Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Lana di alpaca e tinture naturali, la moda sostenibile di Medea
Si chiama Medea, unisce gusto italiano ad artigianalità boliviana e dal 2001 produce capi di abbigliamento in lana di alpaca, tinti naturalmente con radici, fiori e bacche. Abbiamo intervistato la fondatrice Emanuela Venturi.
È partito tutto dal colore. E da un’intuizione. Era il 2001 quando Emanuela Venturi ha deciso di dare vita a Medea, il marchio di abbigliamento eco-friendly che realizza capi in lana di alpaca e utilizza le tinture naturali. “Gusto italiano fatto in Bolivia”, come ci racconta Venturi: Medea utilizza solo lana di alpaca boliviano, si rifornisce direttamente dai piccoli allevatori e offre lavoro alle cooperative di produttori di filati. Ogni capo, infatti, è realizzato a mano da esperti artigiani locali che filano e tingono rispettando una lunga tradizione. È cominciato tutto quasi per caso, dopo un viaggio in Bolivia con la Cooperazione internazionale (Coopi). Da lì in poi è stato un crescendo. Una volta appresi i benefici della lana di alpaca, accuratamente selezionato le erbe per la tintura e dopo averne imparato le tecniche, è partita la produzione. Oggi Venturi si reca nello Stato sudamericano almeno una volta all’anno per circa quattro mesi, per curare le fasi del processo e della realizzazione dei suoi capi di abbigliamento, che da poco sono venduti anche online.
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Medea unisce artigianalità e sostenibilità
Bacche, radici, fiori, foglie e cortecce sono alla base della gamma di colori che si aggiunge alle oltre venti tonalità tipiche della lana di alpaca. Una sorta di produzione sostenibile ante litteram: quando è nata Medea, racconta Venturi, i temi ambientali erano molto meno al centro dell’attenzione rispetto a oggi. Però già si andava in quella direzione, fino a che l’artigianalità e il rispetto dell’ambiente sono diventati due dei punti di forza del brand. E per quanto se ne parlasse meno, per Venturi non poteva che essere altrimenti: oltre ad avere straordinarie proprietà termiche, la lana di alpaca non necessita di lavaggi frequenti proprio perché stimola la traspirazione, a differenza dei materiali sintetici. E ancor di più, le tinture naturali – benefiche per la nostra pelle e per l’ambiente – non si scoloriscono dopo i lavaggi. Nel complesso quindi gli abiti si conservano a lungo nelle stesse condizioni, non inquinano e soprattutto non alimentano l’industria della fast fashion, la seconda più inquinante al mondo. La “moda veloce”, infatti, comporta emissioni di gas climalteranti in ogni fase della lavorazione: la produzione delle fibre causa il 18 per cento delle emissioni totali generate dall’industria manifatturiera; quella dei filati il 16 per cento; l’utilizzo da parte del consumatore (lavaggio, asciugatura e smaltimento) il 39 per cento.
Com’è nata Medea? E come mai questo nome?
Il nome deriva dalla mia bisnonna, la nonna di mio padre, che si chiamava Medea. Mia madre le era molto affezionata e me lo voleva dare come primo nome, però Medea è un personaggio drammatico, quindi ha deciso di sceglierlo come secondo. Questa bisnonna ebbe una vita avventurosa: a fine Ottocento partì da sola dalla provincia di Cuneo alla ricerca di un fratello che per lavoro era andato in Sicilia. Una volta là si innamorò follemente di un siciliano e si sposò. Però era ebrea, quindi si convertì e per questo fu ripudiata dalla famiglia di origine. A Natale del 1908 andarono a trovare i parenti di lui a Siracusa, ma la notte tra il 27 e il 28 ci fu il terremoto di Messina, dove il marito si era nel frattempo recato. Non fu mai più trovato. La mia bisnonna quindi, da lì in poi, dovette fare tutto da sola. Tornò in Piemonte con una figlia piccola e un’altra in grembo, senza poter godere dell’aiuto della sua famiglia di origine, che non la riaccolse. Quindi è un nome azzeccato: c’è la tenacia, c’è il viaggio, c’è l’avventura, cose che poi sono continuate anche con me, con la Bolivia.
