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Per contrastare i cambiamenti climatici, non basta lottare per un nuovo accordo globale. Occorre adottare misure legislative a livello regionale e locale. Il futuro si costruisce a “piccoli passi”.
I negoziati per un nuovo trattato sul clima sono giunti a un punto di svolta. Dopo vent’anni in cui scienziati e attivisti hanno
lottato per portare la minaccia del riscaldamento globale al vertice delle agende politiche dei governi di mezzo mondo, oggi gli addetti ai lavori sembrano consapevoli del fatto che il pianeta non verrà salvato da un unico accordo globale.
Come siamo arrivati a questo punto
L’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992 aveva posto le basi dando vita alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici. Nel 1997 la terza Conferenza delle parti di Kyoto aveva creato il mezzo per spingere i paesi industrializzati a ridurre le proprie emissioni di gas serra.
Copenhagen sarebbe dovuta essere la città dell’inclusione in un trattato vincolante anche di quei paesi in via di sviluppo che negli ultimi tempi hanno conosciuto una crescita vertiginosa delle proprie emissioni per via del rapido sviluppo economico.
Proprio nel 2009 qualcosa si è rotto. È a Copenhagen che si è creato uno scollamento tra i paesi occidentali – i maggiori produttori storici di emissioni di gas serra – e i paesi emergenti come Cina e India che si trovano in vetta alla classifica dei maggiori emettitori di CO2 solo da pochi anni. La realtà, però, è che la situazione è talmente urgente che non è possibile immaginare un accordo che non vincoli anche questi ultimi.
Il circolo vizioso
A chi spetta fare il primo passo? Il senso di proporzione mette i paesi ricchi in questa condizione, ma le ultime notizie rivelano che alcuni paesi occidentali, come Canada e Russia, non sono disposti a vincolarsi senza una previa garanzia da parte dei paesi emergenti creando un circolo vizioso difficile da spezzare.
“La soluzione risiederebbe altrove: nell’approccio building blocks”, afferma Robert Falkner, esperto di relazioni internazionali e governance globale presso la London School of Economics. Un sistema che includa migliaia di piccoli accordi internazionali, nazionali, regionali e locali per fronteggiare la questione mantenendo il ciclo dei negoziati come un appuntamento che funga da “semplice” coordinamento.
“Credo che sia questo il futuro dei negoziati sul clima. È una seconda scelta, ma questo è quanto”, dichiara Falkner. Del resto ormai è chiaro che gli Stati Uniti – gli unici in grado di fermare questa spirale – “sono strutturalmente incapaci di mettere la firma su un accordo globale vincolante” per diversi motivi: dallo scetticismo del partito repubblicano al passaggio obbligato di un trattato internazionale dal Senato americano dove è necessaria una maggioranza di due terzi che ne rende praticamente impossibile la ratifica.
La politica dei piccoli passi
A fronte di un rallentamento dei negoziati internazionali e a sostegno della tesi di Falkner, governi, mercati e altre comunità sembrano aver aumentato gli sforzi – a volte anche con un certo coordinamento – per proteggere le foreste e aiutare i paesi poveri a sviluppare nuove tecnologie in tema di energia pulita. A questo proposito, gli stati più minacciati (come gli arcipelaghi, ben rappresentati dalle Maldive) hanno chiesto a gran voce l’istituzione di un fondo per attuare politiche di adattamento, utili a contrastare gli effetti già in atto del riscaldamento globale, come l’innalzamento del livello dei mari. “Molti ragazzi vanno a dormire ogni notte con la paura che qualcosa possa accadere alla propria casa, soprattutto nei periodi di alta marea”, ha affermato il presidente di Kiribati, Anote Tong durante l’ultima Assemblea generale dell’Onu. Che sia questo il futuro? Mettere in secondo piano la prevenzione per dar spazio a piani contro eventi climatici estremi.
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