La nostra selezione periodica di marchi responsabili nei confronti dell’ambiente e dei lavoratori.
A dodici anni dalla tragedia del Rana Plaza si celebra le seconda Giornata mondiale per un salario dignitoso nel settore della moda.
Il nostro modello di sviluppo si basa su un obiettivo chiaro, universale e esplicito: massimizzare i profitti. E per farlo è stato concesso tutto, o quasi. Abbiamo disboscato la foresta amazzonica in maniera catastrofica, nonostante la biodiversità sia fondamentale per l’alimentazione umana. Abbiamo bruciato fonti fossili sostanzialmente senza limitazioni, pur sapendo che ciò avrebbe provocato una crisi climatica epocale. Abbiamo sfruttato le risorse naturali della Terra senza porci neppure il problema di quali conseguenze ciò avrebbe comportato. O ancora abbiamo concesso paghe indegne anziché un salario dignitoso ai lavoratori di numerosi settori economici pur di contenere al massimo i costi. Tutto, appunto, in nome di un unico faro: guadagnare il più possibile.
Certo, non si deve generalizzare: nonostante il sistema spinga in questa direzione, c’è chi ha preferito altre strade. Si tratta però di buone pratiche che rimangono ancora minoritarie. E il settore della moda, in questo senso, rappresenta un esempio evidente.
Da decenni nel comparto si risparmia ad esempio sui materiali, privilegiando tessuti artificiali deleteri per clima e ambiente. È il caso del poliestere, la cui produzione dipende dal petrolio e che, come se non bastasse, produce microplastiche ad ogni lavaggio, inquinando i mari di tutto il mondo. Basti pensare che uno studio canadese, nel 2021, ha rivelato che il 73 per cento delle particelle di plastica presenti nell’Artico, deriva proprio dalle fibre sintetiche dei capi d’abbigliamento.
Abbattere i costi sui materiali, però, per i produttori non è bastato. Bisognava tagliare il più possibile anche sul capitale umano. Il che in innumerevoli casi si è tradotto in meno personale possibile, con turni il più possibile lunghi, in condizioni di lavoro meno onerose possibile (anche a costo di rinunciare alla sicurezza) e, ovviamente, con paghe il più basse possibile. La tragedia del Rana Plaza non fu altro che la conferma di tutto questo.
Le remunerazioni nel settore della moda sono da tempo al centro di un ampio dibattito. Soprattutto l’avvento della fast fashion, il cui obiettivo è immettere nel mercato prodotti a prezzi il più possibile bassi, sfruttando i grandi numeri, ha reso il problema evidente a tutti. Addirittura, la pratica è evoluta nel tempo nel peggiore dei modi, arrivando all’aberrazione dell’ultra-fast fashion: la sconcertante estremizzazione di tutto ciò che già non andava nel comparto.
Si stima che la produzione di abbigliamento dia lavoro a circa 75 milioni di persone in tutto il mondo: nella maggioranza dei casi si tratta di donne. E nella maggior parte dei casi le condizioni di lavoro sono deplorevoli. In Bangladesh, ad esempio, il salario medio è pari all’equivalente di circa 86 euro: appena sufficiente per sopravvivere. Secondo un rapporto dell’organizzazione non governativa Oxfam nella maggior parte dei paesi asiatici, nei quali si concentra buona parte della produzione tessile mondiale (oltre al Bangladesh, anche Vietnam, Indonesia, Cambogia e India), il salario è non di rado inferiore a 1 dollaro l’ora.
Risultato: per poter proporre a noi consumatori del mondo ricco magliette a 7 euro e pantaloni a 15 euro, il 56 per cento delle lavoratrici del tessile in Bangladesh è costretto a comprare beni di prima necessità a credito. In Vietnam, il 37 per cento deve chiedere per lo stesso scopo denaro in prestito a familiari o amici.
È per questo che la battaglia per un salario dignitoso nella moda non è solo una – sacrosanta – richiesta di rispetto per i lavoratori, che non soltanto devono avere a disposizione ciò di cui necessitano per vivere in modo decente, ma devono anche poter essere impiegati per un numero di ore ragionevole e poter godere di standard di sicurezza adeguati. È anche la lotta per un modello di sviluppo alternativo, giusto, equo e orientato in primo luogo al benessere delle persone e alla tutela della natura: è questo il punto di congiunzione tra la giustizia sociale e quella climatica.
