Il Benin è il nuovo fronte jihadista

Il Benin è il nuovo fronte jihadista

L’integralismo islamico continua a destabilizzare il Sahel e ora sembra mirare alle frontiere settentrionali dei paesi dell’Africa occidentale: il caso del Benin che rischia di essere travolto mentre la crisi climatica fomenta il risentimento.

Tempo di lettura: 30 min.

Questo progetto è co-finanziato dal Pulitzer Center

Quando Kadri Sambieni Issa percorre la route nationale 3 che porta dalla cittadina di Tanguiéta fino al vicino confine con il Burkina Faso viene travolto da un grande senso di nostalgia. La sua jeep scoperta corre a tutta velocità su questa lingua di terra rossa che nel dipartimento dell’Atakora attraversa tanti piccoli villaggi e costeggia l’immenso Parco della Pendjari, una delle riserve naturali più importanti del Benin e della regione.

Un tempo guardando dallo specchietto retrovisore avrebbe visto dei turisti occidentali seduti sui sedili della sua jeep da safari intenti ad osservare il paesaggio con macchine fotografiche e binocoli, ma oggi quei sedili sono ormai vuoti. Anche il paesaggio è cambiato molto. Alberi e vegetazione sono diminuiti lasciando posto a terreni brulli e a estesi campi di cotone e soia attraversati qua e là da mandrie di zebù.

Kadri è una guida beninese che ha accompagnato visitatori nella natura selvaggia della Pendjari per ben 12 anni. “Sono nato Tanougou vicino alle celebri cascate nella zona cuscinetto del riserva. Già quando ero piccolo facevo la guida alle cascate. C’erano turisti che venivano e li accompagnavamo mattina e pomeriggio. Io sono nato per questo mestiere perché amo la natura. Amo i leoni e gli elefanti”.

Tutto è cambiato nel maggio del 2019 quando due turisti francesi sono stati rapiti da dei miliziani jihadisti all’interno del parco e la loro guida, Fiacre Gbédji, è stato ucciso nell’imboscata. “Conoscevo Fiacre. Era esperto e in gamba e mi insegnò molto. È stata una perdita per noi e per la sua famiglia. Dopo quei fatti i turisti sono lentamente scomparsi. Oggi non possiamo più avvicinarci alla frontiera e il parco è chiuso. Solo le forze militari e i ranger possono entrare”.

Quasi senza rendersene conto il Benin si è ritrovato a far parte della lista dei Paesi minacciati dal terrorismo. Dopo quell’attacco se ne sono succeduti altri nelle regioni settentrionali confinanti con Burkina Faso, Niger e Nigeria, e il governo di Porto-Novo ha reagito militarizzando la zona nel tentativo di stanare le cellule estremiste.

Solo nel dipartimento dell’Atakora, tra i meno sviluppati del Paese, lavoravano più di 100 guide e altre centinaia nei diversi piccoli hotel, che avevano iniziato a creare indotto collaborando con le comunità i villaggi limitrofi. Ora è tutto finito in un limbo e Kadri, come tutti i membri dell’associazione Union de guides transporteurs des touristes de la Pendjari (Ugtp) di cui fa parte, al momento è senza impiego e sbarca il lunario svolgendo altre attività. “Avendo quasi tutti la patente, la maggior parte di noi si è messa a fare l’autista di taxi o il trasportatore di merci tra villaggi e mercati”, afferma affranto. “Prima non sentivamo molto la minaccia, la vedevamo lontana e non avevamo paura. Non pensavamo potesse succedere. Poteva essere un paradiso prospero e invece mi chiedo cosa ne sarà di questa nostra terra”.

Poteva essere un paradiso prospero e invece mi chiedo cosa ne sarà di questa nostra terra.

Kadri, guida beninese

La prospettiva dei gruppi jihadisti

Il conflitto saheliano è lento e logorante. Lacera interi paesi e sgretola equilibri socio-culturali secolari. L’estremismo jihadista sta tormentando questa regione da oltre dieci anni e, dopo aver provocato gravi emergenze umanitarie con oltre 5 milioni di sfollati, prende sempre più le sembianze di una crisi irreversibile. Gli atti di violenza legati a gruppi estremisti islamici in Burkina Faso, Mali e Niger sono aumentati del 70 per cento nel 2021 come testimoniato dai dati del Armed conflict location & event data project (Acled). Dal Mali, controllato da una giunta militare autoritaria e dal quale Francia e Unione europea si stanno ritirando lasciando spazio ai contractor russi, le azioni dei gruppi islamisti si sono spostate in Burkina Faso, in cui si sono verificati oltre la metà degli attacchi jihadisti e dove lo scorso gennaio un colpo di stato ha portato anche qui al potere una giunta militare dal governo instabile.

