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La magica malinconia del Mincio

In questo viaggio lungo il Mincio, uno dei fiumi italiani più belli e meno conosciuti, Valeria Margherita Mosca ci racconta il territorio visto con i suoi occhi di forager, guida escursionista, ricercatrice ambientale. E di chef, esperta in cibo selvatico per l’alimentazione umana.

Mi chiamo Valeria e sono una forager. Con la parola foraging si determina l’attività di andare a raccogliere vegetali o parte di essi, adatti al nutrimento umano, in ambienti naturali il più incontaminati possibile.

Molte volte mi sono sentita dire che i foragers deturpano l’ambiente saccheggiandolo per ottenere degli ingredienti di prima qualità. In realtà il discorso è ben diverso. Un vero forager è, al contrario, un profondo conoscitore degli habitat e degli ecosistemi. Riesce ad interagire con essi, rispettandoli, attraverso una raccolta etica e mirata che fa bene all’ambiente stesso, e a sviluppare un senso di empatia profondo che lo rende in grado di percepire la buona salute di un ecosistema, di coglierne l’energia e di saperla interpretare in bisogni o necessità.

Ripresa dall’alto del fiume mincio e dei suoi canali secondari © Isacco Emiliani

Mi ritengo davvero fortunata perché questa attitudine – che ho dovuto imparare – di profonda osservatrice, ascoltatrice e ammiratrice delle bellezze e della ricchezza della nostra biosfera, necessaria per svolgere il mio lavoro, mi ha insegnato un modo di vivere pratico e sereno. Inoltre, ho la possibilità di esplorare tanti territori diversi e, il più delle volte, bellissimi.

Mincio, il fiume sinuoso

Recentemente ho passato qualche tempo in una zona che conoscevo poco, percorrendo in lungo e in largo le sponde del Mincio. Se dovessi descrivere con una parola questo fiume utilizzerei sicuramente il termine “sinuoso”. Le sue acque scorrono quiete per 73 chilometri di meandri ricchi di anse, in uno spazio transitorio tra due realtà molto diverse, culturalmente, biologicamente e geograficamente parlando. Il Mincio è infatti un intermezzo tra due bacini più celebri, quello del Lago di Garda e delle sue colline moreniche, di cui il fiume è emissario (nasce in corrispondenza di Peschiera del Garda) e quello del fiume Po, dove termina la sua corsa nel piccolo comune di Sacchetta di Sustinente.

Germoglio di luppolo © Isacco Emiliani

Valeria Margherita Mosca e Stefano Tosoni osservano il fenomeno di interramento di alcune aree ex paludose a ridosso del fiume © Isacco Emiliani
Stefano Tosoni di Wooding wild food lab raccoglie , immerso nelle acque paludose di un ramo morto del fiume Mincio, campioni di radice di loto pianta super invasiva © Isacco Emiliani
Valeria Margherita Mosca immersa nelle acque del Mincio osservando alcune piante autoctone © Isacco Emiliani
Stefano Tosoni controlla la profondità delle acque prima di procedere alla raccolta di alcuni campioni da analizzare © Isacco Emiliani
Valeria Margherita Mosca verifica la presenza di alcune piante navigando sulla tipica imbarcazione del Mincio © Isacco Emiliani
Stefano Tosoni quasi completamente immerso nelle acque del Mincio durante la raccolta della radice di loto © Isacco Emiliani
Involucri di semi di Loto, pianta super invasiva, nelle acque del Mincio © Isacco Emiliani

Navigando le sue acque lentiche, si attraversano territori diversi, arricchiti da significative testimonianze storiche e naturalistiche. Quasi tutta l’aerea può essere definita una pianura alluvionale a debole pendenza, contesto in cui, per i fiumi, diviene facile impaludare l’ambiente circostante. Le anse che formano il meandro evolvono per effetto dell’erosione della corrente. Una volta creatasi una piccola curva (per effetto di un ingombro, di abbondanti piogge o terreno più debole) l’erosione prosegue creando un’ansa sempre più ampia. Con il passare del tempo, un meandro può interrarsi generando un braccio morto del fiume che modifica cosi il proprio corso. Nascono cosi le paludi, ambienti che caratterizzano il territorio del Mincio. Percorrerlo, con le piccole imbarcazioni che riescono a insinuarsi anche nei canali più stretti, significa perdersi in un intricato labirinto acquatico, incantati dalla magia delle scoperte naturalistiche che gli occhi più attenti possono facilmente cogliere nell’intorno. L’area ospita più di trecento specie di uccelli stanziali, nidificanti, migratori o di passo e un’affascinante vegetazione acquatica suddivisa tra diversi habitat come le paludi, le zone umide, i boschi planiziali e igrofili che genera di conseguenza una biodiversità ricchissima.

Foglie di ninfee che galleggiano sulle acque del Mincio © Isacco Emiliani

Per una forager come me, che spontaneamente trasforma sempre ciò che vede intorno in una sorta di paesaggio commestibile, questo è davvero un luogo invitante ma, prima di parlavi degli ingredienti che vi posso trovare, voglio raccontarvi di come questo territorio è cambiato nel corso degli anni e, di come, purtroppo, questa trasformazione non sia avvenuta sempre nel migliore dei modi.

Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi; non possono né difendersi né scappare.

John Muir

Un territorio che si è trasformato nel tempo

Anticamente quest’area, soprattutto nel tratto che comprende Mantova, era fortemente dominata dall’acqua e da una grande e unica palude dove si intravedevano solo le zone emerse scelte dall’uomo per i propri insediamenti. Visivamente chi vi arrivava si trovava davanti a un simil arcipelago di piccole isole. Alla fine del dodicesimo secolo, grandiose e innovative (per l’epoca) opere idrauliche, trasformarono il disegno del territorio creando tre laghi principali, i laghi di Mantova. La zona di Rivalta sul Mincio rimase invece paludosa. Ed è proprio in questo habitat umido che nacquero importanti sinergie che hanno plasmato il rapporto uomo/fiume, trasformando le paludi nella fonte di reddito principale per la popolazione circostante. Il fiume, grazie a questo particolare ecosistema, offriva all’uomo la carice, che veniva raccolta durante l’estate e venduta, e le canne, tagliate invece durante l’inverno. Due prodotti primari per il reddito, insieme a quelli derivati dalla pesca. Questo sottile equilibrio di cooperazione tra uomo e fiume perdurò per un periodo molto lungo e volse alla fine solo dopo l’industrializzazione. Intorno agli anni Sessanta del ‘900 iniziarono i primi gravi soprusi con lo scarico di sostanze inquinanti, opere antropiche invasive, deviazione delle acque in altri bacini idrici e devastanti gestioni dell’area che hanno portato piano piano a grandi cambiamenti nell’intorno. Le paludi hanno iniziato ad interrarsi e cosi, le piante tipiche di quell’habitat tanto particolare, al centro delle attività redditizie dell’uomo, cominciarono ad essere sempre meno presenti. L’ecosistema si stava trasformando a causa delle opere umane e il fiume stava lentamente perdendo l’attrattività del suo ruolo, un tempo centrale, nella vita quotidiana degli abitanti dell’area.

Una veduta dall’alto del drone di Valeria Margherita Mosca e Wanes Raipi in esplorazione sulle lentiche acque del Mincio © Isacco Emiliani

L’attuale aspetto del Mincio è fortemente influenzato dalle opere antropiche che si sono susseguite nel corso dei secoli per dominare il corso delle acque. In alcuni tratti, però, conserva ancora importanti elementi di naturalità e il suo tipico e affascinante andamento a meandri.

Prima di venire a conoscenza del forte cambiamento che il territorio ha subito, percorrendo il fiume recentemente, sono rimasta incantata dalla sua bellezza e non sono riuscita a percepire, in quel momento, abbagliata da tanta meraviglia, il conflitto che avrebbe poco dopo incendiato la mia coscienza: il bello che gli occhi umani intravedono ammirando un ambiente naturale non corrisponde necessariamente sempre ad un equilibrio biologico corretto. Perché ci accontentiamo di un appagamento visivo e dei sensi e non percepiamo il grido di aiuto di questi delicati ecosistemi? Perché la nostra coscienza è cosi disconnessa? Perché non sentiamo il bisogno spontaneo di immergerci davvero per comprendere, vedere e agire per il bene del nostro pianeta?

Un albero solitario tra i canneti che costeggiano il corso del fiume © Isacco Emiliani

Wanes, i miei occhi sul fiume

È stata una conversazione quasi casuale a illuminare i miei pensieri e risvegliare la mia attenzione permettendomi di comprendere lo stato di fatto della condizione del fiume. Chiacchieravo con Wanes, barcaiolo del Mincio, mite e saggio signore di quasi settant’anni, che mi accompagnava quel giorno nell’esplorazione delle acque. Le sue parole, mentre mi descriveva il cambiamento del suo territorio e del suo fiume, mi hanno spaccato il cuore e mi hanno fatto provare un senso di malinconia enorme.

Il fiume c’è per le persone ma le persone non ci sono più per il fiume

Wanes Raipi

Partendo dalla sua infanzia mi ha raccontato di quanto il fiume fosse al centro della vita delle persone del luogo, quanto influisse sul reddito, quanto queste persone ritenessero il fiume parte di se stesse. Mi ha raccontato di amori nati lungo le sue sponde, di bambini che giocavano come fosse un mare, una spiaggia, e poi mi ha parlato di questo cambiamento lento e inesorabile verso un futuro incerto e grigio, mentre il cuore delle persone si svuotava piano dell’amore per il fiume. Wanes mi ha detto che “il fiume c’è per le persone ma che le persone non ci sono più per il fiume”. Un’affermazione che mi ha scosso e mi ha turbato, che mi ha fatto venire i brividi, che mi ha catapultato con i piedi sulla terra rendendo chiara una realtà che non mi piace, quella di una totale disconnessione. Un fiume che è stato abusato, violentato per anni con scarichi, pesticidi, sostanze chimiche, soprusi. Perfino gli uccelli migratori, vanto del parco naturale – mi ha detto Wanes – non scelgono più queste acque così spesso, nonostante sia possibile osservarne un numero sufficiente per attestare la loro presenza, perché l’area non è più simbolo di equilibrio, non ospita più una biodiversità adatta al loro arrivo e sussistenza. Ed ecco il conflitto, tagliente come una lama, tra la bellezza che i miei occhi riescono ancora a scorgere in questo magnifico ambiente fatto di incastri complessi e delicati, così sofisticati e intelligenti, perfetti e belli da non poterceli nemmeno immaginare, e la verità di queste parole semplici e vere. Ho visto chiara la nostra grettezza e superficialità, la nostra disconnessione che ci rende spettatori passivi, assopiti e distruttivi nella nostra incapacità di imparare ad agire nel modo giusto.

