Dalla specializzazione alla totalità

La diversificazione dei compiti, delle risorse e delle progettualità risulta più funzionale alla produttività e all’efficienza.

L’uomo di una sola occupazione somiglia molto
all’uomo di un solo libro: non saprebbe parlarvi di altro (…) Ma
ecco l’inconveniente più grave. La specializzazione, che
rende noioso il sapiente, rende sterile la scienza (…) Ciascuno
di noi dovrebbe cominciare, come ha fatto l’umanità, con la
nobile e ingenua ambizione di conoscere tutto. Non ci si dovrebbe
calare in una scienza speciale, se non dopo aver considerato
dall’alto, nei loro contorni generali, tutte le altre. È che
la verità è una: le scienze particolari ne esaminano
i frammenti, ma conoscerete la natura di ciascuno di essi solo se
vi rendete conto del posto che esso occupa nell’insieme.

Henri Bergson, La specializzazione

Questa riflessione di Bergson, tratta dal discorso pronunciato alla
distribuzione dei premi di fine anno al Liceo di Angers, il 3
agosto 1882, ci stimola a fare alcune fondamentali considerazioni,
oggi quanto mai ineludibili.

In primo luogo, nell’età della tecnica la specializzazione
è sì necessaria, in quanto la diversificazione dei
compiti, delle risorse e delle progettualità risulta
più funzionale alla produttività e all’efficienza,
linguaggi-chiave delle grammatiche tecnologiche, ma non deve
diventare la sola modalità culturale con cui abitare il
mondo.

Insomma, se affidare i diversi compiti che l’attuale
complessità richiede a “uomini speciali”, appunto agli
specialisti, che per questo, pur in modo spesso unidirezionale,
hanno faticosamente studiato, risulta utile, produttivo, ma anche
funzionale ad un più armonico, razionale stare al mondo,
è altrettanto vero che, nell’età della
globalizzazione, ha più dimestichezza con l’ormai continuo
confronto con la differenza colui che ha una cultura globale, che
dispone di un sapere integrale, peraltro più adatto anche
alla flessibilità, ai frequenti riorientamenti progettuali
che oggi connotano quasi tutte le attività lavorative.

In secondo luogo, e in modo ancora più marcato e carico di
valori etici ed esistenziali, solo chi dispone di uno sguardo
contemplativo sul tutto può tentare di rispondere agli
interrogativi ultimi dell’esistenza e dare, così, corpo ad
un’autentica ricerca di senso, da sempre inscritta nella nostra
natura: insomma, per dirla con Guitton, “sull’essenziale” non si
può tacere.

Le diverse forme del sapere, allora, non devono essere viste come
bottiglie sigillate, bensì come vasi comunicanti, capaci di
una feconda interazione; in altri termini, se ci si passa la
metafora, la cultura, intesa come efficace sintesi di “spirito” e
natura”, “lettere” e scienze esatte, è simile al mare e le
singole forme del sapere, che la costituiscono come un tutto
qualitativo, sono simili alle onde: se ne togli anche una sola, non
solo il mare si impoverisce, ma perde anche la sua fisionomia e i
singoli saperi, frantumati e isolati fra loro, finiscono per
annegare in acque ormai indifferenti e informi.

L’uomo, quindi, deve tornare a ricercare il fondamento delle cose,
aspirare alla totalità – e in questo ha un compito
ineludibile la scuola – che non significa affatto delirio di
onnipotenza, pretesa titanica di conoscere ogni singola
realtà, bensì porsi, pur con tutti i limiti della
finitezza umana, sulle tracce del senso che collega le cose tra
loro.

Come dice Edgar Morin: “Quello che importa non è di
enunciare il concetto di totalità, ma di avere il senso
della totalità”.

In questo modo si può davvero integrare, corroborare
l’efficientismo, il riduzionismo e lo specialismo propri della
tecnica con una visione integrale della realtà capace di
renderci uomini completi, attori critici dell’esistente e
ricercatori inesausti non solo dell’utile particolare, ma del
significato globale in cui anche quell’utile finisce per
rientrare.

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