La guerra in Tigray si è trasformata in una campagna di pulizia etnica

Mentre nel Tigray, nel nord dell’Etiopia, si continua a combattere, diversi rapporti denunciano i crimini contro l’umanità commessi dai militari etiopi ed eritrei.

Un nuovo rapporto di Amnesty International ha rivelato che l’esercito eritreo è responsabile di un massacro di oltre 200 civili avvenuto a novembre nella città etiope di Axum, nel Tigray. Una notizia che conferma le voci secondo cui i soldati di Asmara stiano combattendo al fianco di quelli di Addis Abeba nella guerra civile che da tre mesi si consuma tra il governo federale etiope e il Tigray people’s liberation front (Tplf), che controlla la regione. Intanto la crisi umanitaria fa registrare numeri sempre più spaventosi, con oltre 60mila persone fuggite nel vicino Sudan e due milioni di sfollati interni. E la comunità internazionale ora parla di pulizia etnica e crimini contro l’umanità.

I terribili mesi del Tigray

La guerra in Tigray è cosa recente, essendo scoppiata nel novembre scorso. Ma le sue origini sono lontane e hanno a che fare con l’enorme eterogeneità dell’Etiopia, composta da 80 diversi gruppi etnici. Queste differenze fino a poco tempo fa si riflettevano nella rappresentanza politica, poi nel 2019 il nuovo presidente Abiy Ahmed Ali ha creato il Partito della prosperità, un’unione tra i diversi partiti che caretterizzavano la coalizione dell’esecutivo etiope. Il Tigray people’s liberation front (Tplf) è l’unica compagine a essersi opposta a questo cambiamento perché avrebbe portato a una perdita del potere e della rappresentanza tigrina. Da lì i rapporti con il governo sono peggiorati.

La regione del Tigray, dove si sta combattendo la guerra
La regione del Tigray, dove si sta combattendo la guerra © Aljazeera

Nel 2020 in Etiopia dovevano tenersi le elezioni, ma il presidente Ahmed Ali le ha rinviate a data da destinarsi a causa del coronavirus. Il Tplf non ha accettato la decisione e ha organizzato autonomamente la tornata elettorale nella regione sotto il suo controllo, provocando le ire di Addis Abeba. Infine in autunno alcune forze regionali legate al Tplf hanno attaccato una base militare della regione controllata dal governo centrale. È stata la scintilla che ha fatto scoppiare la guerra, con il presidente che ha ordinato un’offensiva militare che sulla carta è durata poche settimane, ma nella realtà dei fatti non si è ancora conclusa.

Il 4 novembre aerei da combattimento dell’esercito etiope hanno bombardato il Tigray, mentre le truppe sono avanzate nella regione. Ci sono stati violenti scontri e nei giorni successivi le forze del Tplf, che è un organismo politico paramilitare, hanno lanciato razzi contro alcune postazioni della vicina regione Amhara, le cui forze stanno combattendo al fianco dell’esercito centrale, e contro Asmara, la capitale dell’Eritrea, accusata di stare aiutando militarmente l’esercito etiope. Il presidente Ahmed Ali ha dichiarato che durante gli attacchi di novembre nessun civile ha perso la vita, ma le testimonianze sul terreno – complicate dal fatto che il governo ha tagliato internet e tutti i servizi di telecomunicazione nella regione, oltre ad aver ostacolato l’attività dei giornalisti – raccontano una storia differente. A fine mese il governo ha annunciato la liberazione del Tigray e la fine del conflitto, ma in molte aree remote i combattimenti vanno ancora avanti.

La testimonianza di un ragazzo tigrino

“Molti cittadini sono morti, i jet sono arrivati a bombardare perfino il capoluogo del Tigray, Makallè, mentre centinaia di corpi sono stati ritrovati in altre parti della regione. Io stesso ho perso due zii, ma l’ho saputo solo di recente a causa del blocco delle telecomunicazioni”.  Yonas (nome di fantasia) è un ragazzo di 19 anni arrivato in Italia nell’estate scorsa per motivi di studio universitari. Viene dal capoluogo del Tigray e non sta passando un periodo sereno, dal momento che tutta la sua famiglia si trova nella regione in conflitto. Da qualche giorno è tornato a sentirli, dopo che le chiamate sono nuovamente consentite a Makallè. Ma, come racconta, in altre aree più remote della regione il blocco di internet e del resto delle comunicazioni imposto dal governo centrale non è ancora stato risolto.

