Il Gazometro, emblema dell’archeologia industriale della Capitale, è al centro dei progetti di rigenerazione urbana che stanno interessando il quartiere Ostiense.
Dal 1937 svetta sullo skyline della città eterna, tra monumenti più antichi e decisamente più famosi. Eppure, il Gazometro si è ritagliato uno spazio di rilievo non solo all’interno del quartiere nel quale sorge – l’Ostiense – ma nell’intera città di Roma. Questa grande struttura metallica di forma cilindrica è ora al centro di una serie di progetti di rigenerazione urbana che stanno ridisegnando il volto del quartiere più vivace della capitale. Da tipico esempio di archeologia post-industriale, simbolo di un passato che ormai non c’è più, questo luogo si candida a diventare un’icona del futuro culturale e artistico della città.
È praticamente impossibile scindere la storia del Gazometro da quella del quartiere Ostiense, perché sono entrambi legati a doppio filo al passato industriale e alla trasformazione urbanistica di Roma. Il nome del quartiere deriva dall’antica via Ostiense, che collegava la città al porto di Ostia. Proprio la presenza del fiume Tevere, del porto fluviale e del Ponte dell’industria (inaugurato nel 1863 e noto come Ponte di ferro), insieme allo scalo Ostiense, all’epoca principale scalo ferroviario della città, ne favorirono, alla fine dell’Ottocento, la trasformazione da zona agricola ad area industriale. Questo luogo, da sempre dedito agli scambi commerciali, fu scelto come sito ideale per l’approvvigionamento di materie prime e lo smistamento delle merci. Di pari passo, iniziò la costruzione delle principali infrastrutture che ancora oggi caratterizzano questo territorio: il Mattatoio nel quartiere limitrofo di Testaccio (1888-1891), la centrale elettrica Montemartini (1912) e i Mercati generali (1913).
Questo sviluppo proseguì con la costruzione del grande Gazometro, il gigante di ferro alto quasi novanta metri, dal diametro di 63 metri. Edificato nel 1935 dall’Ansaldo di Genova e dalla Klonne Dortmund con tremila tonnellate di ferro, entrò in funzione due anni dopo con una portata di 200mila metri cubi di gas, diventando il più grande d’Europa per l’epoca. Questa enorme struttura – messi in fila, gli oltre 1.500 pali infissi raggiungerebbero una lunghezza complessiva di 36 chilometri – serviva a immagazzinare il gas prodotto dallo stabilimento adiacente per poi servire l’illuminazione pubblica e, in un secondo tempo, anche le abitazioni.
Accanto alla struttura principale vennero sorgevano altri tre gazometri più piccoli, edificati tra il 1910 e il 1912 e ognuno con una sua destinazione: uno fu convertito in un impianto per la riduzione della pressione del gas, un altro divenne un edificio tecnico che ospitava una centrale termica e spazi di stoccaggio, mentre il terzo fu trasformato in un parcheggio multipiano.
Tutto cambiò nei primi anni Sessanta, con la diffusione del metano e alcuni profondi mutamenti legati al boom economico che portarono alla dismissione di molte delle grandi industrie dell’Ostiense, compreso il Gazometro. Il gigante di ferro concluse così la prima fase della sua vita. Ma la seconda fase era solo all’inizio: ciò grazie alla scelta di rimuovere la parte interna che conteneva il gas, mantenendo però intatta la maestosa struttura metallica esterna. E così alla città di Roma fu regalato un “terzo Colosseo”: dopo l’Anfiteatro Flavio dell’80 d.C. e il Palazzo della civiltà italiana di epoca fascista (noto come “Colosseo quadrato”), anche il “Colosseo di ferro” divenne un elemento distintivo dello skyline romano.
Più che un semplice esempio di archeologia industriale, il Gazometro è una struttura che fa da ponte tra il passato e il futuro del quartiere. Preservarne la struttura ha consentito, da un lato, di mantenere intatto un emblema dei trascorsi industriali dell’Ostiense e, dall’altro lato, di ispirare e orientare proprio intorno ad esso i progetti di riqualificazione della zona. Progetti che negli ultimi anni sono incanalati in maniera sempre più decisa nel solco della rigenerazione urbana.
A una prima impressione, spiega il direttore generale dell’Università Roma Tre, Alberto Attanasio, “rigenerazione urbana e riqualificazione urbana possono sembrare termini equivalenti, ma in realtà nascondono differenze profonde e sostanziali. La riqualificazione urbana si concentra su interventi mirati a migliorare l’aspetto estetico e la funzionalità di una specifica area cittadina, puntando su elementi quali il restauro di edifici, la ristrutturazione di strade e piazze, e la creazione di spazi verdi. Questi interventi, per quanto preziosi, agiscono prevalentemente sulla superficie, senza alterare la vocazione originaria del territorio”.
