Intervista ai Portico Quartet

Il quartetto londinese Portico Quartet è formato da quattro giovani musicisti che suonavano per le strade di Londra e che propongono una musica sospesa tra jazz minimalista, elettronica e influssi ritmici africani. Nel 2007, con il loro album di debutto “Knee Deep in the North Sea”, sono riusciti ad attirare l’attenzione dei più illustri critici musicali

Il quartetto londinese Portico Quartet è formato da quattro giovani
musicisti che suonavano per le strade di Londra e che propongono
una musica sospesa tra jazz minimalista, elettronica e influssi
ritmici africani.

Nel 2007, con il loro album di debutto “Knee Deep in the North
Sea”, sono riusciti ad attirare l’attenzione dei più
illustri critici musicali inglesi e ad essere candidati per
l’ambitissimo Mercury Music Prize. Non è quindi un caso che
siano stati assoldati dalla Real World di Peter Gabriel, etichetta
di musica world con la quale hanno pubblicato quest’anno il loro
secondo album “Isla”, sotto la supervisione del produttore dei
Radiohead John Leckie. A rendere ancor più particolare il
suono dei Portico è l’uso dell’hang, un insolito strumento
dal suono ipnotico. Massimo andreozzi de lasituazione ha
intervistato Nick Mulvey, che nella band suona proprio questo
strumento.

Come mai questo nome, Portico?

Il nome Portico nasce cinque anni fa, all’inizio della nostra
avventura assieme, quando suonavamo per le strade di Londra e
ancora non avevamo un nome. Un uomo che organizzava un festival a
Bologna ci ha sentiti e ci ha invitato a suonare. Così siamo
partiti per Bologna, dove abbiamo suonato ben tre volte
divertendoci molto, e la terza sera è iniziato a piovere,
così abbiamo dovuto suonare sotto un portico. In
quell’occasione è venuta molta gente. È stata
un’esperienza fantastica e abbiamo deciso così di chiamarci
Portico Quartet.

 

Ho letto che prima di pubblicare il vostro album di
debutto vi dilettavate a suonare fuori del National Theatre per
attirare l’attenzione dei passanti. Come era la vostra vita e la
vostra musica allora e come è la vostra vita e la vostra
musica oggi?

Beh, era un bel periodo allora ed è un bel periodo
anche adesso. All’inizio eravamo tutti studenti universitari ed era
un passatempo suonare per le strade di Londra. La cosa ci divertiva
molto: avevamo dato vita a qualcosa di nuovo rispetto alle altre
band locali ed eravamo desiderosi di fare progressi. Ora il feeling
è lo stesso, ma abbiamo più possibilità di
crescere, di farci conoscere e di suonare per un anno intero in
giro per l’Europa. È la realizzazione di un sogno.

 

Cosa è cambiato di più?

Cosa è cambiato di più… Probabilmente la
musica. La musica si è trasformata per adattarsi ad un palco
più ampio, per sentire uno spazio più grande.
È sempre in evoluzione ed in cambiamento.

 

Come siete entrati in contatto con l’etichetta Real
World?

Sono stati loro ad entrare in contatto con noi. Gli era
piaciuto molto il nostro primo disco. Li abbiamo incontrati e la
Real World ci è sembrata una buona casa per i nostri
prossimi lavori.

 

Come definiresti la vostra musica?

Non penso che io debba definire la nostra musica. Ciò
che mi piace di più quando provo a descrivere la nostra
musica è che attorno ad essa si apre sempre una
conversazione, perché è impossibile spiegarla con una
sola frase. È un viaggio nello spazio che racchiude musica
minimalista, jazz, elettronica ed altre suggestioni… ma non
ho una semplice definizione!

 

Cosa possiamo trovare nella musica non-occidentale che
a noi manca?

Wow! Amo come in alcuni Paesi dell’Africa Occidentale la
musica sia strettamente connessa alla coscienza sociale: la musica
è sempre legata ad un messaggio. Questa è una bella
ispirazione! Noi occidentali percepiamo la musica africana come
un’esperienza non parlata e non letterale perché non ne
capiamo il linguaggio sottostante. Appare chiaro, così, un
modo differente di interagire con la musica. E questo aspetto
è molto importante per noi perché la nostra musica
non è definibile con le parole.

 

Che strumento è l’hang? E come l’hai
scoperto?

L’hang è un nuovo strumento melodico, inventato in
Svizzera nel 2000. L’abbiamo scoperto cinque anni fa, quando avevo
19 anni, al festival musicale Womad a Reading, in Gran Bretagna.
Eravamo lì per piacere. Abbiamo sentito il suono di questo
strumento e io me ne sono innamorato. È una specie di cugino
dello steel pan, uno strumento percussivo caraibico. Va però
aggiunto che l’hang è anche influenzato dalla musica gamelan
balinese, musica che io e Jack abbiamo studiato
all’università.

 

Cosa ha aggiunto la produzione di John Leckie al suono
del vostro ultimo disco Isla?

Lavorando con John Leckie, che è un producer rock,
ciò che volevamo era dare più corpo alla musica,
più pienezza al suono. La sua esperienza e la sua età
hanno fatto la differenza: quando abbiamo registrato avevamo 23- 24
anni, con un solo disco alle spalle. Mentre lui ha prodotto molti
album di successo, passando per generi musicali diversi. John
è una persona calma che sa infondere sicurezza. È
stato di grande aiuto perché durante la registrazione
è riuscito a farci vedere le soluzioni migliori durante i
momenti di incertezza.

 

Che sensazioni avete provato nel suonare dentro i
mitici Abbey Road Studios?

È stata un’esperienza incredibile! Eravamo molto
focalizzati sul nostro album quindi non c’è stato molto
tempo per pensare ai Beatles, ai Pink Floyd o alla storia di quel
luogo. Tutto era speciale, ma avevamo molto da lavorare. Là
dentro si ha l’impressione di essere in in una realtà a
metà strada tra un laboratorio e una cattedrale. E questo
è molto buono per creare musica.

 

Nelle vostre produzioni si sente sia l’influenza
ritmica dell’Africa che l’impalpabilità della musica
ambient. Cosa porteresti sulla Terra dallo spazio e cosa porteresti
nello spazio dalla Terra?

Bella domanda! Porterei sulla Terra la pace e il silenzio
dello spazio e nello spazio …il caffè italiano!

 

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