Medea nasce nel 2001. L’anno prima ero in Bolivia, lavoravo per la Cooperazione internazionale e facevo tutt’altro. Per Natale sarei rientrata in Italia, quindi appena prima andai a La Paz per comprare qualche regalino e vidi in un negozio un classico golf boliviano con i lama e le donnine ricamate, che però mi colpì per i colori. Allora chiesi e scoprii che era tinto con le erbe. Della tintura naturale all’epoca non sapevo ancora nulla. Poi tornai a Milano, terminato il progetto in Bolivia con la Cooperazione internazionale, e mi misi in proprio. Ma l’idea delle tinture naturali mi era rimasta in testa, così verso Pasqua decisi di andare due mesi in Bolivia per imparare tutto su quelle tecniche. Trovai una signora che mi insegnò ogni cosa. Usava un barile di petrolio con della legna sotto, in una stanza semibuia, e se non fossi stata lì a vedere cosa buttava dentro il barile avrei pensato a qualche trucco, perché i colori che ne uscivano erano meravigliosi. Quindi un po’ ho imparato così, un po’ ho fatto delle ricerche.
Come riesce a conciliare una produzione per sua natura lenta con la velocità dei tempi odierni?
Io in realtà non mi sento in competizione con le aziende di fast fashion. A parte che, quando è nata Medea, il concetto di fast fashion ancora non esisteva. I miei capi sono un prodotto di nicchia, sono fatti a mano, hanno una grande artigianalità alla spalle. È chiaro che, rispetto alla moda veloce, hanno degli altri canali e un altro pubblico. La lentezza per forza fa parte del processo: i pentoloni dove tingiamo contengono al massimo cinque chili di lana, ma va bene così. La produzione è piccola, l’obiettivo non è riempire il Pianeta e conquistare mercati. La moda veloce io proprio non la conosco, non ci ho avuto mai niente a che fare.
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I suoi clienti si affezionano per l’estetica e la funzionalità del prodotto o per ragioni legate alla sostenibilità?
Dopo la fase di ricerca delle tinture ho dovuto trovare qualcuno che mi aiutasse a realizzare i capi. Manodopera boliviana e gusto italiano o – come piace dire a me – gusto italiano fatto in Bolivia. Ho trovato delle ragazze boliviane che mi aiutano e sono convinta che questo prodotto venda in primis perché piace, perché loro sono brave; poi che sia anche sostenibile è vero, ma per me era scontato, non sarebbe mai stato possibile che fosse diversamente.
Diceva che ha notato un cambiamento nella gente rispetto a una decina di anni fa. Che le persone sembrano meno interessate e curiose quando si parla di fibre naturali. Come mai secondo lei?
Quando anni fa andavo al Sana a Bologna, il Salone internazionale del biologico e del naturale, le persone si interessavano molto ai capi, chiedevano come erano tinti, come fosse fatto l’alpaca. Notavo uno scambio e una vitalità nelle persone, che adesso non vedo più. A meno che non si vada in ambienti che si sa già essere a tema, dove c’è gente interessata e consapevole, noto un appiattimento generale.
Nota differenze tra l’Italia e l’estero per quanto riguarda l’attenzione alle tematiche ambientali, specialmente nel settore tessile?
In Germania, dove sono andata spesso per delle fiere, si dà per scontato che sia tutto biologico, oltre al fatto che ci sono dei controlli molto serrati. Ho l’impressione che in Italia invece la sostenibilità sia ancora vista come una cosa di nicchia, per gente che se la può permettere, che si può informare. Il mercato c’è, ma bisogna diffondere il verbo. Sarebbe bello avere uno spazio, gestito da diversi artigiani – ho anche scritto al Comune per proporlo -, con un giardino dedicato alle piante tintoree, un’area dedicata ai corsi per divulgare i metodi di tintura naturale e organizzare degli incontri in cui si spieghi alla gente cos’è la seta, la canapa, l’alpaca, perché il cotone biologico è meglio. Le persone attente e sensibili queste cose se le cercano da sé, però secondo me quello che manca è un po’ di informazione a livello istituzionale.
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