Contemporaneamente si sta aprendo una nuova fase della crisi. I principali cartelli jihadisti saheliani come il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim) e lo Stato Islamico nel grande Sahara (Isgs) stanno cercando di espandersi nelle aree di confine degli stati costieri dell’Africa Occidentale. L’escalation di attacchi frontalieri che negli ultimi anni ha colpito in successione Costa d’Avorio, Togo e soprattutto Benin ne è la prova evidente e potrebbe esser parte di un’ampia strategia di riposizionamento regionale, come confermato anche dagli analisti internazionali dell’Institute for security studies (Iss) e dal African center for strategic studies.

Gli obiettivi degli estremisti sono favorire il reclutamento di miliziani in queste aree e soprattutto garantire le rotte di passaggio dei traffici illegali che dalle coste atlantiche arrivano fin dentro il Sahara e con i quali i terroristi si finanziano.

“In queste zone transfrontaliere ci troviamo prima di tutto di fronte a dei “ponti” tra diverse identità criminali. Ci sono passeur e trafficanti di ogni tipo e anche l’industria dei rapimenti nel Nord ovest della Nigeria confinante con il Benin non è certo trascurabile”, sottolinea Oswald Padonou, professore in studi strategici e di sicurezza del Benin.

Gli atti di violenza legati a gruppi estremisti islamici nelle zone saheliane colpite dal conflitto sono aumentati del 70% nel 2021

Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)

Bracconaggio, droga, moto, carburante, esseri umani, armi, oro e legno pregiato, sono in effetti la linfa vitale dei cartelli e dunque “la strategia jihadista va ricercata lì”, continua Padanou, secondo cui inizialmente c’è stata una sottovalutazione del problema. “Si pensava solo al transito di jihadisti nelle zone di frontiera. Oggi invece parliamo di micro-cellule e reclutamento nel nord del Benin e dunque di “endogenizzazione” del fenomeno estremista islamico che nelle aree più emarginate ha trovato man mano spazio”.

Un fenomeno che cova da tempo e che ora comincia a mostrare tutte le sue conseguenze. La cittadina di Porga, al confine col Burkina Faso ne è l’esempio. Qui da dicembre ad oggi le forze di sicurezza sono state attaccate tre volte da estremisti affiliati al cartello jihadista Gsim con imboscate e ordigni che hanno provocato diverse vittime tra i militari. Ora la popolazione vive nell’incertezza in un contesto distopico nel quale il tempo sembra essersi fermato.

Il Benin e in particolare le sue regioni settentrionali rappresentano il contesto perfetto per la nuova avanzata jihadista per diverse ragioni. Le forze di sicurezza beninesi non sembrano abbastanza organizzate ed equipaggiate per rispondere alla minaccia, tanto che il presidente Patrice Talon, lo scorso maggio ha annunciato il rimpatrio delle sue forze dispiegate nella missione di peacekeeping in Mali, Minusma, per cercare di rinforzare le sue frontiere minacciate. Non solo, lo scorso luglio il suo governo ha annunciato un accordo di cooperazione militare con le meglio equipaggiate forze militari nigerine nella speranza di arginare le incursioni e nella recente visita del presidente francese Emmanuel Macron è stato chiesto ulteriore supporto.

Proprio la porosità di queste zone nelle quali si sviluppa il grande complesso di riserve naturali W-Arly-Pendjari (Wap), su un territorio di oltre 32mila chilometri quadrati a cavallo tra Benin, Burkina Faso e Niger, è un altro elemento chiave. Si tratta di regioni impervie ricoperte da foreste e colline rocciose difficilmente praticabili e lontane dalle principali arterie stradali. “All’interno dei parchi i miliziani estremisti possono trovare nascondigli sicuri, addestrarsi e agire quasi del tutto indisturbati soprattutto nella gestione dei loro traffici”, spiega il Professor Padanou. Il Benin è strategicamente appetibile per questi cartelli anche perché il porto di Cotonou è uno degli snodi commerciali più importanti di questa regione e si affaccia sul golfo di Guinea dove si concentrano da decenni attività di contrabbando e la pirateria marittima internazionale. I livelli di corruzione sono molto alti e i legami con la criminalità organizzata sono sempre più ramificati, specie con la vicina Nigeria, come confermano i dati più recenti del Global organised crime index.

