Intervista a Pat Metheny: Jazz for breakfast

Pat Metheny con l’uscita di “The Way Up” riconferma le sue eccezionali doti di maestro del jazz e della fusion.

Intervista a Pat Metheny

 

Trascriviamo l’opinione di un ascoltatore sul nuovo disco:
“Non vorrei creare illusioni perché i gusti sono sempre
soggettivi ma ciò che ascolterete è semplicemente
qualcosa di pauroso, un’esplosione di potenza e di gioia infinita”.
Come la commenti?

Questo è, ovviamente, un grande complimento e sono
lusingato. In quanto al disco devo dire che è piuttosto
unico, essendo una sola singola traccia di 68 minuti; suppongo che
noi tutti abbiamo lavorato verso qualcosa del genere sin
dall’inizio della storia del gruppo. Il significato della band
è proprio questo, “espansione”; trovare modi di cogliere
l’essenziale di questo nostro quartetto ed espanderlo fino al
massimo possibile, in termini di musica, di suono, di composizione
e di spirito. Penso che questo sia il progetto più ambizioso
che abbiamo mai intrapreso e sentire che piace alla gente è
semplicemente fantastico.

 

L’impressione che si ha ad un primo ascolto di “The
Way Up” è che l’aspetto compositivo prenda il posto della
classica improvvisazione su base melodica.

Cerchiamo l’equilibrio fra la parte di composizione e
l’improvvisazione, e raggiungere quell’equilibrio nel modo giusto
è stato uno degli obbiettivi fondamentali per la band nel
corso degli anni. Credo che sia così per chiunque voglia
scrivere usando molte note. Trovare un equilibrio che offra
all’orecchio il meglio sia del compositore che del musicista
è la chiave di quello che abbiamo sempre cercato di fare. Di
solito nel jazz c’è un lavoro di base su cui si improvvisa
in modo ciclico, lasciando la sensazione che la musica si stia
sviluppando mentre viene suonata.

 

Quali sono i dischi che hai ascoltato di recente e
quali ti hanno colpito di più?

Mi piacerebbe avere più tempo per ascoltare più
dischi, ma se ho tre ore libere in una giornata le passo a
esercitarmi con la chitarra, o a scrivere anche se mi viene in
mente di rilassarmi e ascoltare la musica. Ora ho anche due bambini
piccoli, di 4 e 6 anni, che corrono per casa e non è che
puoi sederti e ascoltare una sinfonia, la casa è un po’
“incasinata”. Però, diciamo che ascolto ancora la musica che
ho sempre amato, John Coltrane, Sonny Rollins, Wes Montgomery,
Ornette Coleman, Herbie Hancock, Paul Bley, Bill Evans, tutti gli
artisti che ho sempre amato e amo ancora. Mi piace anche sapere chi
sono i nuovi e che genere fanno, i loro dischi. Mi piacciono molto
Brad Mehldau, fantastico musicista dall’incredibile talento; mi
piace l’E.s.t. (Esbjorn Svensson Trio) Trio, grande band
europea.

 

Si dice che il nuovo disco sia già destinato a
diventare l’ennesima tua grande opera musicale. Dove trovi e quali
sono le tue motivazioni dopo tutti questi anni?

E’ esattamente uguale agli inizi, suonare belle note e trovare
il sound migliore, scoprire cose riguardo alla musica che abbiano
un valore per poterle offrire agli altri così che le possano
ascoltare. Il miglioramento è continuo, negli anni. Ora sono
passati più di trenta anni da quando ho iniziato a fare
dischi, quindi ho più tecnica per entrare nei dettagli. Mi
sento come se fossi più incisivo nel proporre quello che
voglio davvero suonare alla gente.

 

Quanto ti senti un “maestro” e che implicazioni ha
questo nella composizione della musica?

Per me questa questione non esiste, non mi sento di dire
“adesso sono arrivato, so fare ciò che voglio”. Per me la
musica è sempre stata una grande sfida e non mi concedo mai
il lusso di trastullarmi nel successo. Mi confronto sempre con
ciò che faccio in ogni momento. E credo che sia proprio
questo che il jazz insegna. Puoi fare un concerto fantastico a
Milano, ma il giorno seguente dovrai comunque suonare a Roma e
allora non importerà quanto tu abbia suonato bene il giorno
prima a Milano, dovrai dare tutto anche il giorno dopo. Questo ti
mantiene nel “momento”, e credo sia molto salutare. Non puoi mai
dire “eccomi arrivato”. E’ ciò che fai, che conta.

 

Cosa ne pensi delle incursioni della “nuova”
elettronica all’interno del genere?

Vi è un terreno molto, molto fertile nel jazz. Un
potenziale molto interessante che va ancora totalmente scoperto. Ci
sono delle sfaccettature che lo rendono un po’ più
complicato, le dinamiche o il tipo di scambio che la musica jazz
richiede al musicista; quindi metterci in mezzo le macchine
può sembrare un po’ strano. Ma il potenziale inesplorato
rimane enorme.

 

Quest’estate hai suonato a Genova, terra che ha dato i
natali a grandi musicisti, un nome su tutti Fabrizio De
Andrè… Quanto ritieni importanti i luoghi come fonte
d’ispirazione musicale?

Una delle più forti emozioni della mia vita da
musicista è che ho potuto suonare, e molto, in Italia, in
ogni angolo del Paese, e sembra che ogni angolo abbia qualcosa di
incredibilmente speciale e meraviglioso. Non penso vi sia altro
posto al mondo cha abbia così tanta bellezza da offrire come
l’Italia. La Liguria ha qualcosa di particolarmente meraviglioso,
soprattutto sono le emozioni che la gente riesce a trasmetterti.
Non so come mai, ma lì c’è forse uno dei pubblici
migliori, perché ha la capacità di nutrire gli
artisti che vi suonano.

 

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