La lotta per la vita delle comunità indigene nella miniera di Cobre Panamá

La lotta per la vita delle comunità indigene nella miniera di Cobre Panamá

A fine 2023 Panama ha fermato i progetti di rinnovo e ampliamento della Minera Cobre Panama. Una vittoria che non basta alla comunità Ngäbe, minacciata dai suoi veleni.

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Il 28 novembre 2023, con un provvedimento storico, la Corte Suprema di Giustizia di Panama ha dichiarato incostituzionale il rinnovo e l’ampliamento del contratto tra lo Stato e il colosso minerario canadese First Quantum Minerals, firmato poco più di un mese prima, il 20 ottobre 2023, per lo sfruttamento della miniera Minera Cobre Panamá, una delle più grandi miniere di rame del Pianeta. Quest’area è situata nel distretto di Donoso, in provincia di Colon ed è una terra indigena nel cuore del corridoio biodiversitario mesoamericano, nato negli anni novanta per mettere in rete le aree protette e gli ecosistemi fragili del Centro America. Da qui  proviene l’un per cento del rame mondiale che costituisce circa il 3,5 per cento del prodotto interno lordo di Panama. Il rinnovo della concessione mineraria è stato fermato all’ultimo, quando la battaglia sembrava ormai persa, dopo un mese di proteste senza precedenti che hanno mobilitato l’intera nazione.

Dai monti al mare, dalle città alle campagne, Panama esce dalle capanne e dalle case, dalle scuole, dalle fabbriche e dalle università, un Paese che alza la testa e rivendica caparbiamente il diritto di decidere della propria terra e del proprio futuro. Sull’onda della vittoria contro Minera Cobre Panamá, simbolo della lotta contro l’estrattivismo, passa anche una legge che blocca tutte le nuove concessioni minerarie a Panama. La vittoria del popolo panamense fa il giro del mondo. “Non era mai successa una cosa del genere, eravamo tutti uniti: ambientalisti e comunità indigene, lavoratori e studenti, scienziati e imprenditori. E quando abbiamo vinto… non ci credevamo, sembrava impossibile” racconta J., un ragazzo indigeno di 18 anni che vive nella piccola cittadina di Coclecito, a pochi chilometri dalla miniera. “Però adesso che succederà? La faranno chiudere davvero? Già nel 2017 l’avevano dichiarata illegale, perché il contratto originale del 1997 era incostituzionale, e non è cambiato niente”.


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Cosa succede dopo la vittoria? La voce di chi vive dentro una delle miniere più grandi al mondo

Per scoprirlo siamo andate fino a Sinai, una comunità indigena Ngäbe di circa seicento abitanti che vive all’interno dell’area che era stata in concessione a Cobre Panamá, in territori che sono ancora interamente controllati dalla polizia mineraria.

Dopo una notte insonne raggiungiamo Coclecito, dove ci viene a prendere Jorge Vargas, attivista storico del luogo che da anni guida le proteste contro i colossi dell’estrattivismo. Ci accompagna fino all’ingresso della strada che porta a Cobre Panamá, solo per ‘vedere’: la polizia della miniera ci manda via impedendoci di fare foto. “Questa strada arriva fin quasi alle comunità, però non si può passare da qui. Non lasciano più passare nessuno se non con permessi speciali. Anche se loro non avrebbero nessun diritto di bloccare il passaggio, perché questa strada è nostra. E in più ora dovrebbero aver chiuso, che diritto hanno di stare qui?” Ci dice un ragazzo che ormai da mesi presidia la strada che porta al centro di estrazione. Qui la legge dello Stato nei fatti non arriva e il diritto pare essere quello del più forte. Anche per questo è a Coclecito che si fermano sempre giornalisti e scienziati, medici e curiosi.

“Nessuno ha mai avuto il coraggio di andare fino a Sinai” ci dice Jorge. Ci sorprendiamo: com’è possibile che per indagare su questo caso storico, su cui sono usciti articoli e reportages in tutto il mondo, nessuno si sia mai spinto fino alle comunità che vivono ai margini della miniera e hanno sempre subito le conseguenze peggiori dell’estrattivismo?

