Le forze armate pesano globabilmente per il 5,5 per cento delle emissioni, e il riarmo Nato può provocare un disastro anche dal punto di vista ambientale.
L’aumento della spesa per la difesa in tutto il mondo peggiorerà la crisi climatica, e questo a sua volta causerà più conflitti. Un circolo vizioso disegnato dal quotidiano britannico The Guardian, e che segnala come l’aumento vertiginoso delle spese militari rischi di compromettere in modo irreversibile non solo la pace e gli equilibri geopolitici, ma anche gli obiettivi climatici fissati a livello internazionale. Il focus del quotidiano britannico è incentrato soprattutto sul vecchio Continente: mentre i governi europei, infatti, si impegnano ufficialmente per la neutralità climatica entro il 2050, i loro eserciti continuano a essere tra i maggiori emettitori non contabilizzati di gas serra, beneficiando di un vero e proprio momento eccezionale militare.
Riarmo e crisi climatica, un circolo vizioso da spezzare
Secondo i più recenti dati raccolti dal Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), le forze armate mondiali sono responsabili del 5,5 per cento delle emissioni globali, più del settore dell’aviazione civile e meno solamente di quello dell’acciaio. Dati ricavati da un istituto di ricerca privato, appunto, perché i trattati internazionali sul clima non obbligano i governi a dichiarare l’impronta di carbonio del proprio comparto difesa. Una scelta che, come sottolinea al Guardian Florian Krampe, capo della ricerca sul clima al Sipri, rappresenta un grave limite: “Ignorare le emissioni militari non è preoccupante solo per quanto riguarda il cambiamento climatico. Ignora la crescente consapevolezza che il cambiamento climatico rappresenta un grave rischio per la sicurezza dell’Europa e non solo”.
L’analisi condotta su 30 paesi europei (dunque anche alcuni che non fanno parte dell’Unione Europea, come la Gran Bretagna appunto) rivela che solo Austria e Slovenia hanno fissato obiettivi chiari per arrivare a emissioni nette pari a zero nei rispettivi eserciti. La maggior parte dei ministeri della Difesa, inclusi quelli di Germania, Regno Unito e Grecia, si limitano a dichiarare un generico contributo agli impegni climatici nazionali, senza fissare target specifici per il proprio settore. Il portavoce del ministero tedesco ha difeso questa posizione affermando addirittura che “la protezione del clima non deve andare a scapito delle prestazioni dei nostri sistemi d’arma”: una dichiarazione che sintetizza bene l’inversione delle priorità che dovrebbero essere poste per la salvaguardia di tutti.
La Nato inquina ogni anno come il Pakistan
La seconda indagine presa in considerazione dal Guardian, in collaborazione con il Conflict and environment observatory, estende il campo dall’Europa all’Alleanza Atlantica, ed evidenzia che il piano di riarmo della Nato, che adesso vuole spingere i Paesi aderenti a spendere fino al 5 per cento del proprio prodotto interno lordo, da solo potrebbe aumentare le emissioni globali di quasi 200 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno: praticamente l’intera impronta di un paese come il Pakistan, grandissimo e tra i più inquinati al mondo. E non una volta sola, ma ogni anno. “A causa di questo tipo di approccio disinformato che stiamo adottando, ora stiamo investendo in una rigida sicurezza militare, aumentando di conseguenza le emissioni globali e peggiorando ulteriormente la crisi climatica”: così Ellie Kinney, coautrice dello studio, sintetizza il circolo vizioso dell’incipit.
Nel frattempo, come sappiamo, la spesa militare globale ha raggiunto nel 2023 un nuovo record storico: 2.460 miliardi di dollari, con l’accelerazione ulteriore prevista dal piano dell’UE “ReArm Europe”, che stanzia 800 miliardi di euro per potenziare le capacità difensive del continente. L’impatto climatico di questi investimenti è tanto diretto quanto trascurato: secondo Lennard de Klerk dell’Iniziativa sulla contabilità dei gas serra della guerra, gruppo che studia l’impatto ambientale dei conflitti, “con le attrezzature che acquistano – acciaio, alluminio – e con le operazioni di terra che si basano su diesel e cherosene, quello militare è un settore strutturalmente difficile da decarbonizzare”. E in assenza di trasparenza il rischio è che le emissioni militari crescano fuori controllo. Eppure, come afferma ancora Krampe, “l’aumento della spesa militare dovrebbe stimolare l’innovazione verde, non vincolare la dipendenza dal carbonio”.
Il paradosso si fa evidente se si guarda al costo sociale della CO2: secondo le stime più aggiornate, ogni tonnellata di anidride carbonica emessa costa all’umanità circa 1.347 dollari. Dunque il riarmo Nato potrebbe generare un danno ambientale equivalente a 264 miliardi di dollari all’anno. Senza contare i costi indiretti, come la riduzione dei fondi per la cooperazione internazionale o per le politiche climatiche, già evidenti nei bilanci di Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi. “Alla Cop29 – ha concluso Kinney – i paesi del Sud del mondo, come Cuba in particolare, hanno sottolineato l’ipocrisia di quegli stati disposti a spendere cifre crescenti per le spese militari, ma che offrono impegni finanziari per il clima completamente e inaccettabilmente bassi”. La sfida, dunque, oggi è garantire che la sicurezza del presente non diventi la minaccia più grande per il futuro.
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