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In Tibet come in Birmania, la possibilità di esercitare il diritto alla libertà d’espressione, associazione e riunione, represso con arresti e violenza
Il Tibet
come la Birmania, la possibilità di esercitare
il diritto alla libertà d’espressione, associazione e
riunione, ancora una volta messa in discussione e repressa con
arresti e violenza.
Lhasa è quasi una città fantasma, poco è
rimasto dei negozi cinesi, le hall degli hotel distrutte, le banche
prese d’assalto. Scene di guerra. La sommossa iniziata
pacificamente da circa 400 monaci lunedì 10 marzo, che
marciavano dal monastero di Drepung verso Lhasa, chiedendo la fine
della campagna governativa che costringe i monaci ad abiurare il
Dalai Lama e a subire propaganda politica, è sfociata in
sommossa violenta.
Un reporter tedesco del ‘Die Ziet’, racconta di una nuova
frangia di giovani tibetani, che venerdì “hanno perso la
testa” e che “hanno fatto vedere ai cinesi di cosa sono capaci”.
Giovani in “giacca a vento e scarpe da ginnastica” che
“rappresentano la nuova gioventù a Lhasa: urbana, libera da
preconcetti, orientata al benessere e senza paura”.
Intanto un giornalista della BBC, da Pechino, mostra come ogni
volta che al canale ‘BBC world’ venga toccato il tema dei disordini
in Tibet, il canale televisivo semplicemente scompare,
oscurato.
Le truppe cinesi, come mostra invece un video della CNN, passano
a setaccio la città, per scovare i dissidenti nascosti. Solo
grazie ai reporter e ai
fotografi in contatto con la comunità tibetana
in esilio in India, si riescono ad intuire le cifre della
repressione. Sono i familiari delle vittime che non hanno
più contatti con i loro congiunti. Ogni famiglia conta
almeno un morto.
Il
Dalai Lama in conferenza stampa da Dharamshala, incita
alla non-violenza, alla dissidenza pacifica: “Dicono che i miei
seguaci bruciano i negozi, uccidono innocenti… Ho già
detto molte volte: non usate violenza. Bruciare è violenza,
uccidere è violenza”. E aggiunge: “Può la gazzella
lottare
contro la tigre?”.
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