All’1:30 circa (ora locale) del 26 marzo, una nave mercantile ha urtato il ponte Francis Scott Key di Baltimora, facendolo crollare.
Dalla parte del rito
L’attuale visione del rito non rende giustizia al valore di questa manifestazione umana che ha sempre sostenuto l’individuo nel gruppo sociale, preparandolo alle svolte dell’esistenza umana.
L’uomo d’oggi identifica il rito come cerimoniale o etichetta da
rispettare, un contenitore vuoto che accetta per il fatto stesso
che esiste. Pochi si occupano dei valori che può contenere e
dei significati positivi della loro pratica. La prevalenza di
costumi laici ed edonistici ha ridotto il rito a formalità
da compiere o protocollo da rispettare. Una consuetudine
inevitabile, quanto suggestiva, a secondo di una tradizione
più o meno rispettabile.
Il rito, invece, serve a incanalare l’esperienza emotiva degli
individui nel gruppo, integrandole e orientandole al bisogno del
momento. La spiritualità dell’uomo antico non aveva una
morale precisa e non era finalizzata alla liberazione o alla
salvezza individuale. Cercava piuttosto di preservare
l’identità propria e della comunità. Il rito è
pratica connessa alla ciclicità della vita e alle sue tappe
quotidiane. E la ripetitività che lo caratterizza testimonia
la sua origine sociale e socializzante.
Il rito è collettivo, quindi culturale, aperto a un numero
imprecisato di persone che partecipando si “ri-conoscono”. Siamo
all’antitesi dell’esperienza mistica, che si manifesta
individualmente.
Attraverso il rito l’uomo si preparava ad affrontare i momenti
critici dell’esistenza: la nascita, la pubertà, il
matrimonio, la guerra e la morte. Sottolineava aspetti quotidiani
importanti che potevano perdersi nella routine: mangiare, lavarsi o
dormire. Ma anche aspetti di relazione e conoscenza fondamentali
per la vita della comunità: il gioco e le pratiche
sessuali.
Funzioni come quelle di iniziazione o passaggio, propiziazione e
espiazione oggi sono praticamente inesistenti o formalizzate, come
nel caso del lutto. La non elaborazione del lutto provoca non pochi
danni all’equilibrio psichico delle persone che ne sono colpite. La
funzione di espiazione e liberazione del dolore, che permetteva
questo rito è quasi scomparsa. Ridotta nel tempo e nella
procedura. Il lutto oggi è più simile a un vuoto
comparire in abiti scuri, esibendo un dolore da dimenticare in
fretta. Raramente si cerca di rintracciarne il motivo profondo e di
recuperare l’assenza del congiunto.
Perfino le feste, legate a una ritualità che si ripete nel
tempo e nelle stagioni, sono state assorbite da una concezione
consumistica o agonistica, legandosi più al culto degli
oggetti che delle persone. Siamo lontani dalla profondità
della condivisione e dalle esigenze collettive delle persone che
abbiamo attorno.
Lo spazio del rito, invaso da pratiche distratte e da formule da
eseguire in fretta e ripetere senza convinzione, sta lasciando un
vuoto dentro l’uomo contemporaneo. Un vuoto che segnala una strana
paura di vivere, che procura stress e depressioni. Da qui la
necessità di vivere ancor oggi con partecipazione gli
aspetti rituali che ancora incontriamo. Un modo per riequilibrare
le emozioni e affrontare difficoltà e ansie unendole alla
dimensione collettiva del vivere.
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