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Beppe Severgnini. In punta di lingua
Sono lombardo, sono italiano, sono un europeo, che ha studiato anche in Europa e quando giro il mondo penso di essere un essere umano. Somo Severgnini.
Ha raccontato gli italiani a loro stessi, le loro peculiarità, il loro costume. La loro testa e ora la loro pancia. Da dove nasce questo bisogno di raccontare?
In radio la mia coccarda non si vede, ma è bianca rossa e verde. Sono italiano, non so se sono un italiano vero come Toto Cutugno, però sono certamente un italiano innamorato del suo paese. Spesso l’oggetto del proprio amore (vale anche nel rapporto sentimentale) provoca rabbia. Il contrario dell’amore non è l’indifferenza. Ecco, l’Italia non mi è mai indifferente. Voglio provare a raccontare gli italiani e in fondo da vent’anni scrivo un lungo libro: la lingua degli italiani con “Italiano. Lezioni semiserie”, “La testa degli italiani” e adesso “La pancia degli italiani”. Qualcuno mi ha detto “Beppe, continua a scendere, perché è di moda scendere anatomicamente”, ma io sono un ragazzo di Crema e non lo farò.
Appunto, di Crema, la sua città natale. Lei è nato in Italia, ha studiato alla scuola inglese, ha lavorato e vissuto all’estero, ma poi è tornato lì. Che cosa l’ha riportata a casa?
Io sono di Crema, sono un lombardo, sono un italiano, sono un europeo appassionato, che ha studiato anche in Europa e quando giro il mondo penso di essere un essere umano. Credo che tutti questi cerchi concentrici formino l’identità di una persona; se poi qualcuno, siccome è innamorato delle proprie radici, vuole usarle come spadone per darlo in testa a quelli del paese vicino, lo faccia, però mi sembra proprio un modo stupido.
Che cosa ancora si sente di non aver fatto?
Non ho fatto sci nautico sul lago di Como, non ho scalato l’Everest e non ho ballato il rock’n roll con Scarlett Johansson. Quest’ultima forse è la cosa che mi è più vicina, per cui mi sentirei di rischiare qualcosa.
Sì, ma Scarlett Johansson l’ha intervistata per Sette, il settimanale del Corriere della Sera!
E le dico una cosa buffa: mi è arrivato qualche settimana fa un invito da parte della sua agente dicendo che Scarlett Johansson era a Shanghai e aveva invitato lì persone che aveva conosciuto l’anno scorso. Ma io faccio 25 anni di matrimonio e vado proprio a Shanghai alla fine del mese e se avessi detto a mia moglie: “Guarda, Ortensia, c’è un piccolo dettaglio, non andiamo a Shanghai a fine settembre, perché devo andare a trovare Scarlett Johansson all’inizio di settembre”, credo che avrei ballato il rock’n roll, ma in un modo diverso.
È stato forse il primo giornalista italiano ad avere un blog, Italians; ha più di 85mila follower in Twitter. Ha ideato la rubrica “Tre minuti una parola” su Corriere.it. È appena uscita un’app del suo ultimo libro. Cosa offre la tecnologia alla comunicazione?
Lei ha fatto un riassunto che da un lato mi inorgoglisce, dall’altro dimostra che lei s’è preparata bene. Ha detto veramente quattro cose di cui sono molto orgoglioso. Perché, vede, ho i capelli metallizzati e ho 54 anni, penso che nei nostri mestieri non bisogna fare finta di essere i “modernelli”, sono un uomo di una certa età, non sono un bambino. Credo che le tecnologie offrano a un giornalista la possibilità di essere non troppo avanti, ma sempre sulla prua. Se il giornalismo è una nave, uno deve avere il coraggio di stare sulla prua a prendere il vento in faccia: ci sarà una volta che si bagna, non importa! Invece ci sono alcuni colleghi che una volta arrivati, basta un minimo di notorietà, si mettono in cabina di prima classe, stanno lì e ordinano champagne, però non è così che ti mantieni fresco. Ho un sacco di lettori giovani perché capiscono che per me Twitter è una forma di microblogging in cui mettere un po’ del tuo, di commenti su quello che accade. E così per il blog-forum Italians. Per adesso reggo ancora attaccato alle funi sulla prua della nave del mio mestiere; prima o poi casco, però se non altro mi sono molto divertito nella traversata.
Lei difende giustamente la lingua italiana. Al contempo è un grande utilizzatore di nuovi strumenti tecnologici per la comunicazione. Secondo lei portano inevitabilmente la lingua verso un impoverimento?