La scelta selvatica: loto, pianta sacra, pianta invasiva

Se dovessi scegliere un solo ingrediente selvatico fra quelli presenti in un habitat di questo tipo non avrei dubbi. Mi concentrerei su una pianta acquatica alloctona e fortemente invasiva così da cooperare con l’ambiente attraverso la sua raccolta e contrastare, almeno in parte, il cambiamento generato dal nostro agire ciecamente.

Nell’area del Mincio una delle più presenti è il loto, il cui il nome scientifico è Nelumba Nucifera, pianta appartenente alla famiglia delle Nelumbonaceae. Originaria dell’India, Cina, Sud Est asiatico e Giappone vive lungo fiumi, estuari e paludi e in quei Paesi è considerata una pianta sacra nella religione Buddista e nell’Induismo, venerata da migliaia di anni e utilizzata nella medicina tradizionale e come fonte alimentare. È stata introdotta in Italia a scopo ornamentale, largamente utilizzata per la sua stupefacente bellezza. Il suo apparato radicale, costituito da rizomi, le permette di diffondersi molto rapidamente ed espandersi sul fondo dei bacini ad una velocità impressionante, rendendone facile la coltivazione. Per questo motivo, poco meno di cent’anni fa, alcuni missionari di rientro dalla Cina proposero di iniziare una coltivazione di loto proprio sui laghi di Mantova, consapevoli del successo della pianta sul mercato agricolo. Proposta che venne concretizzata negli anni ’20 sotto la supervisione di una giovane naturalista, Maria Pelegreffi, che però, dopo l’intervento di immissione della specie, si trasferì. L’esperimento venne quindi dimenticato, lasciando lo sviluppo del loto a se stesso e alla sua velocità di propagazione, senza che la pianta fosse mai utilizzata o presa in considerazione in modo sensato.

Quando noi cerchiamo di staccare qualcosa da se stessa, scopriamo che è collegata a qualsiasi altra cosa nell’universo.

John Muir

Involucri di semi di Loto, pianta super invasiva, nelle acque del Mincio © Isacco Emiliani

Oggi il loto nell’area è considerata una specie dannosa che forma popolamenti monospecifici che sottraggono spazio alla vegetazione autoctona. Questi effetti non colpiscono solo le altre piante, ma anche la fauna: è stato dimostrato che dove prolifera il fior di loto, diminuisce sia il numero di esemplari che il numero di specie di macroinvertabrati, diverse specie di insetti che fanno parte del ciclo vitale legato agli ambienti acquatici. Per questo motivo la specie è inserita nella “Lista nera delle specie alloctone vegetali oggetto di monitoraggio, contenimento o eradicazione (L.R. 10/2008)”.

È importante contrastare la crescita e lo sviluppo di questo genere di piante nell’area, dove sono invasive e dannose, intervenendo preventivamene nelle zone a rischio per evitare che vengano piantate. Dove sono già presenti, è necessario eradicarle e, perché no, se edibili, consumarle come alimenti. Questo schema di azione è alla base del foraging conservativo, che io pratico e ho teorizzato, che si concentra prevalentemente sulla raccolta di piante invasive e dannose per l’ambiente instaurando con esso, di conseguenza, un rapporto davvero cooperativo e di tutela. Tornando al loto, dopo la raccolta, possiamo considerare quasi tutte le parti della pianta come commestibili: i fiori, i semi, i rizomi e le foglie giovani possono essere utilizzati e consumati. È ottimo e molto nutriente. La radice in particolare contiene minerali, tra cui soprattutto rame, ferro, zinco, magnesio e manganese, e vitamine, tra cui spicca soprattutto la vitamina C e le vitamine del gruppo B. Si può bollire, saltare in padella ed è ottima tagliata a fettine sottili e fritta. I petali possono essere consumati crudi e cotti mentre i semi, tostati, possono essere utilizzati come surrogato del caffè o farina di sussistenza.

Credo che il foraging conservativo, che ci obbliga a conoscere gli ecosistemi e l’ecologia e a entrare in sinergia con essi, sia un buon veicolo per avvicinarci agli ecosistemi con una coscienza diversa, facendoci diventare parte di essi e vedere ancora la necessità che abbiamo di vivere questi luoghi e il bisogno che questi luoghi hanno di noi.

Una delle specie di volatili presenti nel territorio del Mincio, un cavaliere d’italia © Isacco Emiliani

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