Il maestro cominciò la forma senza parlare, l’aria selvatica del maestrale gli scompigliò i capelli e la risacca del mare prese a respirare a ritmo coi suoi polmoni. Fu il segnale di inizio: come gli uccelli lasciano l’albero a migliaia insieme, così noi, allievi di ogni età, mestiere e storia, lasciammo i nostri corpi andare, partire per un nuovo viaggio, insieme. Sentii le gambe flettersi e accogliere il peso del corpo in principio cigolando, come le funi dell’albero maestro in barca quando le vele scoppiano di vento. Sentii le braccia levitare senza peso e le mani accarezzare la brezza marina con amore e con amore esserne carezzate. Sentii le anche ruotare lente e imprimere al tronco morbide spinte di possente energia. L’aria entrava e usciva dal mio ventre, sola, senza desiderio e senza volontà, guidata da nessuno. Ma sapeva dove andare e ci andava ridendo, con gioia, che mi vuotava dentro come acqua di fonte per innaffiare di voglia di vita le radici del mio sé. Un gabbiano veleggiò a lungo sopra di noi, immobile: ero io. Era anche il mio compagno di sinistra. E quello di destra e davanti e dietro… quel gabbiamo era tutti e nessuno, era sé stesso e il cielo, era come noi fermo e in movimento. Era un battito di ciglia dell’universo che ci faceva compagnia. Sentii il suo grido acuto di saluto arrampicarsi nei meandri delle orecchie e incastonarsi nella mia memoria come una canzone d’amore che non avrei scordato più. Sentii il fuoco che mi accendeva un ceppo di legna nelle mani, sentii la mente sciogliersi dentro le cellule del corpo, sentii lo sterno aprirsi, come la gabbia dei canarini: il mio cuore cinguettò, uscì danzando e volò via dietro il gabbiano. Fulvio Fiori scrittore