In tale, ipotetico, nuovo modello di sviluppo si dovrebbe accettare il principio secondo il quale si può aumentare la ricchezza, ma a condizione di non nuocere all’ambiente, al clima, alle comunità, ai singoli individui e in modo tale da non generare disuguaglianze inaccettabili. In altre parole, il paradigma sarebbe semplicemente stravolto rispetto a oggi.
È evidente, infatti, che un sistema che preveda “prima” i diritti e solo “poi”, a determinate condizione, i profitti, rispetterà in modo “naturale” i principi di giustizia nei confronti delle persone e del Pianeta. La campagna Abiti Puliti Italia si batte in questa direzione da anni. L’obiettivo, è di “intraprendere un cambiamento radicale, con una trasformazione socio-ecologica che metta al centro il protagonismo delle lavoratrici lungo tutta la filiera”.
Si tratta, con uno slogan, di passare alla Just fashion. Per farlo, però, occorre coinvolgere numerosi attori: dai sindacati agli attivisti, dai lavoratori alle aziende, dalle comunità alle istituzioni. Per questo la campagna Abiti Puliti ha adottato un Manifesto per una transizione giusta, e organizza in tutta Italia workshop, eventi e campagne.
D’altra parte, le criticità – benché non si raggiungano le situazioni estreme di alcuni stati asiatici – non risparmiano neppure il nostro paese. Secondo la metodologia di calcolo proposta dalla Clean clothes campaign, che si basa sul costo della vita e prende come riferimento un ménage familiare anziché individuale, un salario dignitoso in Italia per una persona che lavora 40 ore a settimana nel 2024 dovrebbe essere non meno di duemila euro netti al mese (24mila euro netti all’anno, o 11,50 euro all’ora). E basandosi su tale soglia per individuare i salari troppo bassi, si dovrebbe concludere che almeno tre lavoratori su quattro in tutto il territorio nazionale non raggiungono stipendi dignitosi. In un rapporto del 2014, Abiti Puliti spiegava che il salario netto medio è invece di 1.410 euro mensili.
“In Italia, la nostra campagna assume un significato concreto e urgente: è fondamentale investire nella giusta transizione, puntando sul welfare e sui salari dignitosi, piuttosto che su spese militari e riarmo. Le risorse pubbliche e private devono essere destinate a rafforzare i diritti, ridurre le disuguaglianze e costruire un sistema sociale più equo, capace di proteggere chi lavora ogni giorno”, spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna.
Per questo, la coalizione di realtà che ne fa parte parte (AltraQualità, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Equo Garantito, Focsiv, Fondazione Finanza Etica, GuardAvanti Eta, Movimento Consumatori e Oew) propone una serie di misure che sarebbero in grado di rendere la moda molto più sostenibile da un punto di vista sociale. Concretamente, oltre a paghe ragionevoli, si chiede anche un trattamento equo e condizioni occupazionali stabili.
Quest’anno, proprio il 25 settembre, la Clean clothes campaign presenterà la nuova Roadmap sul salario dignitoso, aggiornamento di quella del 2013, per rispondere alle sfide degli ultimi anni e all’attuale contesto globale: “Non un documento utopico – spiegano gli organizzatori – ma una proposta concreta e realizzabile, a condizione che aziende, governi, sindacati e cittadini considerino il salario dignitoso come base per un’economia più giusta”.
Si punta in particolare ad ottenere “accordi vincolanti e quadri giuridici solidi in grado di obbligare le aziende a rispettare il diritto a un salario dignitoso. Il nuovo documento punta in particolare sulla due diligence obbligatoria, sulla giustizia di genere e sulla protezione sociale, insieme a meccanismi più robusti di responsabilità e trasparenza”. Dai marchi della moda ci si attende poi che garantiscano “che i prezzi di acquisto e le altre pratiche di approvvigionamento permettano il pagamento di salari e condizioni di lavoro dignitosi in tutta la catena di fornitura”.
Al contempo, ai governi e ai legislatori si chiede di introdurre quadri giuridici e politiche conseguenti. La battaglia è ancora lunga, ma un numero crescente di persone, nei paesi ricchi del mondo, comincia ad essere cosciente della necessità di un cambiamento profondo. Merito proprio delle campagne nazionali e internazionali e dell’impegno di migliaia di attiviste e attivisti.
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