L’Italia è fatalista, serve un piano di adattamento secondo il geologo Antonello Fiore

Piogge, crolli, esondazioni. L’Italia appare nella morsa dei cambiamenti climatici, ma anche di dissesto idrogeologico e mancata prevenzione. Per il presidente della Società italiana di geologia ambientale, Antonello Fiore, ci vuole un programma decennale per rimediare.

Da Venezia a Matera, dalla Sicilia all’Aurelia chiusa per frana, passando naturalmente per il crollo del ponte sulla A6 all’altezza di Savona e per la strage di alberi in Toscana: da due settimane piogge e forti venti flagellano l’Italia e il suo territorio, portando con loro crolli, frane, esondazioni di fiumi come nel caso del Po e vittime, e dopo una breve tregua il maltempo sta per ritornare. Ma si tratta davvero di eventi climatici talmente eccezionali da piegare intere zone dell’Italia o c’è un problema legato al clima che cambia e alla mancanza di prevenzione del dissesto idrogeologico? A chiarirci le idee è Antonello Fiore, presidente nazionale della Società italiana di geologia ambientale (Sigea).

Antonello Fiore
Il presidente della Sigea Antonello Fiore, insieme al ministro dell’Ambiente Sergio Costa e alla presidente della commissione Ambiente del Senato, Vilma Moronese / Facebook

Dottor Fiore, nelle ultime settimane ha piovuto tantissimo. La prima domanda è semplice: è colpa dei cambiamenti climatici?
È evidente che il regime pluviometrico stia avendo un cambiamento, e che su questo l’aumento delle temperature influisce notevolmente: maggior calore vuol dire più evaporazione, più umidità e quindi un maggior scarico di pioggia quando questo vapore incontro le correnti atmosferiche fredde. Ma il cambiamento climatico non deve essere un alibi: noi geologi ambientali da tempo invitiamo ad adottare dei comportamenti di adattamento che ormai sono necessari.

Quali sarebbero questi comportamenti di adattamento?
Esiste un vero e proprio piano di adattamento climatico, dobbiamo sollecitarne il varo da parte del ministero dell’Ambiente: dicono che è quasi pronto, ma dobbiamo averlo al più presto per togliere alibi quando succede qualcosa alle opere antropiche. Non sto parlando solo del ponte di Savona, ma in generale: dal secondo dopoguerra in poi, abbiamo trasformato il territorio pensando solo agli interessi economici senza preoccuparci del cambiamento.

Quindi sono colpa dell’uomo anche le conseguenze del maltempo, come frane, smottamenti, alluvioni, esondazioni?
Sì, anche se non è solo un problema di manutenzione della struttura. A oggi abbiamo tre problemi: il primo è che nella maggior parte dei casi parliamo di infrastrutture di 40-50 anni che necessitano di manutenzione o di essere rifatte; il secondo è che è il territorio stesso a essere fragile, perché non ce ne siamo mai curati.

E il terzo problema?
Il terzo problema è l’interferenza tra questi due fattori. Strutture vecchie e terreni fragili creano certi disastri, il crollo del ponte di Savona (dove 30mila metri cubi di fango sono precipitati su un viadotto inaugurati all’inizio degli anni Sessanta, ndr) è un caso che andrebbe studiato all’università. Si tratta di un problema ampio che non si risolve neanche con i piani emergenziali: è un problema di cultura e di pianificazione degli interventi che non c’è stata negli ultimi 60 anni, ora ce ne verranno forse la metà per ripianificare al meglio e per stabilire le priorità. Ma anche ai giorni d’oggi leggo di costruzioni in aree collinari in cui sappiamo che il fiume prima o poi esonderà e allagherà tutto….

Creare una cultura del rispetto del territorio dunque è la soluzione migliore a lungo termine?
C’è l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (che all’obiettivo numero 15 recita ‘proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e invertire il degrado dei suoli e fermare la perdita di biodiversità: dovremmo attuarla’, ndr): dovremmo attuarla. Ma queste cose vengono richiamate chiaramente anche nell’enciclica papale.

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Poi ovviamente serve anche monitorare. E avere il coraggio di prendere decisioni forti: alcune opere realizzate nelle zone a rischio esondazioni devono essere rimosse. Bisogna avere il coraggio di dire che certe autorizzazioni a costruire non andavano date, perché creano un ostacolo al deflusso delle acque e mettono a rischio decine di case. Sono cose impopolari ma vanno fatte.

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Anche perché ormai viviamo con una sensazione di emergenza continua, e si continua a intervenire con provvedimenti spot.
A maggio, giugno e luglio parliamo di siccità, dopo l’estate di alluvioni, frane e mareggiate, ma non riusciamo a programmare e cambiare azioni. Devo dire che l’attenzione di questo ministero è notevole, c’è l’impegno da parte del ministro Costa a seguire queste dinamiche ma non può essere un solo uomo a cambiare le cose: deve esserci una presa di coscienza del governo, del parlamento e della popolazione. Mi sembra che noi italiani siamo un po’ troppo fatalisti: se devo costruire la mia casa mi preoccupo tantissimo dei rivestimenti, della rubinetteria, degli arredi ma non di sapere se è stata fetta una perizia o una messa in sicurezza: ripeto, è un problema culturale.

La scuola può essere lo strumento da cui ripartire, proprio per cambiare questa mentalità?
Assolutamente, noi ci battiamo per questo. Ci deve essere una presa di coscienza anche a partire dalle scuole più piccole, con corsi di prevenzione civile e ambientale: i bambini devono crescere con la consapevolezza delle criticità del nostro territorio. Per i grandi invece intanto serve un corso di autoprotezione: non è possibile che muoiono ancora persone intrappolate in auto nei sottopassi, è evidente che nei sottopassi la forza dell’acqua spinge la vettura verso il centro e a quel impedisce l’apertura degli sportelli. Dobbiamo spiegarlo alle persone.

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