No, penso che bisogna distinguere. Le e-mail secondo me appartengono alla categoria lettere, la traduzione di “mail” è lettere, quindi in una lettera, in una relazione, in un’email credo che l’italiano debba essere usato nel modo giusto. Ci sono forme che non mi piacciono, soprattutto quelle ricalcate sull’inglese: “Voglio essere un player di questa storia”, “Bisogna stressare e supportare questa promozione”. Ragazzi, così parlano i disc jockey, i consulenti McKinsey e i bocconiani, l’ho scritto anche sul Corriere della Sera. Però è altrettanto vero che un sms e un tweet hanno necessità di spazi che costringono a qualche risparmio e a qualche escamotage: niente di male. Io a scrivere “ke” non sono ancora arrivato, è più forte di me, però una volta un amico di mio figlio, che allora aveva 16 anni, mi ha detto: “Guarda Beppe che se io scrivessi gli sms o nelle chat l’italiano che dici tu, non troverei la ragazza” e io gli ho detto: “Guarda, la ragazza è molto più importante dell’ortografia, quindi scrivi come diavolo vuoi”.
Quindi non si tratta di impoverimento, è la lingua che cambia in un flusso?
La lingua cambia. Io credo che uno debba avere il gusto della lingua, come ha il gusto dell’abbigliamento, il gusto del cibo. Uno deve scegliere. Se uno sceglie di usare una serie di orrendi anglicismi, se uno sceglie di ignorare il congiuntivo, se uno sceglie di mettere dieci “che” in una frase, faccia pure. È la sciatteria e la pigrizia che irritano. Secondo me avere un po’ di orgoglio linguistico è giusto. È come se a uno, quando va a mangiare, vada bene qualunque sbobba gli mettano nel piatto. Uno può mangiare male, può parlare male, può vivere male e può vestirsi male. Contento lui…
Una questione di stile?
Sì. E “stile” non a caso è una parola che si adatta molto bene alla lingua.
Ha recentemente scritto un articolo sul Corriere della Sera per spiegare chi era Montanelli a un diciottenne di oggi. Chi era per lei Indro Montanelli?
Il mio maestro. Direi che è una tale fortuna avere un maestro, quello che ti insegna le cose da non scrivere, le parole da non usare, gli attacchi da non portare e soprattutto le persone da non frequentare. Questo è stato il suo grandissimo insegnamento. Credo mi abbia insegnato a interpretare le facce e i comportamenti: ci sono dei personaggi con cui non voglio aver niente a che fare. Forse questo è un antico insegnamento di Montanelli. Inoltre mi ha insegnato a usare gli aggettivi e a essere molto parco con gli aggettivi. Fosse solo per questo sarebbe già un maestro, ma direi che mi ha insegnato molto altro. Aveva la passione di fare il talent scout. Io non so se sono un talento, ma certamente trovava dei ragazzi e vedeva in loro alcune qualità e lanciava, li spingeva a fare quello che si sentivano. Un ragazzo era più bravo nell’organizzazione, uno era appassionato di politica, uno aveva la mania dei numeri, uno aveva la passione di usare l’ironia per raccontare il mondo: il caso mio.
LifeGate è anche una radio, perciò, parlando di musica, c’è un artista che lei ama?
Ce ne sono molti e quindi mi trovo un po’ in imbarazzo. Tra gli italiani, uno di cui ho grandissima stima è Ivano Fossati. Tra l’altro ho scritto una cosa per lui, per il libro che uscirà insieme al prossimo disco, raccontando l’aspetto civico della sua canzone, proprio quasi come un educatore. Lui non lo sa, e per fortuna non lo sa, quanto è importante “Pane e coraggio” per spiegare per esempio l’immigrazione. Un altro molto bravo è stato Franco Battiato: negli anni ’80 ha certamente segnato la storia d’Italia, aveva lo spirito del tempo proprio sulle dita e sulle labbra. Tra gli stranieri forse il gruppo che considero in assoluto il più rivoluzionario sono i Talking Heads. Ho capito la loro grandezza un po’ prima di tanti altri nel 1980, l’unico anno in cui io sono stato moderno: perché uno è moderno una volta, prima sogna di essere moderno, poi ricorda quando è stato moderno. Nel 1980 sapevo tutto, dalla musica all’abbigliamento e così via, prima di leggerlo sui giornali, perché avevo 23 anni. Così quando ho sentito i Talking Heads la prima volta a Berlino ho detto: “Wow, questi respirano il tempo che vivono!”. ‘Burning Down the House’ è una canzone da brividi ancora adesso.
C’è un momento particolare in cui lei gradisce ascoltare la musica?
Bè, ho una sorta di rituale, non l’ho mai confessato. Quando la mia assistente e mia moglie verso le 18.30 vanno a casa e rimango solo, comincio a scrivere usando la musica. Sono un paio d’ore importanti, dalle 18.30 alle 20.30, non durante tutto il giorno, ma in quelle due ore sì, è un momento speciale. Lì ci sono alcuni autori che ascolto. Per esempio con le canzoni di Ludovico Einaudi ho scritto in parte “La pancia degli italiani”, avevo bisogno di un piano rilassante dovendomi occupare di Berlusconi, voi capite. Quando scrivo alcuni pezzi posso mettere i Talking Heads, per altri Ludovico Einaudi, Leonard Cohen o i Jefferson Airplane.
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