Alla moda dal 1948: la sostenibilità sociale in mostra

Al via una mostra-concorso dedicata ai diritti dei lavoratori nel tessile. C’entrano la Costituzione e una giacca della Montedison.

Due articoli della Costituzione italiana ricamati su una giacca della Montedison: da questa immagine così forte e così retrò ha origine l’idea che ha dato vita alla mostra-concorso “Alla moda dal 1948” promossa da Trama Plaza, collettivo femminile di moda etica che ha come obiettivo quello di sensibilizzare sui temi della sostenibilità legata al settore tessile attraverso gli strumenti della creatività, del teatro e delle arti visive. In particolare questa iniziativa ha come focus primario quello di stimolare l’interesse della collettività rispetto al settore della manifattura italiana e allo stato di salute dei suoi lavoratori, come ci ha spiegato Laila Bonazzi, giornalista di moda contributor tra gli altri anche di LifeGate e curatrice editoriale del progetto. La giacca zero, se così la possiamo chiamare, è frutto del lavoro della designer Irene Labella, membro di Trama Plaza che ha avuto l’idea di ricamare gli articoli 4 e 36 della Costituzione italiana su una giacca comprata in un mercatino in Puglia e appartenuta ad un lavoratore o ad una lavoratrice della Montedison. Per il concorso è stato quindi chiesto a sette aziende di donare le proprie uniformi da lavoro e ad altrettanti designer e di reinterpretarle scegliendo una prospettiva sul lavoro che gli fosse cara.

Alla moda dal 1948
La giacca della Montedison su cui Irene Labella ha ricamato gli articoli 4 e 36 della Costituzione © Trama Plaza

“Alla moda dal 1948” un concorso e una mostra

“L’idea è venuta alla fondatrice di Trama Plaza, Erica Brunetti, osservando la giacca realizzata da Irene Labella e donata al collettivo. “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4) e “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge” (art. 36)”. Il lavoro è uno dei tasselli fondamentali della nostra società per questo abbiamo coinvolto tutte aziende attive sul territorio: le sette che parteciperanno al concorso avranno tutte diritto ad un corso di mentorship e formazione sulle tematiche legate ai diritti umani nel mondo del lavoro tenuto da Deborah Lucchetti di Campagna Abiti Puliti, mentre il brand vincitore riceverà anche un premio in denaro di 3000 euro.

“Ultimamente, in fatto di moda sostenibile, mi sembrava di notare uno sbilanciamento di interesse nei confronti delle tematiche che riguardano gli aspetti di produzione-impatto ambientale, che non quelle afferenti al benessere dei lavoratori che, a pensarci bene, è una cosa strana perché quello dei lavoratori è un aspetto di più semplice comprensione rispetto a logiche o processi produttivi inquinanti. A molti sarà capitato di perdere il lavoro, o di conoscere qualcuno a cui è successo, più difficile è avere esperienza diretta di cosa significhi tradurre un certo processo in emissioni, o afferrare in pieno quali siano le implicazioni della produzione del cotone o dei materiali bio-based, eppure ho riscontrato come non sia solamente una mia sensazione: dei diritti dei lavoratori nel tessile si parla molto poco. Lo stesso The Fashion Pact ad esempio, che ha la particolarità di essere un’iniziativa implementata da oltre 160 brand e 60 CEO, quindi ha un particolare interesse perché è l’industria della moda stessa ad aver settato le proprie priorità, non comprende tra i suoi punti d’azione le persone o i diritti dei lavoratori. I quattro pillar del patto sono infatti “nature positive actions”, “renewable energy”, “lower impact materials” e “lower impact production”.