Come se non bastasse, anche le nuove reti di alleanze che si stanno formando tra diversi gruppi terroristici sembrano provare l’esistenza di un disegno che punta all’espansione nel nord del Benin. In un comunicato trasmesso alla fine del 2021 il gruppo salafita nigeriano Ansaru, nato nel 2012 da una scissione tra i famigerati terroristi Boko Haram, ha annunciato la sua alleanza ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) che fa parte del sopracitato Gsim. Questo, come confermato da diversi analisti, avvalorerebbe la costituzione di una rete terroristica che potrebbe puntare alla creazione di nuova zona d’instabilità tra Niger, Nigeria e proprio il Benin, simile a quella del Liptako-Gourma tra Mali, Niger e Burkina ormai completamente fuori controllo.

Qui a Porga vengono fermate continuamente persone che ultimamente hanno cambiato comportamento e non capiamo da dove vengano questi nuovi atteggiamenti… Non sappiamo con chi stiamo parlando, cominciamo tutti a tacere, per paura, non ci fidiamo più di nessuno

Mounou Y’Moussa, Imam di Porga

Le aree più settentrionali del Benin sono le più povere, mancano infrastrutture e servizi di base come ospedali e scuole, e lo Stato è rimasto a lungo assente. Come avvenuto in altri contesti simili, sono queste circostanze a favorire il proselitismo secondo il Professor Padonou. “Il discorso religioso non è che un “paravento mobilizzatore”  per delle ramificate e diversificate entità criminali che sfruttano sentimenti “anti-statali” per reclutare e rendere instabili permanentemente delle zone dove la popolazione è già in lotta per la sua sopravvivenza dato che le risorse sono sempre più rare”. Come se non bastasse, infatti, anche in questi luoghi la crisi climatica ha iniziato a farsi sentire rompendo equilibri socio-economici e generando un nuovo risentimento fino ad ora sconosciuto.

Benin, un terreno fertile al proselitismo

Come denunciato a più riprese dalle Nazioni Unite il Sahel è la regione del mondo dove le temperature aumentano 1,5 volte più velocemente della media globale. Il Benin e le sue regioni settentrionali geograficamente ai margini dei territori saheliani, è tra i paesi più vulnerabili al cambiamento climatico, come rilevato dalla graduatoria del Gain index 2019 (158esimo su 180 paesi analizzati), perché impreparato ad affrontarne gli effetti che ormai sempre più violenti. Le temperature medie sono aumentate di 1,1 gradi dagli anni 60 ad oggi e potrebbero crescere di altri 2 gradi entro il 2060. Secondo i dati a disposizione dell’Onu, la pluviometria si è ridotta drasticamente, è aumentata l’erosione dei suoli e le siccità sono più frequenti e lunghe.

Contemporaneamente si intensifica il fenomeno della desertificazione anche a causa dello sfruttamento eccessivo dei suoli da parte di una popolazione in aumento (oltre il 3 per cento l’anno) e soprattutto per via della deforestazione senza freni. Secondo Global forest watch, il Benin ha perso oltre il 20 per cento delle sue foreste dal 2000 ad oggi.

Gli alberi vengono bruciati e tagliati per ampliare i campi coltivati o produrre legna e carbone per il fabbisogno interno. Da qualche anno tra i villaggi che circondano ad ovest la riserva della Pendjari parte della comunità si sta rendendo conto degli enormi cambiamenti in atto e cerca di reagire. L’Union des associations villageoises de gestion des réserves de faune (U-Avigref) unisce attivisti di diverse comunità con l’obiettivo di lottare contro desertificazione e deforestazione. Célestin Tankouwanou, un insegnante del comune di Tanguiéta è tra i principali rappresentanti impegnati direttamente sul terreno.

Un rancore fratricida

Il villaggio di Boribansifa nel distretto di Tounkountuna a una trentina di km a sud della Pendjari, è un agglomerato di mattoni, argilla e lamiera su un colle arido circondato da campi coltivati e sterpaglie. Si sviluppa tutt’attorno a una vecchia missione cattolica francese e a un modesto dispensario medico circondati da degli enormi alberi di mango. La comunità di poco più di 500 abitanti è a maggioranza wama, una delle etnie più diffuse nell’Atakora e parte degli oltre 40 gruppi etnici presenti in Benin. Nel mese di gennaio l’insediamento è stato teatro di violenti scontri tra agricoltori e allevatori seminomadi di etnia peul che hanno provocato vittime e feriti, tanto da richiedere l’intervento delle forze di sicurezza. Dietro una vecchia auto abbandonata ad arrugginire sotto un’acacia, Simplice Mangopa sta sistemando degli attrezzi da lavoro a torso nudo. “Sono un agricoltore come la maggior parte della gente. I prodotti agricoli come la manioca, i fagioli o il mais li vendiamo al mercato da generazioni”.  E’ un uomo sulla cinquantina dallo sguardo mite e accogliente. “I peul sono sempre passati di qui sulle nostre terre dopo le piogge per la transumanza. C’erano accordi e usanze per gestire le relazioni. Le cose sono cambiate quando hanno iniziato a stabilirsi qui.”