È incredibile, ma possibile. Perché per raggiungere Sinai aggirando la polizia mineraria bisogna camminare sei ore nella foresta, nel caldo insopportabile, guadando fiumi avvelenati e sprofondando nel fango malsano fino alle ginocchia. Ci accompagna S., un contadino indigeno del luogo che ha lavorato per diversi anni per Cobre Panamá. Al ritmo dei passi, della fatica e dei silenzi passano le ore e finalmente, quando ormai non ci speravamo più, la nostra guida inizia a raccontare. Ci parla dell’oro, che è il motivo principale per cui Minera Panama è qui, nonostante la concessione sia per il rame e l’oro dovrebbe essere solo uno dei metalli ‘collaterali’, delle vasche e i bacini di decantazione che sono proprio sopra la sua comunità e se mai si rompesse un argine la seppellirebbe di acqua avvelenata. S. lamenta il fatto che in tutti questi anni non sia mai stata fatta un’indagine indipendente dell’aria e dell’acqua e nessuno sappia esattamente quali sostanze usi la miniera – anche se chiedendo qui tutti rispondono ‘cianuro e mercurio’, pur non avendo la più pallida idea di come e quanto vengano usati e quanto impattino sui fiumi, l’aria e le coltivazioni. Quel che è certo però sono le morti misteriose: bambini e ragazzi che si accasciano all’improvviso mentre sono in piedi o stanno camminando, esanimi, tanto che gli abitanti di qui citano spesso la stregoneria. E da fuori nessuno se ne accorge? Santiago fa spallucce.

Di medici a Sinai non ce ne sono, li abbiamo chiesti, ma non ne abbiamo mai visto uno, e poi molti di noi non sono registrati all’anagrafe, quindi chi si accorge che non esisti più se in realtà non sei mai esistito?

Santiago


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Voragini nella foresta, promesse mancate e una tazza di caffè

Ad un tratto Santiago si ferma e ci propone una deviazione. Lasciamo gli zaini in una capanna, affidati alla guardia di un ragazzo in cambio di un dollaro e saliamo lungo il sentiero per la manutenzione dei tralicci elettrici. Ansimiamo sotto il sole cocente fino a un punto che solo lui conosce. Ci infiliamo nella vegetazione per non essere visti e raggiungiamo una sorta di altura: da lì si apre la vista su una parte della miniera. Anche se distante, andare più vicino è troppo pericoloso ci dice S. con distaccata serenità, “perché loro non hanno problemi ad ammazzarti se gli va”, la voragine immensa che si apre nella foresta è impressionante. Da lì, nascosti fra le foglie e bruciati dal calore terribile, appare davvero come l’ingresso dell’inferno. Facciamo rapidamente un paio di foto e torniamo sul nostro sentiero.

A circa metà strada incontriamo il pugno di case di Nueva Esperancia, una comunità che anni fa fu ricollocata per far posto all’ampliamento della miniera d’oro di Petaquilla S.a. – da cui l’impresa canadese Inmet comprò la concessione per la parte riguardante il rame, poi a sua volta acquistata da First Quantum minerals nel 2013. La gente di Nueva Esperancia sostiene che a loro erano state promesse una strada, una scuola, case di qualità e un lavoro per tutti gli abitanti “in realtà hanno portato del pino canadese per costruire delle baracche, l’hanno calato con l’elicottero e se ne sono andati. Vogliono ricollocare anche noi, anche perché che siamo minacciati dalle vasche di lavorazione dell’oro e viviamo in un’area terribilmente inquinata. Ma io non voglio fare la fine loro” e S. indica le baracche, l’assenza di strade, la foresta mangiucchiata da qualche campo, la miseria.

Poco prima di raggiungere Sinai c’è la casa di S. È una palafitta: assi di legno per il pavimento, foglie di palma per il tetto, le pareti non servono: a proteggere cosa, del resto? Da nascondere non c’è niente, il freddo qui non arriva mai e per fermare il caldo e la violenza non bastano certo quattro tavole di legno. Sulla terra rossa, dura e accidentata ci sono un fuoco, una panca, un tavolo inclinato. Sotto si vive, sopra si dorme. Le donne ci guardano curiose, ma non parlano, i bambini si nascondono. “Figli e nipoti” dice S. Una delle figlie ha 16 anni e ha già quattro bambini.

Alcune famiglie indigene sono accampate sulla strada da mesi per protestare contro la concessione mineraria © Alice Franchi

Ci offrono un miscuglio di yuca e platano pressati e amalgamati insieme con sopra qualche grano di sale – forse c’è anche patata – e un grande bicchiere di plastica sbeccata colmo di caffè. Mangiamo, digiune dalla mattina, ma guardiamo con paura il caffè. Sapendo da dove viene l’acqua è angosciante anche solo portarlo alle labbra. Ci osservano tutti, intenti: quei chicchi di caffè per loro valgono più dell’oro. Beviamo tutto e ringraziamo. A volte basta non pensare.


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Sinai, il villaggio dove di acqua si muore senza sapere perché

Sinai non è un paese, sono capanne sparse nella foresta e fra le coltivazioni. Distano anche un’ora di cammino l’una dall’altra. È impressionante la quantità di fiumi che attraversano quest’area: stiamo guadando di continuo. Fiumi tossici che in questa bruciante umidità non ti possono dare nessun sollievo. “Non bevete né fate il bagno mi raccomando” ci aveva detto Jorge, ma per arrivare alla comunità siamo continuamente a mollo fino alle ginocchia e a volte anche di più. Gli abitanti di Sinai questi sentieri li percorrono tutti i giorni.

