Londra, inverno 1996. In una camera d’albergo Mark Linkous, giovane cantautore a capo della band Sparklehorse, cerca in tutti modi di rilassarsi per far sparire quell’emicrania che lo tormenta ogni ora del giorno. Finestre chiuse, tappi nelle orecchie, un po’ di musica per calmarsi, ma niente da fare: non c’è pace. Solo un anno fa Mark debuttava con la Capitol Records e incideva il primo album; da subito considerato un vero talento e un autentico un caso musicale, Linkous aveva affascinato tutti con quel suo mix di elettronica e britpop. Tanto che, dopo solo un anno, viene chiamato dai Radiohead, per aprire le date europee della band di Tom Yorke. Ma una vita frenetica e disordinata, stress e ansia da prestazione rappresentano un peso insopportabile per le spalle di un artista dalla personalità fragile e fuori da ogni controllo. Dopo averle provate tutte, Mark Linkous passa alle maniere forti: ingerisce un cocktail di alcool, antidepressivi, valium ed eroina. L’effetto è talmente devastante che Mark, senza accorgersene, sviene all’istante mentre è seduto a gambe incrociate, una posizione che rischia di essergli quasi fatale perché gli blocca la circolazione. Resta per due minuti senza battito cardiaco. Quando ritorna alla vita, i medici, avvertiti da un membro dello staff, stanno già compilando il certificato di morte. Alla fine il tutto si risolve così: 12 settimane all’ospedale Saint Mary di Londra, quindi altri tre mesi in sedia a rotelle, quindi tutori per le gambe per il resto della vita. Il talento, il successo internazionale che negli anni riesce a conquistarsi, non bastano però a Linkous per combattere i suoi demoni: il 6 marzo 2010 muore suicida sparandosi un colpo di fucile davanti casa di un amico a Knoxville, Tennessee. Con lui finisce la leggenda di Sparklehorse.