Simplice spiega che, nonostante i wama abbiano inizialmente accettato la presenza degli allevatori, i problemi hanno cominciato ad acuirsi gradualmente. Il bestiame è sfuggito al controllo dei giovani pastori invadendo i campi coltivati e distruggendo i raccolti, sono state occupate e disboscate terre di proprietà e sono aumentati i litigi per l’accesso a pozzi e abbeveratoi. La tensione è poi montata fino allo scontro diretto dopo l’ennesima disputa. “Noi anziani abbiamo provato a fermare i giovani che volevano distruggere le case dei peul per cacciarli, soprattutto dopo che la polizia aveva avvertito che avrebbe usato le maniere forti per fermare le violenze. Non ci hanno ascoltati. Un ragazzo è morto e uno dei miei figli è stato colpito alla spalla da un proiettile quel giorno.”

Gli eventi di Boribansifa sono solo un esempio del fenomeno vasto dei conflitti intercomunitari che colpisce l’intero continente e si sta aggravando in Africa occidentale e nel Sahel. Dal 2010 al 2018 questi scontri, dovuti principalmente all’accesso a terre fertili e all’acqua, spesso amplificati da questioni emotivamente potenti come etnia, religione e cultura, hanno causato oltre 15mila vittime in Africa occidentale e centrale (dati Acled).

Anche nel centro-nord del Benin è stata registrata un’escalation di conflitti interetnici senza precedenti. Secondo lo studio pubblicato nel 2021 da Acled e il think tank olandese Clingendael, gli eventi violenti sono aumentati di oltre il 30 per cento dal 2017 ad oggi.
Esattamente come nei contesti Saheliani, sono queste dinamiche mal gestite che i cartelli jihadisti stanno cercando di sfruttare per far breccia in Benin, facendo leva sulle recriminazioni comunitarie e approfittando delle lacune dello Stato soprattutto in termini di giustizia. Ne sono convinti gli stessi analisti del Clingendael che per primi hanno lanciato l’allarme nel giugno del 2021.
In un Paese in cui il 70% della popolazione vive di agricoltura e allevamento e questi settori rappresentano il 32% del PIL (dati Banca Mondiale), la pressione sull’ambiente per soddisfare i fabbisogni di sussistenza è enorme. Il governo beninese ha deciso di puntare sull’agricoltura intensiva e sulla sedentarizzazione dell’allevamento con l’idea d’industrializzare la produzione, come dimostra ad esempio il recente avvio del piano “ProSer” presentato lo scorso dicembre.

In un Paese in cui il 70% della popolazione vive di agricoltura e allevamento e questi settori rappresentano il 32% del PIL, la pressione sull’ambiente per soddisfare i fabbisogni di sussistenza è enorme

Anche questi progetti sono in grado di provocare sconvolgimenti socio-culturali e in molti casi aggravare il rancore che potrebbe essere cavalcato dagli estremisti. Anche la gestione delle riserve ha avuto effetti in questo senso. Quando il presidente Talon, nel suo primo mandato, ha deciso di puntare sul turismo partendo dal rilancio dei già citati parchi del nord e affidando la gestione ai sudafricani della African Parks (AP), con un un sostegno di 6 milioni di dollari in 5 anni alla ong, sono emerse immediatamente altre criticità. Le comunità attorno alle riserve hanno indetto proteste e si sono anche scontrate direttamente con i ranger, in particolare i cacciatori tradizionali e gli allevatori peul che non hanno più avuto accesso ai parchi. Oggi la direzione delle riserve sostiene di aver risolto la situazione con accordi su regole e collaborazioni, ma diverse comunità continuano a sentirsi escluse e derubate.

