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Il presidente della Repubblica incontra a Hiroshima l’associazione Nikon Hidankyo, Nobel per la Pace, e lancia un appello al disarmo, non solo nucleare.
“Il dramma che si è consumato a Hiroshima e Nagasaki, suona a sufficienza quale richiamo alle coscienze sulla capacità autodistruttiva che l’umanità ha generato? A ottant’anni di distanza, quei due lampi accecanti, quelle due onde d’urto inimmaginabili, costituiscono ancor oggi un monito intangibile, il fulcro di una avvertita coscienza?”
A chiederselo, e a chiederlo indirettamente a tutta la comunità internazionale, è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato scorso di fronte al Memoriale della Pace di Hiroshima, al cospetto degli hibakusha, i testimoni viventi dell’orrore nucleare del 6 agosto 1945. La loro memoria, e il ricordo di quella tragedia, dovrebbero bastare, come richiamo. Così come dovrebbe bastare l’intera seconda guerra mondiale e la Shoah subita dagli ebrei. “Eppure, oggi – prosegue Mattarella – l’architettura del disarmo e della stessa non proliferazione delle armi di distruzione di massa appare minata da irresponsabili retoriche di conflitto, quando non dai conflitti in atto”.
Mattarella ha visitato il Museo della Pace, nato per testimoniare la distruzione del bombardamento e rammentare l’importanza della pace nel mondo, per poi recarsi alla Torre Orizuru, dove ha incontrato il presidente di Nihon Hidankyo, Toshiyuki Mimaki, e l’associazione Nihon Hidankyo di Hiroshima. Il discorso pronunciato da Mattarella di fronte ai superstiti della bomba atomica, hibakusha, atto finale della sua visita istituzionale in Giappone, rappresenta un monito severo e attuale in un’epoca in cui le tensioni geopolitiche sembrano riportare il mondo indietro di decenni, con guerre in corso, prospettive di un imponente riarmo e perfino il tabù dell’uso dell’arma atomica che appare sempre più fragile.
Solamente lo scorso ottobre il Premio Nobel per la Pace 2024 è stato assegnato proprio a Nihon Hidankyo, organizzazione dei superstiti giapponesi alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, per il loro impegno ha contribuito negli anni alla creazione del “tabù del nucleare” che ha fatto sì che in 80 anni non sia più stata usata un’arma atomica. Lo stesso Comitato del Nobel però aveva evidenziato i numerosi rischi di escalation in corso. Mattarella a Hiroshima ha evocato le parole del professor Terumi Tanaka, che nel ricevere il premio “ha descritto con lucidità e commozione la devastazione di Nagasaki, trasformando il proprio dolore in un monito per le generazioni future. L’atrocità di quei due momenti, le terribili conseguenze delle radiazioni, contribuirono a formare il consenso internazionale intorno a un imperativo morale: che la bomba atomica non dovesse mai più essere utilizzata. Da quell’orrore trasse nuovo vigore il dibattito sul disarmo”. Dibattito che ora, anche nel cuore dell’Europa, sta virando sulla parola opposta: riarmo, anche se non specificamente nucleare. Per il capo dello Stato le minacce pronunciate da alcuni Stati, tra cui la Russia, l’erosione dei trattati di non proliferazione e l’idea stessa che esistano ordigni nucleari “utilizzabili” in scenari circoscritti sono segnali allarmanti. Mattarella ha ribadito con fermezza che una guerra nucleare “non può essere vinta da nessuno e non deve mai essere combattuta”.
Il discorso di Hiroshima si chiude con un appello accorato alla responsabilità collettiva. E anche contro ogni tipo di semplificazione e banalizzazione. Quello tra pacifisti e sostenitori del riarmo “non è – come qualcuno vorrebbe pretendere – un confronto tra illuse anime belle e realisti, bensì tra le ragioni della vita e le ragioni della morte. Tra le ragioni della pace e quelle dello scontro”. Ed è anche tra le ragioni che hanno dato vita a ordinamenti internazionali “in cui gli Stati si sono impegnati al rispetto di norme che non contraddicano mai la dignità degli esseri umani e i diritti inviolabili della persona e le ricorrenti tentazioni di assumere, dall’altra parte, comportamenti che le smentiscano nei fatti”. A buon intenditor, poche parole.
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