Elisabetta Bucciarelli: la scrittura come atto terapeutico

Quali paure, ansie, gioie, stati d’animo si nascondono dietro il volto indecifrabile del disabile? Come fare per aiutarlo ad esprimere tanta ricchezza interiore senza che si senta inadeguato e giudicato? Ne parliamo con Elisabetta Bucciarelli

“Scrivendo ho avuto la sensazione di poter rompere le lettere, distruggere le parole che non mi piacevano e creare quelle che amo”. Laura T.

Questo è il lavoro che con passione e competenza Elisabetta Bucciarelli autrice di “Io sono quello che scrivo. La scrittura come atto terapeutico”, ed. Calderini, ha fatto per anni proponendo all’interno di corsi di formazione per disabili un laboratorio di scrittura. Un luogo dove il disabile ha l’opportunità di mettere in campo liberamente la propria emotività attraverso semplici esercizi di scrittura, oltrepassando i limiti della sintassi e della grammatica.

Elisabetta Bucciarelli, come è nata la tua esperienza con i disabili?

Mi è stato chiesto di inventare un laboratorio di scrittura per un gruppo di ragazzi disabili che stavano seguendo un progetto di inserimento lavorativo don Gnocchi. Stavo conducendo esperienze analoghe con pazienti psicotici e con persone considerate “normali” e mi ero accorta che gli iscritti ai corsi utilizzavano la scrittura non solo come fine ma anche come mezzo: per riordinare idee e pensieri, confrontarsi tra loro e soprattutto per “guardare” le emozioni più forti e fastidiose prendendone le distanze. E’ nato quindi il Laboratorio di libera espressione cui parteciparono in tre anni 45 ragazzi di età compresa tra i 15 e i 26. I gruppi si sono frequentati per otto mesi con cadenza settimanale.

Qual è la tecnica o quali sono gli strumenti che hai utilizzato?

La proposta di utilizzare la scrittura non ha sortito consensi immediati. Scrivere evocava tutte le esperienze traumatiche del passato, in modo particolare quella scolastica. Paura dell’errore, senso di fatica e di inadeguatezza. Il primo obiettivo è stato quindi “distruggere la forma” ossia la gabbia di regole in cui la scrittura era stata relegata. La tecnica che ho utilizzato per sbloccare i ragazzi è ispirata al cut up della beat generation, una sorta di gesto creativo simbolico più vicino al gioco che al compito in classe. E’ stato chiesto loro di scrivere brevi pensieri con le parole degli altri, semplicemente tagliandole dalle pagine di riviste e quotidiani e ricomponendole a proprio piacimento.

Quali contenuti emozionali sono emersi?

Con l’allenamento alla scrittura e stabilito un buon clima di fiducia nel gruppo, sono affiorati tutti i timori legati alla finalità del corso di formazione. Il primo inserimento lavorativo della loro vita catalizzava aspettative familiari, senso di inadeguatezza, paura di fallire per l’ennesima volta e spesso la mancanza di un autentico desiderio per ciò che stavano facendo. L’ansia era evidenziata non solo dalle parole ma anche dai tempi verbali, dagli strumenti utilizzati per scrivere e dai colori degli inchiostri.

Quale obiettivo terapeutico prevale in questi corsi e quali i risultati ottenuti rispetto all’obiettivo?

Il primo obiettivo è stato prendere coscienza del non detto di questi ragazzi abituati e talvolta costretti, ad affermare sempre che tutto va bene. La scrittura infatti permette di uscire dall’area del super-controllo, cui i ragazzi sono stati allenati fin da piccoli, lasciando emergere le aree problematiche. In questo modo l’equipe degli psicologi è potuta intervenire sulle fragilità, rafforzando le parti di abilità e sostenendo i ragazzi fino al raggiungimento dell’obiettivo finale, la conquista del posto di lavoro. La scrittura ha reso possibile anche la simulazione della realtà. I ragazzi hanno scritto copioni esistenziali per sperimentarsi in possibili situazioni lavorative critiche come un colloquio con il datore di lavoro, un litigio con un collega, la richiesta di un aumento. Infine i laboratori hanno permesso di usare la scrittura per mettere una distanza con ansie e paure. Come in un atto catartico le parole pesanti una volta scritte, lette e condivise, diminuiscono di intensità e sono meno spaventose.

Cosa ti è rimasto del lavoro svolto con i disabili?

Ho imparato molto e ho sentito fortissimo il mio limite di persona apparentemente normale e parallelamente mi sembrava chiara la necessità di rendere queste persone più libere. Un certo tipo di cultura ha preteso di curare il disabile per avvicinarlo il più possibile a ciò che si conosce ed è considerato “normale”. Il risultato, secondo la mia esperienza, è una pressione psicologica esagerata e un senso di frustrazione talvolta più invalidante dell’ handicap stesso. La scrittura ma anche il cinema e il teatro e tutte le attività espressive in genere, sono occasioni d’oro per mettere alla prova anche il nostro livello di inadeguatezza di fronte a chi possiede abilità diverse dalle nostre, pertanto poco incasellabili nelle limitate categorie che la normalità prevede.

 

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