Le “riserve fortezza” di African Parks

Nel continente africano i governi delegano sempre più spesso la gestione di grandi aree naturali alle ONG o alle aziende private, soprattutto quando le riserve si trovano in zone molto rischiose ed instabili. L’ONG sudafricana African Parks (AP) si è inserita in questo “mercato” ed è diventata leader nel settore. E’ stata fondata nel 2000 in Sudafrica da cinque personalità, tra cui il miliardario olandese Paul Fentener van Vlissingen dal dubbio passato legato all’apartheid, e Mavuso Msimang, importante esponente dell’ala armata dell’ANC sudafricano. Oggi il suo presidente onorario è il Principe Hanry, duca di Sussex ed è supportata e collabora con molti sponsor illustri: dal National Geographic, al WWF, fino all’UE e Usaid. L’ong con sede a Johannesburg ha continuato ad ampliare il proprio campo di intervento e oggi gestisce un impero con 19 parchi per un totale di 14,7 milioni di ettari. Il suo obiettivo dichiarato è arrivare a gestire almeno 30 riserve africane da qui al 2030.
L’approccio di AP è commerciale. Seguendo uno schema ben rodato, l’organizzazione firma accordi di lungo periodo, in media 20 anni, con gli Stati che mantengono la sovranità sui parchi mentre a l’Ong si impegna a fornire tutti gli strumenti compresi per riqualificarli e risollevare le sorti di flora e fauna.
Sebbene l’obiettivo dichiarato sia quello di proteggere la natura, il profitto resta padrone. AP punta ad ottenere più sovvenzioni statali possibili oltre a quelli privati dedicati alla protezione della natura, e poi c’è la manna rappresentata dai proventi del turismo di lusso che è in crescita in queste aree protette.

L’approccio di protezione della natura di AP è militarizzato e molto duro con chi infrange le regole, comunità locali comprese. Le oltre mille eco-guardie dispiegate nel continente sono addestrate ed equipaggiate come paramilitari da istruttori militari francesi, israeliani e statunitensi. Nonostante i risultati ottenuti in termini di turismo e lotta al bracconaggio, le critiche ad AP partono proprio da questa idea di “riserve fortezza” che esclude i popoli indigeni e spesso porta gravi violazioni come avvenuto in Camerun e Repubblica del Congo.

Il caso di AP in Benin è particolare perché, da quando l’organizzazione ha ottenuto la gestione del Parco della Pendjari nel 2018 e del Parco di W nel 2020, i suoi 220 rangers sono stati direttamente coinvolti nella lotta ai miliziani jihadisti e collaborano con le Forze armate beninesi (FAB) in pattugliamenti congiunti, arresti di presunti bracconieri e miliziani (oltre 763) e scambio di informazioni. Un coinvolgimento inedito in Africa e ormai confermato anche dalla dirigenza AP, che però sta mettendo inevitabilmente nel mirino degli estremisti gli impiegati del parco come dimostrato dagli attacchi subiti, l’ultimo e più grave l’8 febbraio scorso nella riserva di W in cui un ordigno esplosivo ha ucciso otto persone tra cui cinque rangers, un dipendente civile di AP e un istruttore francese.

Come se non bastasse AP è entrata anche in conflitto con le comunità attorno alle riserve per questioni legate a terre coltivabili, alla caccia e alla transumanza con diversi incidenti documentati fino almeno al 2020 che hanno aumentato lo scontento nell’area.

LifeGate ha chiesto l’autorizzazione ad AP per entrare nella riserva della Pendjari e intervistare il direttore o dei suoi rappresentanti, ma la richiesta è stata rifiutata.

L’eco-guardia Antoine (*nome inventato per proteggere la sua identità) ha invece accettato di parlare in segreto dei pericoli che oggi affrontano i rangers:

La testimonianza audio dell’eco-guardia Antoine

Non lontano da un gruppo di abitazioni ai margini di Boribansifa il giovane allevatore peul Biou Boni si sta occupando di alcuni zebu prima di portarli al pascolo e raggiungere il resto della mandria con la quale lui e la sua famiglia vivono praticamente in simbiosi. “Sono un allevatore come lo era mio padre e tutto ciò di cui ho bisogno per vivere assieme alla mia famiglia viene da questi animali”. Racconta che suo padre iniziò a frequentare questi territori molto tempo fa per poi sedentarizzarsi progressivamente senza aver mai avuto problemi con gli abitanti del villaggio. Anche Boni dice di avere buone relazioni con i wama e di essere sempre stato attento a non commettere torti, tuttavia anche lui è dovuto fuggire con la sua famiglia durante gli scontri per evitare il peggio. “Hanno dato fuoco alle case, distrutto scorte di cereali e ucciso diversi animali. È stato molto difficile riprendersi dopo che le forze militari hanno calmato la rabbia permettendoci di rientrare”.

Anche secondo Boni la tensione si è alzata notevolmente negli ultimi anni soprattutto perché le piogge sono sempre più irregolari e c’è una vera e propria corsa a terre fertili e pascoli. Le dispute sono talmente frequenti che risolverle con i vecchi metodi non sembra più sufficiente: “Avevo sentito parlare di scontri simili in Benin, ma ora è arrivato anche qui nel villaggio e la pace si è spezzata dopo tanto tempo”.