Alla moda dal 1948
Una delle divise donate rimaneggiata secondo le logiche dell’upcycling dal brand Bennu © Trama Plaza

Ai brand partecipanti è stato chiesto di rimaneggiare una giacca da lavoro secondo le logiche dell’upcycling, per focalizzare l’attenzione su uno specifico aspetto della catena produttiva. I loro lavori verranno poi valutati da una giuria composta dai nomi più hot della sostenibilità italiana nel settore tessile: Marina Spadafora, autrice e professoressa ed esperta di moda responsabile, Sara Sozzani Maino, Creative Director Fondazione Sozzani, Francesca Rulli, CEO e Founder di Process Factory e CEO e Co-Founder di Ympact Società Benefit e Co-amministratore di YHub Holding e ideatrice del sistema 4sustainability®, Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale Campagna Abiti Puliti, Silvia Gambi giornalista e founder di “Solo Moda Sostenibile” e Sustainable Fashion Consultant, Monica Del Grosso, head of global ESG & audit presso Moleskine, Anna Detheridge, giornalista e presidente Connecting Cultures, Mélanie Duhamel, fragrance director, Italy, Spain, Portugal presso MANE, e infine Tania Gianesin, co-fondatrice di Moleskine Foundation. Il vincitore sarà proclamato il primo febbraio nel corso dell’inaugurazione che si terrà al Teatro Bello di Milano mentre le giacche saranno esposte in una mostra visitabile fino all’11 febbraio e ospitata nello Spazio Seicentro di via Berlinguer. Unitamente alle divise saranno esposti anche alcuni scatti della fotografa Agnese Morganti frutto di un workshop che ha coinvolto alcuni residenti del quartiere Giambellino, ritratti con le divise da lavoro in alcune botteghe storiche della periferia sud milanese.

La questione del Made in Italy

“Quello che mi preme portare sotto gli occhi di tutti è che il Made in Italy non è esente dalle problematiche più scottanti che riguardano i lavoratori del tessile, come dimostrano anche recenti casi di brand commissariati perché ritenuti incapaci di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del proprio ciclo produttivo e perché ritenuti risponsabili di ricorrere a manovalanza in nero e clandestina” spiega Bonazzi. “Anche il Made in Italy presenta filiere opache dove sono all’ordine del giorno scenari di sfruttamento e dove non si guarda né al benessere dei lavoratori e né tantomeno al minore impatto ambientale del capo. Nel selezionare i brand in concorso, ci sembrava quidi giusto valorizzare quelle aziende che invece se ne preoccupano e che hanno una filiera particolarmente integrata sulla quale riescono ad avere maggiore controllo”. I brand che si sfideranno nel contest di upcycling sono: BENNU, BLUE OF A KIND, Cavia, _DENNJ_, flavialarocca, Giorgiandreazza e ZEROBARRACENTO. “I designer dal loro punto di vista, oltre alla consapevolezza e al riuso, hanno affrontato tematiche legate al mondo del lavoro come ad esempio la maternità, argomento trattato da due dei marchi in concorso”.

Alla moda dal 1948
Una delle giacche da lavoro donate rivisitata dal brand ZEROBARRACENTO © Trama Plaza

Un altro aspetto per il collettivo Trama Plaza molto importante è quello della connessione con il territorio: “Tutte le aziende nel Made in Italy hanno una storia simile, sono nate tutte più o meno tutte dopo la guerra e spesso sono legate alla storia mitica di un fondatore, che è partito da un piccolo laboratorio per poi far prosperare l’azienda proprio grazie al rapporto a doppio filo con il territorio, per il quale ha creato lavoro e dato valore alle risorse, contribuendo spesso alla creazione di distretti produttivi. Non è scontato però che questa situazione perduri per tutte le realtà: quello del territorio per noi è un punto fondamentale perché se un marchio non crea valore per la sua comunità allora serve solo a fare profitto per sé stesso e non è utile a nient’altro”.

La tematica femminile e femminista

“Un altro dato che mi ha colpito molto è che quella del lavoro è anche una questione femminista, qui come altrove. Sappiamo che a livello mondiale la maggior parte dei lavoratori sfruttati nel tessile è donna, ma è un’illusione pensare che questo sia un problema circoscritto al Bangladesh, in Italia la situazione è la stessa. Ho fatto i conti e anche da noi la maggior parte delle persone impiegate nel settore tessile è donna: ad esempio mi sono fatta dare i dati delle 7 aziende con cui abbiamo lavorato e su un totale di 5052 lavoratori e lavoratrici, le donne sono circa il doppio degli uomini: ovvero 3292 contro 1760. Quello dei diritti dei lavoratori tessili è quindi a tutti gli effetti un problema femminile e un problema femminista, tanto in Bangladesh quanto in Italia.

 

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