Tessa, moglie di Justin, un diplomatico inglese nel Kenya, ed impegnata contro i monopoli occidentali nei paesi del terzo mondo, viene trovata morta durante un viaggio in una località del Kenya. Da qui, si ricostruisce la sua vita, i suoi movimenti, le sue azioni, il suo impegno, la sua tenacia, contro il suo stesso rischio di vita. Un continuo rimbalzare tra passato e presente, tra ricordo e tempo attuale, tra situazioni veloci e momenti sospesi, ci rende l’idea di una vicenda torbida: una vicenda in cui due multinazionali farmaceutiche, per portare avanti le sperimentazioni su un farmaco antitubercolosi, non esitano a provare il prodotto su persone considerate “sacrificabili”: spesso abitanti del Kenya colpiti da malattie giudicate incurabili come l’Aids. Una storia che apre grandissimi problemi etici, ma soprattutto molti interrogativi. Tra i quali uno emerge di forza: quale è il limite del lecito, e se è possibile che la volontà di profitto si possa spingere sino all’ignorare i più elementari diritti dell’essere umano, quali quello alla vita. Ancora, emerge il fatto di una campagna propagandistica falsa, contenente uno stimolo alla paura, come il far credere che, in tre anni, una grande parte della popolazione sarà affetta da tubercolosi. Una strategia purtroppo diffusa, se consideriamo soprattutto che l’uomo, a differenza di altre specie animali, reagisce anche a pericoli immaginati. E che, il far credere di essere in pericolo, è un modo per convincere le persone a comperare un prodotto. Il tono narrativo, anche quando veloce, è sempre quasi sospeso in una dimensione di irrealtà. Esiste sempre un’aura di quiete implosa, di anticipazione per qualcosa che potrebbe accadere. I toni sono sempre impregnati di una forte intensità. Una dimensione in cui il tempo sembra non esistere, in cui passato e presente si vanno a toccare, in cui ciò che è vita vissuta e ciò che è altro vengono a coincidere. Come se ogni situazione si specchiasse in un’altra, e tutto divenisse parte di un unico disegno. Come se le immagini sul computer di Tessa si riflettessero nella realtà della vita, e ne costituissero un tutt’uno, che va a legare mondi e anche tempi differenti, facendoli sovrapporre. A tratti, il film ha le movenze di un thriller. A tratti, invece, sfocia nel ricordo, in quello che è stato, nei momenti d’amore tra Justin e Tessa. A tratti accelera, quasi vorticosamente, rimbalzando da Nairobi a Londra, dirigendosi poi a Berlino, sino ad uno sperduto villaggio del Sudan. Dove arrivano medicinali scaduti, buoni solo per essere bruciati. Simbolo, anche questo, della considerazione in cui queste popolazioni sono tenute da chi dovrebbe aiutarli. E dove, forse, i predoni del deserto costituiscono una minaccia ancora minore di un’altra, molto più velata e soffusa, soprattutto perché nessuna legge può perseguirla: anzi, la legge, purtroppo, la va a difendere ed appoggiare. Il regista di “City of God”, che là aveva descritto evidenti situazioni di violenza, qui ci va a presentare una violenza più fine e sottile. Là, un qualcosa di palese, di evidente, in una realtà suburbana alienante ed alienata; qui, invece, una violenza più difficile da percepire ad occhio nudo. Una violenza velata di umanità, di aiuto; un’aggressività mascherata da spirito umanitario. Un seminare morte facendo credere di seminare vita, un diffondere sofferenza facendo passare il tutto per anelito verso il benessere e l’aiuto. Forse questa violenza è ancora peggio della precedente: infatti, qui il tutto è così nascosto da essere difficile da controllare. Una facciata di luce nasconde un retroterra oscuro, torbido, tetro. Quel retroterra contro il quale Tessa va a battersi. Incurante dei rischi che poteva correre. Contro il quale lo stesso Justin andrà a combattere, tra mille pericoli, nei confronti di persone “al di sopra di ogni sospetto”, la cui diffusione di morte è tanto peggiore quanto nascosta, occultata tra le pieghe della vita. Forse una concezione per la quale, in nome di un presunto sviluppo (quasi solo di capitali personali, però!), un sacrificio si rende giustificabile. Anche se quelle che sono sacrificate sono vite umane, persone inermi che si trovano a subire autentiche atrocità da parte di coloro che sarebbero preposti a venir loro in soccorso. Storie di paura. Soprattutto di chi è potente, e può disporre anche della vita altrui. Storie di contrasti, presenti ed evidenti. Tra la ricchezza e l’opulenza delle feste dei diplomatici e la povertà della gente “comune” del luogo, tra chi non ha a, nemmeno per curarsi, e chi “spende gli aiuti umanitari in limousine” (secondo le parole di Tessa). Storie purtroppo diffuse, nel nostro mondo, dove sovente la civiltà interna coincide con grande inciviltà ed incuria esportate al di fuori. Anche qui, infatti, si ritrova il tema dei pesticidi. Trattato anche in altri film. Ma, in fondo, questi ultimi sono una sorta di “farmaci per le piante”. Non sempre dati a ragion veduta. Il film non è sicuramente una critica all’industria farmaceutica in generale, ma di certo ad un modo di condurre esperimenti incurante della vita stessa di persone considerate più “deboli”. Il problema potrebbe estendersi anche alle realtà del nostro civilizzato mondo occidentale. Nel quale, troppo spesso, monopoli farmaceutici impediscono una vera ricerca globale sull’argomento, permettendo altresì la diffusione di prodotti dichiaratamente tossici (i quali, purtroppo, non sono così pochi!). Forse, alla base di tutto, ci deve essere uno sguardo diverso sull’Uomo. Per capire che tutti siamo uguali, e nessuno è veramente separato dall’altro. E per imparare a guardare il nostro rapporto con la natura e con la totalità delle cose in modo differente. Questi, probabilmente, sono i veri pilastri per una vita migliore, e per una gestione del denaro veramente “etica”. Quando tutto questo potrà essere il nostro presente (se mai lo sarà!) le storie di Tessa saranno solo ombre del passato. Ed in quel caso, ci avranno davvero insegnato qualcosa. Sergio Ragaini