La rigenerazione urbana mira a ripensare profondamente il tessuto urbano, reintroducendo funzioni coordinate e compatibili che possano restituire nuova vita e significato a un’area cittadina che ha perso il suo ruolo originario.
Alberto Attanasio
“Questo processo, spesso più lungo e complesso, richiede una visione strategica e integrata, capace di coinvolgere la comunità locale e di creare un nuovo equilibrio tra esigenze economiche, sociali e ambientali”, prosegue Attanasio.
In sostanza la rigenerazione urbana è un concetto che, oltre alla riqualificazione fisica di un luogo, riguarda anche aspetti sociali, culturali, economici e ambientali. Non ci si limita ad evitare la demolizione di una struttura per costruirne una da zero: si cerca di andare oltre, coinvolgendo in maniera diretta le persone che abitano quel territorio per promuovere un nuovo modello di città inclusiva e sostenibile, in linea con l’obiettivo 11 dell’Agenda 2030 dell’Onu. Nell’ottica delle Nazioni unite, nei prossimi anni bisognerà “potenziare un’urbanizzazione inclusiva e sostenibile e la capacità di pianificare e gestire in tutti i paesi un insediamento umano che sia partecipativo, integrato e sostenibile”.
Tornando al quartiere Ostiense, l’archeologia industriale che lo caratterizza è sostanzialmente unica nel panorama della città. Questo perché, racconta Attanasio, “nella pianificazione urbana della Roma dei primi del Novecento si decise che nella parte sud della città, anche per la possibilità di utilizzare il Tevere come mezzo di trasporto, dovesse nascere la Roma industriale e dei grandi servizi cittadini. Sull’asse dell’Ostiense nacquero insediamenti importanti che cominciarono ad essere dismessi negli anni Ottanta. Nei primi anni Novanta questo settore urbano era un insieme di edifici industriali dismessi, alcuni risalenti ai primi del Novecento. E quindi in questo settore urbano troviamo la più alta concentrazione di archeologia industriale della città”.
Nella trasformazione recente del quartiere, l’Università Roma Tre si è ritagliata un ruolo assolutamente centrale: “Grazie a un processo di rigenerazione urbana che ha avuto inizio trent’anni fa, l’ateneo ha rinnovato profondamente il territorio, recuperando edifici dismessi e convertendoli in centri di sapere e innovazione. Oggi, le strade che un tempo ospitavano fabbriche e depositi industriali sono diventate vivaci poli culturali e creativi, attirando studenti, professionisti e visitatori da tutto il mondo”. La presenza di Roma Tre ha generato inoltre “un effetto domino, stimolando l’insediamento di nuove realtà legate alla formazione e alla creatività. Questo modello di rigenerazione urbana, che intreccia memoria storica e avanguardia, ha trasformato Ostiense in un esempio virtuoso di crescita sostenibile, facendo del quartiere uno dei punti di riferimento per il futuro di Roma”.
Non è un caso, dunque, che proprio all’Ostiense sia partito da diversi anni un percorso all’insegna della rigenerazione urbana fondato su opere di street art, sul recupero di spazi inutilizzati e sulla valorizzazione di siti di archeologia industriale sostanzialmente unici nel panorama cittadino. L’ex quartiere operaio a due passi dalle mura aureliane si è trasformato in un distretto creativo che fa della cultura e dell’innovazione le sue principali leve di sviluppo. Ciò grazie anche alle molteplici realtà presenti sul territorio, come l’Università Roma Tre, la Nuova Accademia di Belle Arti e ROAD, Rome Advanced District, poli museali come la Centrale Montemartini e il Macro, fino a multinazionali come, Eni, Acea, Cdp, Brightstar (ex Igt), Wpp e Eataly.
Negli ultimi anni l’Ostiense è diventato un laboratorio urbano a cielo aperto, in cui la rigenerazione non riguarda solo lo spazio fisico, ma anche quello relazionale.
Federico D’Orazio, creative director di Industrie Fluviali, oggi co-founder di Polimera
“Il quartiere sta vivendo una trasformazione che non si limita a interventi urbanistici o a cambiamenti del tessuto produttivo: si tratta piuttosto di una riscrittura collettiva della sua identità, e in questo senso il nostro è un tentativo di imbrigliare questa forza mutazionale incanalandola in un passaggio forzato attraverso la cura, l’arte e la partecipazione civica”, racconta D’Orazio.
In questo contesto, il Gazometro ha assunto un ruolo cruciale. Si tratta, aggiunge D’Orazio, “di un landmark potentissimo, un simbolo di archeologia industriale ma anche di un potenziale futuro sostenibile e creativo. Non è solo un elemento paesaggistico, ma una soglia tra memoria e possibilità. Il suo coinvolgimento nei progetti di rigenerazione, reali o immaginati, rappresenta una sorta di catalizzatore emotivo e visivo, capace di attivare nuove narrazioni urbane”.
