L’indecente proposta della nuova legge sulla caccia

La questione venatoria riassume molte delle contraddizioni che oggi investono la “devolution” sulle tematiche ambientali. Con il rischio concreto di stravolgere alcune delle principali regole su cui si basa la tutela della biodiversità.

In campo ambientale, uno degli argomenti che meglio riassumono
l’attuale momento verso la “devoluzione” è forse la
questione venatoria. Approfittando dell’approvazione, lo scorso
settembre, di un disegno di legge sulla caccia in deroga (Ddl.
n.2297) che trasferiva in merito poteri decisionali alle regioni,
numerose di esse avevano proposto ampliamenti dei periodi di caccia
e del numero di specie abbattibili.

Una situazione che, in nome di un poco comprensibile “federalismo
ecologico”, aumentava la confusione con quadri normativi regionali
sconnessi tra loro e quindi inadeguati dal punto di vista biologico
e scientifico a governare una materia tanto complessa e in
contrasto con la legge quadro nazionale n.157/92 e le normative
comunitarie come l’importante direttiva “Uccelli” 79/409. Gli
ambientalisti, attraverso vari ricorsi ai Tribunali Amministrativi
Regionali, hanno bloccato molte di queste iniziative. Ultimo caso
quello del Tar della Puglia, che di recente respingeva la proposta
della regione di allungare la stagione venatoria fino al 28
febbraio (quando di norma in tutta Italia la caccia si conclude al
massimo entro il 31 gennaio) per poter cacciare tordi, cesene e
allodole.

A questo punto alla potente lobby venatoria, (ancora oggi
efficiente ed organizzata nonostante il costante calo di iscritti
che, dal 1974 ad oggi, è sceso da circa 2,2 milioni agli
attuali 730 mila) non rimaneva che tentare una radicale modifica
della legge nazionale, proprio come sta tentando (vedi articolo)
con quella sui parchi.

Dal 22 gennaio 2002 sono infatti in discussione, presso la
Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, ben nove
proposte di modifica alla legge 157/92 che tutela la fauna
selvatica e disciplina l’attività venatoria. Se dovessero
essere approvate queste proposte l’intero territorio italiano,
salvo poche eccezioni, verrebbe aperto alla caccia e sarebbero
stravolte alcune delle principali regole su cui si basa la tutela
della biodiversità nel nostro Paese. Infatti la fauna
selvatica non sarebbe più patrimonio indisponibile dello
Stato ma diventerebbe res ius (cosa di nessuno) nel caso delle
specie migratrici, mentre le specie stanziali sarebbero considerate
patrimonio di non meglio definiti “Comprensori provinciali di
caccia”. Verrebbero ampliati i calendari venatori e le liste delle
specie cacciabili, mentre tutti i reati legati alla caccia
sarebbero depenalizzati, con il risultato che si tornerebbe (salvo
semplice ammenda) a sparare ai rapaci, alle cicogne, agli orsi o ai
lupi. A quel punto abbattere un’aquila o un fenicottero sarebbe
concettualmente analogo ad una multa per sosta vietata.

Armando Gariboldi
naturalista

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