“Quello dei peul è un problema molto urgente!” si sbraccia dal canto suo Simplice. “Non c’è più spazio. Non ci sono più abbastanza terre per tutti né acqua. Le autorità ci hanno assicurato che troveranno un posto dove far stabilire gli allevatori, ma io so che non è possibile”,  afferma sicuro. “I peul continueranno a venire qui. Anche perché le foreste dei parchi a nord sono chiuse ormai. Ci scontreremo di nuovo e spero che dio potrà aiutarci”.

Cotone e Benin, un affare personale

Risalendo il Benin verso nord i paesaggi delle regioni di Atakora e Alibori hanno tutti un elemento ricorrente che spicca all’orizzonte: le immense distese di piante di cotone secche e spoglie. E’ marzo e la raccolta della preziosa fibra bianca è quasi terminata. Gli agricoltori, aiutati da donne e ragazzi di interi villaggi, hanno raccolto minuziosamente a mano tutte le capsule piene di bambagia che avvolge i semi delle migliaia di piante accumulandole in enormi mucchi a poca distanza dai campi. Al tramonto ci si imbatte spesso in gruppi di giovani che giocano rotolandosi sugli enormi cumuli rimasti in attesa che la fibra venga caricata su dei vecchi camion Renault degli anni 90. Quando “les titans” (titani) sono colmi fino ad esplodere, i loro abili equipaggi sono pronti a dirigerli arrancando tra ostacoli, salite e guasti verso i centri di lavorazione (sgranatura) per poi proseguire l’epopea ancor più a sud con un nuovo carico verso il porto di Cotonou. “Capiamo che una stagione del cotone è finita quando i margini delle strade provinciali del paese smettono di sembrare ‘innevate’. Allora possiamo cominciare con l’anno nuovo”, spiega un passante di Natitingou nel nord-ovest del Paese, riferendosi al cotone che le centinaia di camion disperdono passando sull’asfalto.

Attorno al cotone gira ormai tutta l’economia delle regioni settentrionali. I beninesi si occupano di questa coltura da molto tempo, ma è con l’ascesa al potere nel 2016 dell’attuale presidente Patrice Talon che la produzione è esplosa perché il governo ha deciso di puntare sullo sviluppo della filiera e in generale sulle colture da mercato d’esportazione per rilanciare l’economia. I risultati sono evidenti: tra il 2018 e il 2021 è Benin è diventato il più grande produttore d’Africa. Tra il 2016 e il 2021 la produzione è passata da 269mila tonnellate a 728mila battendo ogni record precedente. Nel 2020 il cotone rappresentava il 36.4 per cento delle esportazioni del Paese per un valore pari a 452 milioni di dollari, una buona fetta del prodotto interno lordo (pil).

Tra il 2016 e il 2021 la produzione di cotone in Benin è passata da 269mila tonnellate a 728mila, rappresentando il 36.4% delle esportazioni totali del Paese

Il presidente Talon è un uomo d’affari “che si è fatto da solo” ed è entrato in politica da una decina d’anni. E’ considerato tra i personaggi più ricchi del continente e ha creato la sua fortuna proprio nell’industria del cotone e nella gestione del porto di Cotonou.

Una volta seduto sulla poltrona presidenziale “il re del cotone” ha promesso che avrebbe lasciato la direzione di tutte le aziende impegnate in questa industria per evitare conflitti d’interesse, ma ad oggi non si hanno molte informazioni in proposito, se non che la gestione di molte aziende (come la Sodeco che possiede tutti gli impianti di sgranatura e di cui Talon è maggior azionista) è passata in mano a uomini di fiducia o parenti, e tutto è rimasto carta morta. Talon ha invece liberalizzato la filiera e messo la gestione in mano a Association inter-professionnelle du Coton (Aic) che determina e organizza la politica agricola e il commercio dell’oro bianco, dalla produzione fino alla sgranatura. Mathieu Adjovi, uno dei personaggi a lui più vicini, ne è presidente.

Per diverso tempo, molti piccoli agricoltori sono stati riluttanti ad entrare in questo settore per paura degli effetti negativi della monocoltura sulla fertilità dei suoli o perché possessori di terreni situati in zone remote e difficili da mettere a coltura.
Istituzioni e aziende hanno allora fatto partire una campagna di sensibilizzazione villaggio per villaggio e organizzato la distribuzione massiccia di semi, fertilizzanti e pesticidi, oltre ad aver migliorato le condizioni di alcune direttrici statali indispensabili.

