguarda le attività dell’Eni, nell’ambito dell’inchiesta sulle attività estrattive in Basilicata, di cui è titolare la procura della Repubblica di Potenza.
Siamo nel 2014, la nave Firenze dell’Eni (utilizzata per la produzione petrolifera offshore) è ormeggiata al largo di Brindisi, e i tecnici dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) hanno installato gabbie con le cozze al fine di rilevare un possibile inquinamento ambientale causato dalle acque reflue scaricate dalla motonave, poiché nei tessuti dei mitili si bio-accumulano gli inquinanti, come metalli e idrocarburi.
Succede però che il mare un giorno è troppo forte, e i sacchetti con le cozze si rompono. Bel problema. Che fare? Avvisare l’Ispra o far finta di niente e cercare di sostituire le cozze perdute con altre? Per il giudice delle indagini preliminari (gip) cui è affidata l’inchiesta, alcuni dipendenti Eni “omettono deliberatamente di avvertire l’Ispra” dell’accaduto e sostituiscono le cozze con “altri mitili da loro procurati, inficiando di fatto l’efficacia del controllo ambientale“.
Secondo il gip due dei dipendenti Eni (oggi agli arresti domiciliari) “sono apparsi ancora una volta soggetti portatori di una significativa attitudine a incidere illecitamente sulle situazioni attraverso meccanismi di alterazione“, fino a spingersi “a situazioni artificiose destinate a ostacolare gli accertamenti”.
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