Diritti umani

Phil Robertson. C’è stata pulizia etnica e apartheid contro i rohingya secondo Human rights watch

Per Phil Robertson di Human rights watch si può parlare di pulizia etnica contro i rohingya. E Aung San Suu Kyi ha le sue responsabilità.

Affamati. Lasciati senza istruzione. Impiegati come schiavi. Detenuti senza processo. Abusati e minacciati. Uccisi da squadroni razzisti. Privati di ogni documento e del diritto a votare. Costretti a ottenere permessi speciali per essere curati o per partorire in ospedale, con la conseguenza che donne incinte e neonati sono morti per ‘ritardi burocratici’. Quella del popolo musulmano rohingya è una storia di persistente esclusione nel Myanmar a maggioranza birmana (o bamar) buddista. L’ex Birmania dice di avviarsi verso la democrazia, ma continua a negare a questa minoranza la cittadinanza e a imporgli un regime di apartheid.

Leggi l’intervista al professor Thierry Di Costanzo

L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, firmato dall’Alto commissario per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein, parla di “discriminazione sistematica” e “continue violazioni dei diritti umani”, che potrebbero essere giudicati più gravemente in futuro come “crimini contro l’umanità”.

SITTWE, Birmania - 17 Maggio 2016: una donna Rohingya nutre il suo bambino di un mese nel campo per sfollati Baw Du Pha. All'inizio di maggio un incendio doloso ha distrutto 56 case e lasciato 2.224 persone senza un tetto.  (Photo by Lauren DeCicca/Getty Images)
SITTWE, Birmania – 17 Maggio 2016: una donna Rohingya nutre il suo bambino di un mese nel campo per sfollati Baw Du Pha. All’inizio di maggio un incendio doloso ha distrutto 56 case e lasciato 2.224 persone senza un tetto. (Photo by Lauren DeCicca/Getty Images)

Il quadro della situazione

Le persecuzioni dei rohingya durano da quando la giunta militare birmana prese il potere nel 1962 e si sono inasprite dal 2010 a oggi, proprio durante la cosiddetta transizione democratica. Nel 2012 le comunità minoritarie dei musulmani rohingya, che vivono nello stato occidentale Rakhine (già Arakan), sono state bersaglio di attacchi da parte di fondamentalisti buddisti, con interi villaggi rasi al suolo, centinaia di morti e decine di migliaia persone in fuga. Nel 2015 il golfo del Bengala e il mare delle Andamane sono divenuti teatro di una crisi migratoria, gestita da trafficanti di esseri umani. Attualmente si contano fino a 130mila sfollati in squallidi campi del Rakhine (territorio birmano), oltre 53mila profughi in Malesia e circa 370 – rohingya e bengalesi – morti in naufragi. Altri esuli sono spariti.

Un musulmano indiano manifesta con un cartello raffigurante Aung San Suu Kyi e la scritta "Non appoggiare la violenza con il silenzio". Copyright Getty
Un musulmano indiano manifesta con un cartello raffigurante Aung San Suu Kyi e la scritta “Non appoggiare la violenza con il silenzio”. Copyright Getty

L’Occidente ha celebrato la vittoria schiacciante della Lega nazionale per la democrazia al voto parlamentare dell’anno scorso. Ha esultato all’insediamento di Htin Kyaw alla presidenza e della leader storica Aung San Suu Kyi al ministero degli Esteri. Tuttavia lo stesso Occidente fatica ad accettarne le pieghe oscure dopo i festeggiamenti. Sui rohingya, la paladina della democrazia, simbolo dell’opposizione alla ex giunta militare, continua a domandare tempo e spazio e per questo è stata molto criticata dai difensori dei diritti umani. Nel 1982 la giunta legiferò per concedere la cittadinanza a 135 gruppi etnici, con l’eccezione dei rohingya. Oggi oltre un milione di persone è “invisibile” allo Stato che considera erroneamente i rohingya “immigranti illegali” e “bengalesi”. Però, anche in Bangladesh, dall’altra parte del confine, i rohingya non sono benvoluti. La loro unica destinazione per ora è il ghetto.

Chi è Phil Robertson

Phil Robertson, vicedirettore della divisione asiatica di Human rights watch, insiste sul fatto che contro i rohingya si sia compiuta una pulizia etnica e non solo crimini contro l’umanità. Robertson ribadisce in questa intervista ciò che Hrw aveva già denunciato in un dossier del 22 aprile 2013.