Attraversando il Benin si capisce quanto siano stati convincenti, tuttavia non mancano le critiche soprattutto quando si tratta dei prezzi della fibra e dei prodotti necessari alla sua coltivazione che un tempo venivano concordati consultando i sindacati, mentre ora vengono decisi a tavolino dall’alto dell’Aic.

Il passaggio verso colture intensive sta avendo importanti conseguenze anche sull’ambiente. Agricoltori e villaggi ampliano le terre da destinare al cotone e ciò sta inevitabilmente favorendo il disboscamento. Allo stesso tempo l’intenso utilizzo di fertilizzanti chimici danneggia i suoli e potrebbe favorire la desertificazione.

Come se non bastasse la cura della pianta del cotone richiede l’utilizzo di pesticidi e diserbanti che devono essere utilizzati periodicamente e vengono distribuiti assieme a sementi e fertilizzanti agli agricoltori che decidono di aderire alla campagna annuale dell’AIC. “Sicuramente l’aumento dell’utilizzo di prodotti chimici nelle campagne del centro nord è stato uno degli elementi che ha permesso al Benin di diventare primo produttore d’Africa, ma ciò sta già avendo e avrà delle conseguenze sulla vita della popolazione e sull’ambiente”, racconta Davo Simplice Vedouch, presidente dell’Organisation Béninoise pour la Promotion de l’Agriculture Biologique (Obepab) impegnata da anni contro l’utilizzo di prodotti chimici. Secondo Davo, da un lato le istituzioni non forniscono agli agricoltori né strumenti di protezione né indicazioni sufficienti sull’utilizzo di queste sostanze tossiche (soprattutto perché le istruzioni sulle confezioni sono spesso in lingue che non sono in grado di comprendere); dall’altro, purtroppo gli stessi contadini sono negligenti e ne fanno un uso errato e sregolato, convinti che ciò aiuti la produttività. Il risultato è un aumento di casi di avvelenamento e contaminazione di terreni e falde acquifere.

Sappiamo che le persone dopo il trattamento nei campi con le sostanze hanno problemi di vertigini, di anemia e nausea oltre a infezioni della pelle

Davo Simplice Vedouch

Al momento non esistono ampi studi per identificare il numero, le cause e la tipologia di avvelenamenti nel Paese, ma per l’attivista i casi sono molto frequenti e a volte si tratta di intere famiglie. “Sappiamo che le persone dopo il trattamento nei campi con le sostanze hanno problemi di vertigini, di anemia e nausea oltre a infezioni della pelle. – afferma sicuro Davo -. Un’altra tendenza che abbiamo osservato è che una grossa fetta dei ricavi del raccolto viene destinata alla salute per spese mediche. La gente si ammala di continuo. Ma, ripeto, uno studio per trovare una relazione causa-effetto ancora non esiste”.

In Africa il grave problema dell’utilizzo eccessivo di pesticidi nocivi e magari vietati in altre parti del mondo è già ampiamente documentato. In Benin, fatta eccezione per alcuni casi studio mirati, tutto resta nebuloso. Nella lista dei prodotti dei quali è ammessa la vendita in Benin, sono diversi quelli considerati molto nocivi nell’Unione europea “e ce ne sono altri non autorizzati, ma che passano comunque attraverso le frontiere grazie ai traffici da Nigeria, Ghana e Togo. È una situazione scandalosa, ma al momento non si riesce a fermare”, conclude l’attivista.

Anche a Bonà, un villaggio sperso nell’arida savana, qualche chilometro a sud di Tanguiéta, la maggior parte degli abitanti ha aderito alla campagna del cotone ormai da diversi anni. Nel cortile di un’abitazione due uomini sono intenti a discutere in wama seduti su un pancale a fianco a un grosso ceppo di legno su cui sono adagiati due sacchi verdi con la scritta “NPKSB – Fertilizzante cotone, campagna 2019-20, distributore Sodeco“. Il più alto dei due indossa un cappellino e porta una croce al collo che spunta ciondolante fuori da una vecchia giacca mentre si sbraccia spiegando che il prezzo dei fertilizzanti si alza e si abbassa ma i contadini sono costretti comunque a comprarli, altrimenti i campi non rendono.

“È ingiusto alla base, sei obbligato e rischi anche di finire indebitato – afferma rivolto al suo amico – Capisci perché me ne sono tirato fuori adesso?”. Justin Tchando, sulla cinquantina, è un agricoltore esperto con una numerosa famiglia alle spalle. Qualche anno fa ha deciso di sostituire questa coltivazione e tornare a colture tradizionali che a suo dire sono molto meno rischiose.