“Lo stato etiope si è sempre retto su un equilibrio precario per la sua alta eterogeneità etnica. Il nuovo presidente, dopo il suo insediamento nel 2018, ha portato avanti l’idea di una riunificazione che all’inizio era piaciuta a tutti, compresi i tigrini, con cui i rapporti erano buoni. Poi con il tempo è emerso come il suo obiettivo fosse in realtà imporre le tradizioni dell’etnia Amhara a tutto il paese e limitare la rappresentatività delle altre. Da qui l’opposizione all’alleanza del Tplf ma anche di altre realtà politiche, come quella Oromo”, spiega Yonas, che considera le elezioni organizzate autonomamente dal Tigray il pretesto usato da Addis Abeba per un attacco già premeditato da tempo.

Il presidente Ahmed Ali per settimane ha continuato a negare il coinvolgimento dei civili nella guerra, poi però sono iniziate a emergere testimonianze che smentiscono questa versione. “La situazione è molto critica nel Tigray, da quanto mi ha raccontato la mia famiglia nel capoluogo è tornata una tranquillità apparente ma nelle campagne si continua a combattere”, continua Yonas. Diversi rapporti confermano in effetti come ci si trovi davanti a una tragedia. Gli inviati dell’Unione africana hanno parlato sin dall’inizio di migliaia di vittime tigrine anche tra i civili, oltre 60mila persone sono fuggite nel vicino Sudan e gli sfollati interni sono due milioni e mezzo. Gran parte della popolazione della regione ha poi necessità di beni alimentari, in quella che appare una vera e propria catastrofe umanitaria, come rilevato anche dall’Unhcr. Intanto vengono denunciati episodi di pulizia etnica, come le 750 persone uccise nella città santa di Axum, o il massacro denunciato nei giorni scorsi da Amnesty international, con civili uccisi in strada e rastrellamenti nelle case. E sempre l’Unhcr nelle scorse ore per la prima volta ha parlato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dai soldati etiopi ed eritrei.

Il coinvolgimento internazionale

“Oggi il problema principale è l’Eritrea, che sta combattendo con il suo esercito al fianco dei militari etiopi e che è mossa da uno spirito di vendetta contro i tigrini”, denuncia Yonas, una versione confermata anche dai video e dalla stessa Amnesty international, ma negata da Addis Abeba. “Anche i mie due zii sono morti per mano dell’esercito di Asmara. Quando i soldati sono arrivati nel loro villaggio loro sono fuggiti nelle colline assieme ad altri maschi ma una volta rientrati verso le loro case sono stati giustiziati in strada. Molte donne invece sono state stuprate”.

L’Eritrea e l’Etiopia hanno vissuto un conflitto decennale, ma nel 2019 il presidente etiope ha ricevuto il Nobel per la pace per il processo di pacificazione messo in atto. Oggi combattono fianco a fianco nel Tigray, peraltro con armi italiane visti gli accordi commerciali recenti stipulati da Roma con l’Etiopia. Migliaia di eritrei fuggiti nel Tigray dalla dittatura di Asmara vengono intanto deportati con la forza nella loro terra di origine, con interi campi profughi distrutti. Intanto nelle scorse ore giornalisti e traduttori di diverse testate internazionali sono stati arrestati mentre documentavano il conflitto. Queste numerose e terribili testimonianze hanno fatto sì che nelle ultime settimane si sia alzata la voce della comunità internazionale contro entrambi i paesi. Gli Stati Uniti hanno chiesto di fermare la pulizia etnica e intimato alle forze governative di ritirarsi dal Tigray, suscitando le ire di Addis Abeba. L’Unione Europea ha fatto un appello perché l’Eritrea e l’Etiopia ritirino i rispettivi soldati e ha sospeso un pacchetto di finanziamenti per lo sviluppo.

“C’è una qualche luce di speranza in fondo al tunnel, dal momento che il conflitto del Tigray inizia ad avere una risonanza mediatica e che la comunità internazionale si sta mobilitando”, conclude Yonas. “Serve fermare al più presto il conflitto, il prezzo pagato è già stato troppo alto”.

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