
Vida Diba, mente di Radical voice, ci parla della genesi della mostra che, grazie all’arte, racconta cosa significhi davvero la libertà. Ed esserne prive.
L’Unione europea ha vinto il premio Nobel per la pace 2012.
Non è la prima volta che il premio Nobel per la pace viene assegnato a
un’organizzazione invece che a una persona fisica. In passato sono
state onorate del premio realtà impegnate su diversi fronti.
Dalla Croce rossa, che lo ha ricevuto per tre volte nel 1904, nel
1944 e nel 1963, ad Amnesty international (1977). Dall’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (1954) alle
Nazioni Unite vere e proprie che lo hanno ritirato nel
2001.
Le motivazione principale che ha spinto il
comitato a prendere questa decisione all’unanimità è
l’aver “contribuito per più di sessanta anni al progresso
della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti
umani in Europa”.
In quanto europei dovremmo essere onorati e
dovremmo sentirci tutti vincitori. Prima dell’avvento della crisi
finanziaria che ha rivisto le priorità in favore dell’adozione
di politiche economiche comuni, l’Europa ha sempre avuto un ruolo
fondamentale per sviluppare la sfera dei diritti. Non è un
caso se ancora oggi il rispetto diritti umani è una condizione
necessaria per entrare a far parte dell’Unione e se Bruxelles
continua a guidare la battaglia in difesa dell’ambiente su più
livelli, da quello individuale a quello
internazionale.
Le cose che lasciano perplessi, però,
sono due: la prima è che forse il premio di otto milioni di
corone norvegesi (circa 900mila euro) sarebbe stato più utile
se fosse finito nelle casse di una ong o di un’associazione che non
gode dell’aiuto economico dei governi; la seconda è che il
premio sembra più utile quando riconosce l’impegno di una
persona che lavora nell’ombra. Chi di noi, se non fosse stata
premiata lo scorso anno, avrebbe conosciuto la storia di Ellen Johnson Sirleaf e il suo impegno per i diritti e
la partecipazione delle donne nella vita politica della
Liberia?
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