In pochi anni, l’Ostiense è riuscito quindi a trasformarsi da ex area industriale a punto di riferimento per l’arte urbana nella città di Roma. La scelta di riqualificare alcune aree attraverso grandi murales ha trasformato la zona in una sorta di grande galleria a cielo aperto: un’esplosione di forme e colori in continua evoluzione che, ormai, costituisce il tratto distintivo del quartiere al pari delle infrastrutture industriali che ne segnarono la nascita. Realizzato nel 2011, “Il Nuotatore” di Agostino Iacurci rappresenta un uomo che si muove in acqua tra pesci colorati sul palazzo di Pescheria Ostiense; una facciata dello stesso palazzo ospita anche “Nessuno” di Axel Void, un omaggio alla fondatrice della Ferramenta Cantini, dove vennero stipati i materiali con i quali fu costruito il quartiere.
All’incrocio tra via del Porto Fluviale e via delle Conce si trova l’ex caserma dell’Aeronautica Militare, nota per l’opera dell’artista Blu che per anni ne ha decorato la facciata con un arcobaleno di volti colorati, richiamando l’attenzione sui temi dell’accoglienza, dell’integrazione e delle occupazioni abitative. Oggi il complesso è oggetto di una profonda ristrutturazione: la facciata è stata riportata al colore originario e il progetto prevede nuove abitazioni per le famiglie che già vi risiedono e per altre in difficoltà, oltre a spazi destinati a esercizi commerciali e attività di quartiere, valorizzando quelle già presenti. Dal 2003 la struttura ha ospitato 54 nuclei familiari provenienti da 13 nazionalità diverse, diventando un punto di riferimento per l’esperienza di cohousing più significativa della Capitale.
E ancora, “Hunting Pollution” di Iena Cruz (2018) è il più grande murales ecologico di Roma, dipinto con una speciale pittura Airlite in grado di assorbire lo smog: rappresenta un airone tricolore in lotta per la sua sopravvivenza in quanto specie in via di estinzione, ma in grado al contempo di scacciare l’inquinamento da un incrocio stradale particolarmente trafficato. Lungo via dei Magazzini Generali si estende invece la “Wall of Fame” di JB Rock, un’opera lunga sessanta metri in cui, su uno sfondo rosso, si susseguono personaggi famosi che hanno segnato la vita dell’artista, da Dante a Elvis, fino a Zorro.
L’impressione è che l’innovazione culturale, sociale e tecnologica disegneranno in maniera sempre più decisa il quartiere del prossimo futuro. Ma l’innovazione, tiene a specificare Federico D’Orazio, “non è soltanto una questione di dispositivi o tecnologie: è una questione culturale e sociale. L’idea di quartiere del futuro non può prescindere da tre elementi: l’accessibilità, la cooperazione tra mondi diversi e la capacità di generare benessere condiviso”. In questo senso, l’esperienza di Industrie Fluviali ha segnato un passaggio importante. Ha saputo trasformare un ex lavatoio industriale in un ecosistema vivo, in cui coworking, arte, formazione, rigenerazione urbana e innovazione sociale convivono sotto lo stesso tetto. Ma, più che gli spazi, sono stati i processi — partecipati, orizzontali, generativi — a fare la differenza.
“Questa stessa logica – spiega D’Orazio – è oggi portata avanti anche da realtà come la nostra Polimera, che raccolgono quell’eredità e la rilanciano nel territorio, cercando di ibridare saperi, attivare comunità e creare modelli replicabili di trasformazione urbana. Se vogliamo immaginare un Ostiense più prospero, creativo e sostenibile, dobbiamo continuare a scommettere su questo tipo di innovazione: non solo quella che cambia gli strumenti, ma soprattutto quella che cambia le relazioni e il modo in cui abitiamo la città”.
Arte da ammirare, arte in grado di dare un nuovo volto a un luogo. Ma anche arte da calpestare, da toccare, da vivere mentre si attraversa. È il caso di “Upside Down”, l’opera realizzata nel 2024 da Giulio Vesprini sul Ponte della Scienza: il vecchio manto grigio che attraversava il Tevere è stato trasformato in una “tela” di mille metri quadrati sulla quale i colori della natura nelle quattro stagioni si fondono con quelli del fiume sottostante.
In definitiva, sono davvero numerose le iniziative che hanno modificato il volto dell’Ostiense all’insegna della rigenerazione urbana e che continueranno a farlo nel prossimo futuro.
Contenuto realizzato in collaborazione con Eni e ROAD – Rome Advanced District