YANGON, MYANMAR - 22 maggio 2016:  fondamentalisti buddisti e nazionalisti chiedono al governo di bandire il nome 'rohingya' nella capitale economica Yangon. (Photo by Aung Naing Soe/Anadolu Agency/Getty Images)
YANGON, MYANMAR – 22 maggio 2016: fondamentalisti buddisti e nazionalisti chiedono al governo di bandire il nome ‘rohingya’ nella capitale economica Yangon. (Photo by Aung Naing Soe/Anadolu Agency/Getty Images)

Cos’è accaduto dalla pubblicazione del vostro rapporto del 2013? Le condizioni dei rohingya sono peggiorate o ci sono stati dei segnali di miglioramento?
Tristemente, ci sono stati pochissimi segni di progresso. L’ultimo rapporto Onu riscontra correttamente che discriminazioni sistematiche e abusi dei diritti contro i rohingya continuano ogni giorno; che essi rimangono isolati e senza accesso a cibo adeguato, assistenza medica, mezzi di sussistenza, istruzione e altri servizi basilari. L’unico cambiamento significativo è stata la revoca dello stato d’emergenza che era stato imposto a tutto il Rakhine dopo le violenze del 2012. Ma ordinanze e restrizioni locali proibiscono ai rohingya di godere dei diritti fondamentali come la libertà di movimento. Il rapporto Onu è particolarmente duro verso il continuo, arbitrario e sommario uso del potere da parte della polizia e delle forze di sicurezza per arrestare, estorcere e abusare dei rohingya, senza alcun buon motivo. Ciò dimostra ancora una volta che davvero la comunità internazionale è l’unica speranza per interrompere questa situazione inaccettabile e chiedere al governo del Myanmar di agire, meglio.

Si può parlare di stallo?
No, piuttosto sono i rohingya a essere rinchiusi, confinati e abusati poiché non possono uscire dai campi per sfollati o dai loro villaggi. Sono tenuti in ostaggio da una politica discriminatoria che li tratta come se non fossero esseri umani. Queste restrizioni assomigliano a quelle utilizzate dal governo sudafricano bianco nei bantustans durante il regime dell’apartheid. Ma dov’è l’indignazione internazionale adesso? Perché Roma non si prende in carico presso l’Unione europea di chiedere giustizia per i rohingya?

SITTWE, Birmania - 18 maggio 2016: bambini Rohingya giocano vicino al campo per sfollati di  Sittwe. (Photo by Lauren DeCicca/Getty Images)
SITTWE, Birmania – 18 maggio 2016: bambini Rohingya giocano vicino al campo per sfollati di Sittwe. (Photo by Lauren DeCicca/Getty Images)

Aung San Suu Kyi ha chiesto di non usare il nome rohingya e di avere pù spazio per affrontare la situazione: è una politica cauta o sbagliata?
Aung San Suu Kyi sta fondamentalmente sbagliando nel rifiutare di usare il termine “rohingya” e chiedendo di farlo anche ai diplomatici a Yangon. Ogni gruppo di persone sul pianeta ha il diritto di decidere come desidera essere identificato. La negazione di questo diritto da parte di Suu Kyi è una macchia nera per l’attuale governo del Myanmar in tema di diritti umani. Per i diplomatici è il momento di essere coraggiosi, di dirle pubblicamente che è in errore e che questa politica renderà più difficile, non più facile, risolvere la situazione nello stato Rakhine.

L’Onu denuncia “possibili crimini contro l’umanità”, ma non parla di “pulizia etnica” come voi di Hrw. Quanto è importante dire la verità e usare le parole più corrette per migliorare la situazione umanitaria?
Hrw ha condannato sia i crimini contro l’umanità sia la pulizia etnica che è stata compiuta contro i rohingya nel giugno e nell’ottobre 2012. Entrambi questi termini sono assolutamente applicabili alla situazione attuale nel Rakhine. La comunità internazionale non dovrebbe spezzettare le parole. Se non ci si esprime chiaramente, il governo del Myanmar continuerà a pensare di poter usare la diplomazia per cercare di uscire dal problema senza rispondere dei crimini perpetrati dalle forze governative.

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