A Monteleone d’Orvieto, avvolti dalle verdi colline umbre, ci si ritrova immersi in un’atmosfera d’altri tempi. Due querce bicentenarie ombreggiano la piccola valle e scendendo nella frescura del boschetto composto da roveri, lecci, corbezzoli, olmi, ci si può imbattere in alcuni cavalli che vivono qui allo stato semibrado. Si avvicinano, annusano, ascoltano: sembrano dare il loro benvenuto in questo piccolo spazio dall’atmosfera arcaica e bucolica. Nel versante più assolato vi si scorgono olivi e filari di viti non domata che si inerpicano fin sulle cime della vegetazione circostante. L’architetto Bruno Dorigo, assieme alla moglie Paola e ai due figli, vivono qua da dieci anni “Ci siamo trasferiti nel 1997, lasciando il Veneto, per seguire quello che può essere considerato da molti un sogno, ritornare alla campagna per riscoprire la ‘qualità perduta’“. Nel podere vi si trovano tre antichi edifici, risalenti al sedicesimo secolo, completamente ristrutturati con tecniche, materiali e metodi dell’epoca: “Qui è stato tutto abbandonato negli anni sessanta; una volta arrivati lo scenario era di desolazione, con sterpaglie e rovi tutt’attorno alle tre case ormai crollate”. Continua, rivelando una certa emozione: “mi trovavo proprio in questo punto (la casa alle spalle, le due querce di fronte, n.d.r.) con una coppia di falchi pellegrini che girava sopra la testa, in quel momento ho capito che era il luogo fatto apposta per noi”. Da qui il nome della piccola azienda agricola biologica “Nido del Falcone”. “Per la ristrutturazione non è stato utilizzato nessun materiale esterno – inizia a raccontare – ma ho recuperato tutto ciò che era presente sul posto, dai sassi, alle pietre, alle travi, alle tegole; non c’è presenza di ferro, plastica e cemento, ma leganti e intonaci sono costituiti a base di calce e sabbie locali, che possono durare millenni. Basti pensare alle grandi opere costruite al tempo dei Romani”. La morfologia interna dell’abitazione non è stata modificata per poter utilizzare al meglio esposizione ai venti e al sole. “Una casa che respira – la definisce – dove si sfruttano l’energia solare ed eolica per riscaldare e arieggiare l’interno dell’edificio”. Da qui un utilizzo sostenibile e virtuoso delle risorse: “Pannelli solari posti sul tetto utilizzano il sole per produrre energia la quale viene raccolta in un accumulatore, per evitare dispersioni ed è successivamente ridistribuita sia per il riscaldamento invernale sia per l’acqua calda”. E l’acqua? “In questo caso l’acqua piovana viene raccolta dai tetti in due grandi cisterne, una da ventimila e l’altra da dodicimila litri e utilizzata ad uso irriguo a polverizzazione, quindi con un notevole risparmio idrico. Per l’acqua potabile utilizziamo due pozzi artesiani posti a 75 metri di profondità e attivati ciascuno da una pompa”. È importante sottolineare come tutto questo sistema sia controllato tramite un semplice computer: “La tecnologia è fondamentale per un utilizzo sostenibile e corretto delle risorse; questo evita sprechi e dispersioni, l’acqua e l’energia vengono usate solo quando ce n’è bisogno”. Continuando la piacevole conversazione l’attenzione si sposta sui cavalli scorti pascolare in libertà, animali domati con metodi dolci, secondo la tecnica proposta da Monty Roberts, definito dalla letteratura come ‘ l’uomo che sussurra ai cavalli ‘. “La cosa fondamentale – spiega Dorigo – è quella di instaurare un dialogo tra uomo e cavallo utilizzando comportamenti analoghi a quelli che usano tra loro allo stato selvatico; il cavallo è un animale gregario per natura – continua – e si sente in pericolo quando è isolato dal branco; in questo modo l’uomo rappresenta il branco a cui il cavallo decide di aggregarsi per non rimanere da solo e per cercare protezione. Questo tipo di doma non prevede metodi coercitivi ed il cavallo durante il lavoro è sempre libero di mettere in atto la fuga che, in natura, è il mezzo di difesa primario. Si instaura così un rapporto di leadership e subordinato, non più di preda e predatore“. “Questo metodo – spiega – è definito ‘ join up ‘ e tenta di realizzare un’associazione tra uomo e cavallo basata sulla fiducia e sull’accettazione reciproca; è l’animale che, sereno, si fa cavalcare, utilizzando nei suoi confronti solo comandi vocali e leggeri movimenti”. La teoria diventa pratica quando Bruno chiama con un semplice fischio uno dei cavalli; quest’ultimo gli si avvicina, lo saluta con un leggero nitrito e dà segno di accettazione abbassando la testa più volte, per poi seguirlo per una tranquilla passeggiata.