“Quando sono venuti quelli della miniera per la prima volta, ancora nel 2007, ci avevano promesso che avrebbero fatto ponti, strade, la scuola e l’ospedale. Che ci sarebbe stato lavoro per tutti e avrebbero mandato i nostri figli all’università” S. fa un gesto ampio comprendendo un ponte traballante di cemento già fatiscente, un vecchio edificio e un prato dove scorrazzano alcune galline: “questi sono il ponte e la scuola. Strade non ce ne sono. Anzi adesso non possiamo neanche usare la nostra per venire qui. L’ospedale nessuno vuole costruirlo. Abbiamo bisogno di un ospedale o di un medico, ma secondo me non vogliono che la gente indaghi su come stiamo”.

Alice ed io dormiamo in una stanza in muratura senza elettricità che dovrebbe essere il centro della comunità, ci portano un po’ di riso per la cena, si sorprendono tutti perché siamo senza scorta, ci dicono di chiuderci dentro che “non si sa mai” e di non dire perché siamo venute lì alla riunione dell’indomani.

Al risveglio il caldo e l’umidità sono già insopportabili. Stiamo male. Siamo entrambe assalite da un forte malessere fisico, nausea, pesantezza degli arti, mal di testa e vertigini. Fatichiamo a camminare e a seguire Ismael, il pastore evangelico della comunità, fino a uno degli ingressi della miniera. Non sapremo mai se sono stati solo sintomi della stanchezza o legati piuttosto all’aria malsana.

Parliamo con le persone, con gli uomini alla riunione che gridano con rabbia le promesse mancate, le bugie, il fatto che lì si estraggono tonnellate di oro e a loro hanno vietato di setacciarne pochi grammi dai fiumi come facevano un tempo per sopravvivere. Che hanno deforestato ettari su ettari di foresta e ora multano chi di loro si taglia un tronco con l’accetta per costruire una capanna. Che avevano promesso lavoro e non gliel’hanno dato. Tutti dichiarano di non sapere cosa c’è nell’acqua, ma ci raccomandano di non berla: “perchè?”

“Meglio di no” è la risposta. Chi può permettersi delle tubature e un rubinetto beve l’acqua che scende dalla montagna, da lontano, ma che arriva comunque solo in alcuni momenti della giornata. E i panni si lavano nel fiume, i bambini giocano nei torrenti, le piante si nutrono dell’acqua che scende dal territorio contaminato di Cobre Panamá. E i grossi tubi che portano le acque nere degli accampamenti dei minatori, migliaia di lavoratori, direttamente nei fiumi? Non si sa, non si sa niente. Perché indagini indipendenti sullo stato dell’acqua non ne sono mai state fatte. E sulla terra? E sull’aria? Le donne e gli uomini si scambiano sguardi “non sappiamo” risponde uno per tutti. Quel che sanno tutti però è che qui di acqua si muore.

Gli abitanti non possono fare indagini sull’acqua © Alice Franchi


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Quando il diritto di sapere è un diritto negato

Come ci aveva anticipato Esteban Brenes-Moura, della Fondazione Re:Wild, ci rendiamo conto ben presto che l’accesso ai dati e alle informazioni è un problema enorme, sia per gli abitanti che per i giornalisti. Spariscono fiumi, specie si estinguono, muoiono persone, l’acqua è avvelenata e questi sono fatti empirici, evidenti, ma “quanto e come” esattamente nessuno può dirlo con certezza. Nemmeno l’impatto della miniera sul corridoio biodiversitario Mesoamericano è quantificabile, pur essendo immenso. Così come l’impatto dei contaminanti sulle risorse d’acqua dell’intero Paese, perché quest’area in provincia di Colon, vicino alla Costa caraibica, è attraversata da una quantità impressionante di fiumi ed è uno dei bacini idrici più importati dello Stato. Gli abitanti dicono che da quando la miniera ha soppiantato le foreste sono calate le precipitazioni e aumentati i periodi di siccità, confermando le dichiarazioni degli ambientalisti. Non c’è tregua al calore asfissiante in questa terra avvelenata.

