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Incontri, viaggi e progetti umanitari. Una luce straordinaria brilla negli occhi di questo grande viaggiatore, scrittore, giornalista, autore di “India mon amour”.
“India mon amour” è un vero e proprio inno
d’amore all’India. Altri scrittori, Moravia e Pasolini, ne hanno
sottolineato il fascino enorme ma nel contempo un’inevitabile
repulsione. È una contraddizione?
Per me l’India è un paese sconvolgente, ma
affascinante. Ho passato cinquant’anni nelle sue strade scoprendo
la vita di un paese-continente di un miliardo e duecento milioni di
abitanti, dove si parlano settecento lingue, dove adorano 20
milioni di divinità. “India mon amour” è realmente un
inno d’amore al paese che mi ha dato i più bei ricordi di
tutta la mia vita. Ho incontrato persone che non potrò mai
dimenticare. Ho passato due anni in una bidonville della grande
città di Calcutta per incontrare gente che non ha niente, ma
che sembra avere tutto perché ha la capacità di
rimanere in piedi per continuare a confrontarsi con una
vita… infernale. Gente che sa come condividere con i
più poveri, gente che può ringraziare Dio per il
più piccolo beneficio. È un inno alla capacità
dell’umanità d’essere grande. Un paese con così tante
dimensioni, colori, rumori. Non è possibile rimenere
indifferenti di fronte a una sua città, alle campagne, al
delta del Gange. Ogni volta che ritorno scopro nuove cose, nuovi
paesaggi, nuova gente. Un microcosmo infinito, magico.
C’è un luogo in particolare che le è
rimasto nel cuore?
La città di Calcutta e la sua bidonville, che in un
altro mio libro chiamo “La città della gioia”. Ma l’India
è tutta piena di sorprese! Il sud è assolutamente
fantastico, mi piacciono molto il calore, i templi. Mi piacciono
anche l’architettura musulmana del nord e le isole del delta del
Gange: cinquantaquattro isole che non esistono sulle mappe
geografiche, dove più di un milione di persone sopravvive in
condizioni inumane. Con la mia associazione ho creato quattro
battelli-ospedale per portare aiuto medico a questa gente.
Un’avventura fantastica.
L’associazione di cui parliamo è “Action pour
les enfants des lépreux de Calcutta”…
Esatto. L’ho fondata con mia moglie Dominique. Grazie ai
diritti d’autore dei miei libri e i doni dei lettori abbiamo oggi
quattordici centri in India, in Africa, nell’America del Sud per
cambiare la vita dei più poveri e dei bambini. Abbiamo
realizzato scuole, rifugi, ospedali, settecento pozzi d’acqua
potabile, abbiamo concesso microcrediti alla gente povera dei
villaggi. Ringrazio anche l’Italia, potrei dire anche “Italia mon
amour” per la generosità che ho riscontrato. Inoltre, nei
miei viaggi umanitari ho incontrato più medici, professori,
infermieri di nazionalità italiana che di ogni altro paese.
Ma questo gli italiani non lo sanno, specialmente oggi.
In India ha avuto modo di conoscere Madre Teresa di
Calcutta…
Per me è stato assolutamente determinante conoscerla,
era un’onda d’amore nelle bidonvilles di Calcutta! Me la ricordo
come una santa: quando arrivai per la prima volta con 50 mila
dollari dei diritti d’autore del mio libro “Stanotte la
libertà” e volevo far qualcosa per i più poveri, lei
mi disse con i suoi occhi pieni d’amore e col suo accento albanese:
“È Dio che vi manda!”.
C’è una canzone che le ricorda i suoi viaggi in
India?
Sì, “La vie en rose” di Édith Piaf: in un paese
come l’India la vita può essere orrenda, ma è tanto
piena di generosità, di gentilezza e di solidarietà
che si dimentica l’aspetto brutto. Per me la vita in rosa
può essere anche in India, nelle bidonvilles di Calcutta,
dove ho imparato questo proverbio: “Tutto ciò che non
è donato, va perduto”. E questo viene detto da gente che non
ha trenta centesimi di euro ogni giorno per sopravvivere!
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