
Le riflessioni di Seneca, filosofo stoico vissuto nella Roma imperiale del I secolo a.C.
Lo sguardo segna in modo irripetibile il nostro stare al mondo e i significati di fondo con cui, tra consapevolezza e passività, lo abilitiamo.
“Preferiamo quindi immagazzinare senza tanti controlli e senza
inventario quel che apprendiamo, accatastare alla rinfusa le nostre
esperienze, seguire automaticamente comandamenti e divieti,
giudicare rozzamente e sbrigativamente quel che ci capita, soffrire
senza interrogarci a fondo sui motivi dell’inquietudine e
sui suoi possibili rimedi. Viviamo, in sostanza, come se fossimo
attraversati da torrenti di concetti e sentimenti torbidi, mossi da
criteri vaghi, immersi in una sorta d’incoscienza accettata come
inevitabile o perseguita come una corazza contro l’orrore del
vivere”.
In questa lucida riflessione di Remo Bodei, tratta dal suo:
Una scintilla di
fuoco. Invito alla filosofia, è sotteso, a mio
parere, quel rinvio alla centralità dello sguardo, e,
quindi, dell’occhio, come segno conoscitivo per eccellenza, al fine
di cogliere i molteplici segni della terra e del cielo e nominarli
con un discorso di senso.
La stessa filosofia
platonica, della quale l’Occidente è
profondamente debitore, è essenzialmente videocentrica:
l’occhio, nel quale si incarna il vedere, è l’organo
privilegiato nell’ordine del conoscere e dell’agire.
Nel Timeo e nella Repubblica, infatti, Platone sottolinea come
l’occhio sia fuoco della luce e del corpo, non abbia bisogno, a
differenza di altri organi di senso, del contatto, e, nella forma
esteriore, sia il più simile al sole, che simboleggia l’Idea
del Bene, cioè il culmine della conoscenza, a
cui conformare la nostra esistenza più autentica.
In questo senso, esercitare gli occhi allo sguardo, alla visione,
significa liberarsi dalla zavorra delle opinioni, delle voci
inautentiche con cui il mondo cerca di intercettare la nostra
esistenza per manipolarla, omologarla, uniformarla secondo
linguaggi e saperi acritici, desertificando, di conseguenza, il
pensiero e amputando i nostri vissuti, le nostre irripetibili
biografie dei loro sentimenti più genuini.
L’occhio, dunque, è segno di uno sguardo verginale, di
una capacità di ri-leggere il mondo con un pensiero
autonomo, consapevole, del coraggio di percorrere
sentieri non ancora battuti, corroborati e fecondati – quasi
abitati da un dio – dallo spirito del viandante che, inquieto,
articola senza posa, in ampiezza e profondità, domande
sempre nuove.
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