Nonostante l’acqua non si possa bere, i fiumi vengono utilizzati per lavare gli abiti e per giocare © Alice Franchi

“Non ci permettono però di raccogliere informazioni indipendenti, né la miniera né le istituzioni, che sono corrotte” racconta Raisa Banfield, direttrice di Fundación Panamá Sostenible “questo ci indebolisce perché quando ci chiamano ai giornalisti possiamo dare solo le nostre testimonianze e quel poco che riusciamo a raccogliere assieme alle comunità locali. Se non hai accesso ai dati, né la possibilità di procurarteli e poi di pubblicarli e diffonderli non sei libero. La gente non sa cosa succede né come affrontarlo ed è più facile imbrogliarla, è difficile curare le persone ammalate se non conosci esattamente le cause, le comunità che vivono nelle miniere sono annientate dal fatalismo e dalla rassegnazione e neanche noi sappiamo fino a dove arrivino il mercurio, il cianuro e gli agenti inquinanti nei bacini idrici del Paese. Così abbiamo anche pochi strumenti su cui far presa a livello internazionale”. E nei territori tuttora presidiati dalla miniera, lo sperimentiamo di persona, non si può entrare, sorvolare, fotografare, vedere e domandare senza il permesso e l’accompagnamento dell’impresa. Raisa parla di paradossi, altre illegalità, appropriazioni indebite, come l’allargamento della miniera che da 13mila ettari si è appropriata di altri settemila e ha comprato illegalmente il porto vicino, e di evidenti conflitti di interesse, come il ministro dell’ambiente di Panama, che ha sempre appoggiato le miniere, dall’estrattivismo guadagna molti soldi, dice Raisa, e che ora è quello incaricato di chiuderle.

La libera informazione e la libera ricerca sulle miniere è un diritto che ci sta venendo negato. Le persone di questo muoiono.

Raisa


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Il futuro di Cobre Panamá è il futuro di Panama

La storia delle miniere di Panama, secondo le comunità indigene e gli attivisti locali, non è certo finita con la decisione della Corte Suprema, perché Cobre Panamá avrebbe dovuto iniziare a sgomberare già a dicembre, ma ancora non lo sta facendo. Perché di notte “si sentono ancora le macchine in opera”. Perché al porto di Coclecito ci sono tonnellate di rame che First Quantum Minerals sta tentando di portare via, bloccate, per ora, dai cittadini di Panama e da un pugno di lance, barche e canoe che continuano a opporsi: “i milioni rubati a Panama devono restare a Panama”. Perché Cobre Panamá è dal 2017 che opera illegalmente, quando la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale la concessione originale del 1997: “sei milioni in euro di avvocati per far passare un contratto che violava cinque articoli della Costituzione” ci racconta Jorge, che da vent’anni segue questa lotta. “E se ha lavorato illegalmente fino a oggi come possiamo credere che non continuerà a farlo?” conclude poi, riprendendo le parole del figlio.

“Qui non viene la legge e chi viene…beh, lo corrompono. In fondo”, ci dice Jorge, “i lavoratori raccontano che Cobre Panamá guadagna dai trentamila agli ottantamila dollari al minuto solo con l’oro, di soldi ne ha da spendere per convincere chiunque – o quasi”. Mentre a Sinai si uccide per pochi dollari.

Ciononostante ci sono persone, come S., che non si lasciano corrompere.

Difenderemo la nostra terra fino in fondo e poi quando loro avranno finito la terra io avrò yuca e platano, loro si mangeranno il loro oro

Ma è tutt’altro che facile, anche perché gli abitanti indigeni di Sinai non hanno nessun titolo di proprietà ufficiale di questa terra e il governo  in qualsiasi momento può dire loro di andarsene.

Così, nonostante l’importanza della sentenza storica di novembre, qui la lotta continua più che mai. A Sinai la gente combatte per disperazione e a volte per i motivi più disparati, non tutti nobili e disinteressati, ma continua a lottare, assieme a Raisa, Esteban, Jorge e tanti altri che li supportano con associazioni, fondazioni, organizzazioni ambientaliste, indigene e di ricerca, mandando dati, aiuto e supporto dall’intera nazione e dagli Stati confinanti. Anche se i riflettori del mondo puntano ben distanti da quel che accade in queste terre devastate. Anche se continuano le minacce, le morti inspiegabili. Anche se il colosso di First Quantum Minerals farà di tutto per non andarsene e guarda con ingordigia e nuove speranze alle elezioni panamensi di maggio 2024. Anche se per comprare qualcosa di diverso dal riso e dalla yuca gli abitanti di Sinai devono camminare un giorno nella foresta e se qui è normale che le ragazze a dieci anni già tengano in grembo un figlio senza padre.

Queste montagne si stima che contengano ancora 225 trilioni di dollari in minerali, dichiara Jorge. Ed è evidente che l’avidità insaziabile dell’occidente non li abbandonerà facilmente. Ma quello che sarà di queste terre apparentemente lontane riguarda tutti noi e le conseguenze dirette o indirette le pagheremo tutti quanti. Riguarda la biodiversità, la salute, la democrazia, la cultura, i diritti umani. Per questo camminare nel fango insieme alla gente di Sinai è così importante. Ci auguriamo che altri dopo di noi ripercorrano quella stessa strada per continuare a indagare, fare analisi e raccogliere dati, andare a fondo e poi raccontare le storie che stanno scrivendo il presente aiutandoci a garantire alle persone il loro diritto di sapere.