Livingston e gli altri uccelli

Milano, Teatro Smeraldo, fino al 30 ottobre, poi Trieste, Brescia, Genova, Bari, Palermo, Rimini, Viareggio, Varese, Sassuolo, Cossato, Forl

Apre lo spettacolo un brano tratto da Gli uccelli di
Aristofane (recitato dalla voce di Claudio Bisio): la citazione
sembra tracciare un’apparente distinzione tra la natura umana e la
stirpe degli uccelli, la prima definita come oscura, debole,
effimera, vana, infelice, incapace di volare. l’altra, la stirpe
degli uccelli, in ossequio alla mitologia classica, invece
immortale, eterna, come la razza primigenia la cui origine risulta
precedente persino alla nascita degli dei.

Una razza più vicina al cielo, quantomeno per il fatto di
abitarlo e percorrerlo in volo.

Non è un caso che il protagonista di Livingston sia un
essere alato. Allontanarsi dallo stormo di origine; conseguire la
propria indipendenza; riunirsi ad un nuovo e più evoluto
stormo; aiutare Alaspezzata, una sua simile in difficoltà;
incontrare Lightbird, il grande saggio; condividere l’illuminazione
finale, il dono della luce, con i compagni: sono queste le tappe
fondamentali del percorso tracciato dallo spettacolo.

Sono anche le tappe di una metafora evolutiva. Che il fine sia
il raggiungimento del supremo, la consapevolezza del sé, il
superamento di una prova fisica o un traguardo intellettuale non
pare determinante.

Lo spettacolo sembra sottolineare l’importanza della ricerca
evolutiva in quanto tale.
È proprio in questo concetto che si realizza il superamento
della distinzione iniziale.

“Sono certo che non può esistere un orizzonte senza una
conquista” è la prima strofa del brano “Oltre i limiti” che
chiude lo spettacolo. È un messaggio universale.

La natura dell’uomo differisce da quella della stirpe degli
uccelli solo per caratteristiche fisiche, non certamente per le
potenzialità o la missione.

Le musiche sono di Andrea Pozzoli.
Stimolato dall’interpretazione gestuale del “volo” secondo i
Kataklò, quelli che erano solo temi musicali ed atmosfere
appena accennate sono diventati un viaggio che ripercorre la
“tensione dell’uomo all’elevazione” attraverso continenti, epoche e
culture diverse.
” Ho così indagato – scrive Pozzoli – ed utilizzato la
vocalità tribale degli Zulù, il ‘popolo del cielo’,
l’uso di rudimentali flauti aborigeni che rappresentano la voce di
una divinità così come le molto più
occidentali e moderne comunicazioni radio tra aerei e torri di
controllo, navicelle spaziali e stazioni orbitali. Ho utilizzato
una scrittura musicale quasi cinematografica, a sottolineare gesti
ed espressioni di chi sul palcoscenico racconta la storia
attraverso il linguaggio del corpo”.

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