Padre Alex Zanotelli è un missionario Comboniano, ha vissuto per molti anni nelle baraccopoli di Korogocho in Kenya e nei slum di Nairobi. Negli anni ’80 è stato direttore della rivista Nigrizia, denunciando i legami dell’Occidente col traffico d’armi nei paesi terzi. Oggi vive a Napoli con un gruppo di tossicodipendenti, scrive libri e fa conferenze sulla guerra e sui meccanismi socio-economici collegati. LifeGate lo ha incontrato al culmine della crisi irachena. Cosa direbbe a un politico pro guerra per convincerlo del contrario? Con la violenza a cui siamo arrivati, oggi basta accendere un fiammifero per far scoppiare tutto. Io penso che ogni guerra è profondamente ingiusta. Prima di tutto perché facendo la guerra si investe in armi. Invece di investire in vita investiamo in morte ed è proprio per l’uccisione di così tanta gente che le armi servono. Ma servono anche per difendere i privilegi della minoranza di questo mondo. Ecco perché non posso accettare che una guerra venga chiamata giusta o inevitabile, come succede anche per la guerra all’Iraq. Cosa direbbe invece a un normale cittadino? Cercherei di aiutarlo a ragionare. Io sono convinto che tutti esterniamo la violenza che è dentro di noi. La società arriva a fare le guerre per pregiudizi, rifiuti, rabbie e vendette che si assommano. E’ importante che le persone capiscano che la violenza viene da dentro e poi diventa istituzionale. Ma come si percepisce che la causa della violenza è dentro di noi ed è peccato, così si può anche percepire che il prodotto finale, cioè la guerra, è peccato e non si può accettare. Al cittadino privato parlerei della logica della vendetta, del sangue che porta altro sangue, di violenza che porta violenza. Chi lo capisce può avere il coraggio di applicarlo a un contesto economico e politico. La guerra porta povertà. Quali sono gli effetti più devastanti della povertà? Estrema povertà, ma anche estrema ricchezza, producono un forte individualismo. Fanno scattare meccanismi di bramosia, invidia, rabbia. Ma soprattutto fanno degradare le persone in quanto non si sentono esseri umani, con dei valori ma come bestie ossessionate dai bisogni. Un degrado spaventoso che uccide quello che nelle lingue bantu chiamano “Utu”, cioè l’essere o l’umanità. Lei è anche un esperto dell’Islam. Pensa che le tensioni tra le diverse religioni causano uno scontro tra civiltà? Senza dubbio ci sono dei problemi religiosi. Fondamentalismi nell’islam come nel cristianesimo, ma anche nell’ebraismo e nell’induismo causano sempre problemi. E’ chiaro che queste visioni, se strumentalizzate, possono diventare fonte di conflitti. In genere le guerre nascono per problematiche economiche come il controllo delle risorse. Però sono profondamente convinto che la violenza non è qualcosa di sociale. La violenza viene da dentro e poi diventa violenza istituzionale, della società. Il marxismo sosteneva che l’uomo fosse buono ed è la società a renderlo cattivo, dunque basta cambiare la società. Ma abbiamo visto che non è così. Nella religione cristiana si è sempre detto “cambia l’uomo e anche la società cambia”. Ma purtroppo anche questo non basta e non sempre si dimostra vero. Il cambiamento autentico viene dall’uomo man mano che riesce a uscire dal proprio ciclo di violenza. Questo meccanismo va poi riportato su scala più grande per farlo diventare un principio politico ed economico, altrimenti la realtà ci riporterà a essere quello che eravamo prima. Dobbiamo far cooperare questi due principi. La convinzione personale come insieme di valori deve sapersi tradurre e trovare una dimensione economica, politica e sociale. Lei che ha visitato tante parti del mondo ha un luogo particolare dove ama rifugiarsi ogni tanto? Da poco vivo a Napoli con un gruppo di tossicodipendenti. Di tanto in tanto cerco di trovare dei momenti miei, più intimi, perché giudico fondamentale nella vita di un uomo la possibilità di contemplare. Pensare con tutto il corpo fa riflettere su ciò che avviene nel mondo. Per questo a volte mi isolo da qualche parte, ma è più uno stato d’animo interiore che non è legato a un luogo. Rita Imwinkelried