
Lo scienziato francese Aurélien Barrau ha scritto un libro in cui racconta perché la lotta per la vita sulla Terra è la madre di tutte le battaglie.
Il dolore reclama un suo riconoscimento, ricondancoci la nostra precarietà esistenziale. Dobbiamo condividerlo poiché ne rechiamo i segni
Lotta sofferenza e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua esistenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su questa conoscenza – che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa.
Questa potente riflessione di Nietzsche, ci rammenta, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il tragico, il dolore, si configura come elemento che contrassegna in modo inequivocabile il nostro stare al mondo, alimentato dalla memoria che da sempre ricorda all’uomo come la sua apertura di senso sulle cose rechi con sé il marchio della finitezza e di una felicità che, per ricordarla con le superbe parole di Jankélévítch, accade nel mondo come evento balenante, come:
La tangenza di una vetta e di un punto culminante, di un batter di palpebre e di un batter d’occhio, di un’occorrenza e di un intervento: è questa la felicità che è eudaimonía, la buona chance che è eutychía; ma poiché quaggiù ci sono solo simultaneità-lampo, la buon’ora, ora, non sarà mai altro che un buon momento?.
Insomma, la felicità, intesa come appagamento totalizzante e perfetto compimento di noi stessi, ci appare come manifestazione di un evento transitorio, quasi un dono furtivo degli dèi, a differenza della serenità, che sembra abitarci come condizione più consueta, là ove è intesa come manifestazione luminosa, vitale del nostro stare al mondo, ma con una sua fragilità interna, un continuo rinvio alla nostra ineludibile finitezza.
Il dolore, infine, reclama un suo riconoscimento, ammonendoci, da un lato che siamo contrassegnati da una precarietà esistenziale di fondo , e dall’altro che dobbiamo condividere il tragico sofferenza e dolore – convogliandolo in un’autentica “com-passione”, poiché il volto che ne reca i segni, la carne che ne rammenta le lacerazioni, l’anima che, sbigottita, ne annuncia l’apparire non sono solo esperienze individuali, ma rinviano all’universale: ognuno di noi è chiamato in causa come essere attraversato, in una sorta di consonanza cosmica, dalla possibilità di soffrire, oltre che, naturalmente, dalla possibilità di sperimentare forme autenticamente serene d’esistenza.
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