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“L’altro diventa un tu per me, solo se cessa la pura relazione di soggetto – oggetto. Il primo passo verso il tu è quel movimento che “ritira le mani” e libera lo spazio in cui possa avere libero corso l’autofinalismo della persona”.
“È quel moto che rappresenta il primo effetto della
“giustizia” e il fondamento di ogni “amore”. L’amore personale
comincia in maniera decisiva non con un movimento verso l’altro, ma
da l’altro”. (Romano Guardini, Persona e libertà. Saggi
di fondazione della teoria pedagogica).
Congedarsi da sé per donarsi all’altro è, in
fondo, essenzialmente una questione di spazio: dilatare gli spazi
del cuore e restringere quelli dell’egoità per accorciare lo
spazio che ci separa dal Tu.
Il tortuoso sentiero che conduce dalla dimensione autocentrata a
quella allocentrica – rivolta agli altri – impone un “ritirare le
mani”, che rinviano alla bramosia, al possesso, alla volontà
di potenza, per accogliere il Volto dell’altro nella sua
nudità, in tutto ciò che ha di fragile, vulnerabile,
secondo dinamiche che non tengano conto del mio godimento, dei miei
bisogni, bensì di quelli del Tu che mi sta davanti e mi
ingiunge: donati a me per quello che sono, nella povertà
della mia carne, nella mia finitezza creaturale, ma anche nella mia
assoluta irriducibilità!
Ci sono, infatti, forme inautentiche del dono: la prima,
è quella astratta in base alla quale proclamo di “donarmi a
tutta l’umanità”. In realtà, ci si dona ad alcune
persone, si amano Volti in carne ed ossa e non un’idea. Insomma, il
dono non si configura come una forma di astrazione della mente, non
si misura in base alla quantità, alle statistiche, alla mera
adesione, talvolta più esibita che vissuta, ad enti,
associazioni o varie forme di volontariato, bensì alla sua
disinteressata tensione verso un Tu “storico”, incarnato. A questo
proposito Mounier ha parole superbe: “Io non amo l’umanità,
non lavoro per l’umanità. Amo alcuni uomini, e l’esperienza
che ne traggo è così generosa che grazie a quella mi
sento capace di darmi ad ogni prossimo che traversi il mio
cammino”.
C’è poi una seconda forma inautentica di amore e di dono
di sé…
C’è poi una seconda forma inautentica di amore e di dono
di sé: partire dal proprio spazio emotivo, sentimentale, dai
propri bisogni affettivi, dagli interessi del proprio cuore, per
trarre dal dono un godimento fine a se stesso, con in più la
pretesa che l’altro ricompensi affettivamente la rinuncia che
abbiamo fatto ad una parte di noi. In realtà, è la
gratuità a misurare il dono autentico, maturo: il dono basta
a se stesso, non cerca la ricompensa, ma solo l’essere presenziale
del tu cui ci si dona. L’unica ricompensa è la gioia che
deriva dall’essersi congedati da sé, senza alcun calcolo,
per lasciarsi riempire dall’altro, in un fecondo gioco affettivo di
Volti.
Il dono di sé, “ritirando le mani” dallo spazio, rinunciando
all’espansione della propria potenza d’essere per dare voce e senso
all’apparire dell’altro, implica necessariamente una robusta etica
della responsabilità, che è poi una calda forma
d’amore.
Leggiamo, in conclusione, Buber: “Una nuova concreta esperienza
del mondo è posta fra le braccia; ne siamo responsabili. Un
cane ti ha guardato, tu sei responsabile del suo sguardo; un bimbo
ti ha preso la mano, tu sei responsabile del suo contatto; una
moltitudine umana si muove intorno a te, tu sei responsabile della
necessità [?]. L’amore è responsabilità di un
Io per un Tu; qui sta quell’uguaglianza, che non può stare
in nessun sentimento, tra tutti coloro che amano; dal più
piccolo al più grande, dalla persona più fortunata e
sicura, la cui vita fu assorbita tutta da una persona amata, a chi
per tutta la vita fu inchiodato alla croce del mondo e può
usare il prodigio dell’amore per gli uomini”.
Fabio Gabrielli
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