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LifeGate all’incontro di presentazione del volume “State of the World 2012, verso una prosperità condivisa”. Abbiamo incontrato uno degli autori, Michael Renner.
L’economia, l’ambiente, il pianeta stesso sta vivendo un momento di
crisi. Ma c’è chi sta cercando il modo di superare tutto
ciò per dimostrare che un’altra strada è possibile.
Uno di questi è certamente Michael Renner,
ricercatore storico del Worldwatch
Institute e codirettore dello State of the World. Lo
incontriamo durante la presentazione del volume “State of the World
2012, verso una prosperità sostenibile”, il rapporto del
Worldwatch Institute dedicato ai temi di Rio e della green economy,
al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.
Alto, dall’aspetto e dall’accento british, racconta con
atteggiamento pragmatico, senza sensazionalismi, cosa ci aspetta
per il prossimo futuro.
Come sta il pianeta oggi, nel 2012?
Credo che gli obiettivi che le nazioni si diedero durante la
Conferenza di Rio nel 1992 fossero molto, molto ambiziosi e che
oggi rimane ancora molto da fare, si è perso troppo tempo.
Certo abbiamo fatto passi avanti, per esempio nel campo delle
rinnovabili; questi sono però solo punti di partenza, una
piccola parte del lavoro.
Lei ha lavorato per il World Wath Institute fin dagli anni
’80. Cosa è cambiato da allora?
Sicuramente è cresciuta l’attenzione ai problemi legati
all’ambiente, in particolar modo nei giovani, i quali hanno capito
che abbiamo bisogno di nuove politiche, di consumare e di produrre
meno rifiuti ad esempio. D’altro canto è chiaro che per chi
si trova ad affrontare problemi economici sia più facile
prestare attenzione all’ambiente e che questo è
comprensibile.
Cosa si aspetta possa accadere nei prossimi
anni?
Quando ne parlo con i colleghi ci rendiamo conto che abbiamo perso
troppo tempo per cercare di raggiungere gli obiettivi di
sostenibilità posti anni fa e ci chiediamo quindi quali
siano le opzioni rimaste, o come si dice in questi casi “qual
è il piano B?”, chiedendoci come possiamo realmente cambiare
le cose.
Ce l’abbiamo quindi un “piano B”, un’uscita di
sicurezza?
Questa è più che una semplice domanda. Cioè
quello che mi chiedo io è se abbiamo una possibilità
di uscire da questo momento senza che questo sia troppo difficile
per la gente? Credo che in gran parte del mondo e soprattutto nelle
zone più povere del pianeta questo stia già
avvenendo, ovvero lì le persone riescono a vivere con meno
risorse. Ora tocca alla parte più ricca del pianeta capire
come vivere in maniera accettabile consumando meno. Penso che
abbiamo ancora spazio di manovra e che dobbiamo renderci conto che
possiamo vivere in maniera diversa continuando a vivere bene.
Quindi è un ottimista?
A volte sì, a volte no. Da una parte credo che questa sia
un’opportunità che abbiamo per mettere pressione ai governi,
alle grosse compagnie affinché agiscano e si prendano degli
impegni precisi.
Si parla di “green economy” come una possibile soluzione,
può realmente esserlo?
Penso che “green economy” significhi automaticamente la creazione
di un sistema che ci permetta di mantenere questo livello, cosa che
però non è più possibile. Penso sia
l’occupazione il tema centrale, ovvero come possiamo cambiare modo
di fare economia creando e mantenendo posti di lavoro. L’economia
può diventare anche verde ma se le persone non hanno il
lavoro come riusciranno a farne parte?
20 anni fa si teneva la Conferenza di Rio, la prima dove di
parlò di sviluppo sostenibile. Cos’è che è
andato storto?
Quello che è interessante da sottolineare è che
quella fu la prima Conferenza Mondiale dopo la fine della Guerra
Fredda e che le aspettative erano molto alte, perché non
c’era più la paura dell’Est o dell’Ovest, ma anzi c’era la
volontà di cooperare. Quello che è successo è
stato di accelerare il processo di globalizzazione portando dei
benifici ma allo stesso tempo portando anche più
instabilità, più vulnerabilità. Penso che se
vogliamo che la sostenibilità sia alla portata di tutti
dobbiamo essere in grado di creare una Istituzione Mondiale che sia
in grado di realizzare quello che ci siam posti nel 1992.
Cosa si aspetta dal prossimo Summit, a Rio?
Ad essere sincero non mi aspetto molto. Penso che abbiamo bisogno
di una costante pressione che venga però dal basso. In
questa ottica sono molto ottimista per quanto riguarda il movimento
“Occupy”, movimento che è consapevole di quello che vuole e
sa come dovrebbe agire la politica in questo momento. Dobbiamo
essere noi gli attori, per primi. Dobbiamo esprimere ciò che
vogliamo e dire loro che non vogliamo più aspettare”.
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