“Con i miei ragazzi producevamo molto ma alla fine non ricevevamo un riconoscimento adeguato per tutto il lavoro svolto. Inoltre, per coltivare il cotone ci vogliono tanti prodotti chimici pericolosi che a lungo andare rendono la terra sterile”, dice Justin aggiungendo di averne avuto conferma quando ha incontrato molte difficoltà a ripartire con le colture tradizionali.

Justin si sente orgoglioso della sua scelta anche se molti suoi vicini pensano che lui stia perdendo un’occasione. E’ convinto che abbandonare le tradizioni agricole sia “la vera perdita di ricchezza per la gente che non avrà più la possibilità di scegliere”.

Sicuramente il passaggio a un sistema agricolo incentrato sull’esportazione sta creando grossi cambiamenti socio-economici nel centronord del Benin. Le comunità rischiano di diventare dipendenti dalla volatilità dei prezzi sui mercati internazionali e dunque maggiormente esposte a crisi e insicurezza alimentare con conseguenti nuovi conflitti sociali.

Gli antidoti al pensiero estremista

Il Benin è sempre stato considerato una democrazia abbastanza pacifica con diritti e libertà individuali e di stampa generalmente garantiti. Da quando, però, Talon è diventato Capo di Stato le cose sono progressivamente cambiate. Il potere è stato centralizzato e nulla passa inosservato all’entourage del “re del cotone” che nessuno ha più il diritto di contestare. La stampa critica è stata messa sotto pressione e intimidita, come denunciato anche dall’ultimo rapporto di Reporters sans frontières (prima di Talon il Paese era al 78esimo posto, oggi è crollato al 121esimo), mentre il dissenso politico ha subito gravissimi attacchi.

Alle elezioni legislative del 2019 l’opposizione è stata esclusa e il parlamento è diventato una macchina al servizio del presidente. Ancor peggio è andata a chi lo ha sfidato apertamente nelle elezioni presidenziali del 2021, l’ex ministra della giustizia Reckya Madougou e l’accademico Joël Aivo sono stati arrestati e condannati a 20 e 10 anni con prove piuttosto deboli per “complotto alla sicurezza dello Stato, terrorismo e associazione a delinquere” dal Tribunale per la repressione dei reati economici e del terrorismo del Benin (Criet) voluto dalla presidenza nel 2018.

Talon ha cercato a lungo di celare i problemi e le minacce che stanno nascendo nel nord del Paese, ma con l’ultima ondata di attacchi il suo governo non può più negare di essere in guerra con il terrorismo e deve in qualche modo agire.

Il tempo scorre veloce e speculare al disappunto verso autorità e sistema economico, ma intervenire per evitare il peggio è ancora possibile, come sostiene il professor Oswald Patanou: “Bisogna partire dal coinvolgimento e l’integrazione delle comunità delle zone colpite. Lo Stato deve tornare ad essere presente sul territorio, ascoltare le necessità dei cittadini, fornire i servizi. Non si deve in nessun modo lasciare che si crei il vuoto”. Per l’esperto “l’approccio militarizzato fine a se stesso non basta e lo si è visto fallire in altri paesi”. Il dialogo aperto con la popolazione e delle misure mirate per risolvere conflitti intracomunitari e regolamentare l’accesso alle risorse potrebbero invece funzionare se si agisce prontamente.

Anche l’attivista ambientale Célestin Tankouwanou, è convinto dell’esistenza di antidoti efficaci su cui ripone le sue speranze. La lotta per resistere alla crisi climatica può essere una barriera all’avanzata del pensiero estremista ma “tutto parte dalla sensibilizzazione di base nei villaggi. Si tratta di creare una cultura capace di arginare l’attacco nel lungo periodo”.

Prima di rientrare a casa Célestin vuole visitare delle terre nella zona cuscinetto della Pendjari a nord est di Tanguiéta non lontano da Bàtia dove non si reca da diversi anni. Racconta che con altri attivisti dei villaggi limitrofi erano riusciti a far piantare centinaia di alberi. “Avevamo un accordo. Ogni volta che si tagliava un albero per coltivare, bisognava venire a piantarne due qui. Era una piccola foresta ormai”, afferma sorridente.
Ma una volta sul posto il suo volto si trasforma in una maschera di amarezza. Quei alberi non ci sono più e i campi coltivati sono arrivati fino alle recinzioni della riserva all’orizzonte. Célestin si appoggia sulla sua moto esausto. “Da insegnante so che in una lunga lotta come questa a volte si fanno passi indietro. La sensibilizzazione richiede tempo, pazienza e mobilitazione. Ne pianteremo di nuovi”.