Il delicato equilibrio tra essere umano e grandi predatori, il caso dello squalo

Cambiare il rapporto tra essere umano e squali porterebbe effetti a cascata sull’intero ecosistema marino. Il parere della biologa marina Melissa Cristina Márquez.

Da quando, lo scorso giugno, un ragazzo di 23 anni è stato ucciso da uno squalo tigre mentre nuotava al largo di Hurghada, in Egitto, le notizie relative ad avvistamenti – veri o presunti – si sono moltiplicate. Dalla Florida alla Sicilia, la presenza del grande predatore viene segnalata con sempre più frequenza: solo nel palermitano, nelle ultime settimane, alcuni esemplari di verdesca (Prionace glauca) – specie peraltro del tutto inoffensiva che si avvicina alla riva solo per cacciare piccoli pesci e molluschi cefalopodi (polpi, seppie, calamari…), per partorire o quando si trova in difficoltà – hanno scatenato l’allarme e fornito materiale utile alle testate locali che si sono sbizzarrite con titoli che vanno da “allarme squalo in Sicilia” a “uomo inseguito da uno squalo a pochi metri dalla riva”. E dal momento che, troppo spesso, sensazionalismo e stampa vanno d’accordo come il burro d’arachidi e la marmellata, i redattori non hanno perso tempo a spiegare alle persone dettagli “ininfluenti” come dati e fatti scientifici che possono essere d’intralcio alla vendita dei giornali. A rendere ancora più complessa la situazione, i social network, che contribuiscono a distorcere la realtà proponendo, da un lato, un’immagine dello squalo edulcorata – quasi Disneyana – e, dall’altra, creano un fenomeno mediatico che fa dell’animale una bestia assassina, e dell’uomo la vittima indifesa. Così, dopo le estati dei cani killer, quella del 2023 sembra essere la stagione del grande predatore del mare. Ma come stanno davvero le cose?

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Gli squali contribuiscono a mantenere la vita di mari e oceani in equilibrio © iStockphoto

I dati storici sul numero di attacchi

Iniziamo da un fatto inequivocabile: gli squali popolano mari e oceani da 450 milioni di anni, contro i soli trecentomila trascorsi da quando Homo sapiens ha mosso i primi passi sul Pianeta. Nel solo mar Mediterraneo, che molti di noi considerano una sorta di piscina alla mercé dell’uomo, vivono ben 47 specie di squalo, molte delle quali considerate vulnerabili o in pericolo critico di estinzione dall’Unione internazionale per la conservazione della natura, tra cui la verdesca, lo squalo volpe, lo squalo martello liscio e il tanto temuto squalo bianco che frequenta il Mare nostrum da almeno 3.2 milioni di anni. Gli squali sono una delle specie più preziose e importanti del Pianeta visto che, essendo predatori all’apice della catena alimentare, contribuiscono a mantenere la vita di mari e oceani in equilibrio. Eppure, sono anche tra le creature più temute e stigmatizzate. Le ragioni sono molteplici e sono frutto di studio e ricerca da molti anni. Alcuni ritengono che buona parte della responsabilità sia da imputare alla psicosi generata, a partire dal 1975, dal film “Lo squalo”, altri invece sostengono sia qualcosa di più inconscio e riconducibile alla sensazione di impotenza che l’oceano diffonde nell’uomo e all’imperscrutabilità tipica degli occhi di questo animale.

Eppure, se dessimo un’occhiata ai dati, sarebbe facile rimettere le cose in prospettiva. Secondo il database delll’International shark attack file (Isaf), le tre aree con il maggior numero di attacchi dal 1965 sono Stati Uniti, Australia e Sudafrica. A livello planetario nel 2022 sono stati registrati 108 casi di “interazione tra uomo e squalo”, di cui 32 sono conseguenti a tentativi di interazione con l’animale, 57 sono non provocati e 19 sono non chiaramente classificabili. Dall’inizio del 2023, ne sono stati registrati 37 di cui sei sono risultati fatali. Sembrano numeri considerevoli, soprattutto se consideriamo il terrore atavico e diffuso generato da questo animale. Ma, se li mettiamo in relazione con il numero di abitanti del Pianeta, ossia otto miliardi di persone che frequentano sempre più spesso – e magari in modo sconsiderato – spiagge e mari, allora la situazione si ridimensiona notevolmente. Va inoltre considerato che nell’eventualità rara, ma non di certo impossibile, di incontro con il grande predatore dei mari, la maggior parte delle volte la vittima dell’interazione è proprio lo squalo. Ogni anno, infatti, ne vengono eliminati circa cento milioni di esemplari. Più di undicimila esemplari all’ora. Una cifra che, considerata la loro lenta capacità riproduttiva, è nettamente superiore alla loro possibilità di recupero. Questo ha portato a una riduzione del 71 per cento delle popolazioni di squali a livello globale in soli cinquant’anni, e la situazione è così grave che gli scienziati hanno più volte dichiarato di non essere in grado di stimare le conseguenze devastanti di una loro scomparsa.

Tra terrore, fascinazione e impatti delle attività umane: come sta cambiando il nostro rapporto con gli squali

Uno studio del 2016, pubblicato su Progress in oceanography, spiega come l’aumento delle temperature oceaniche stia modificando le rotte migratorie degli squali, spingendoli a muoversi dall’emisfero meridionale, più temperato e scarsamente popolato, verso il nord, più fresco e affollato. Inoltre, temperature più alte ed estati più lunghe, comportano un numero sempre maggiore di bagnanti, e per molto più tempo rispetto ai canonici due o tre mesi estivi, il che aumenta le probabilità di interazione con l’uomo. A questo si aggiunge il fenomeno dello sovrasfruttamento dei mari che sta provocando uno squilibrio nell’ecosistema spingendo il predatore verso la costa, dove le vibrazioni, gli odori e il cibo gettato in mare da imbarcazioni turistiche e commerciali rendono i luoghi di villeggiatura sempre più invitanti. Tutti fattori che avrebbero concorso a predisporre le condizioni ottimali per l’attacco avvenuto ad Hurghada, in una zona peraltro vietata alla balneazione. Anche in quell’occasione a perdere la vita è stato non solo il ragazzo ma anche lo squalo, brutalmente massacrato dai pescatori che l’hanno punito per essersi comportato come nella sua natura da predatore, attirato peraltro proprio da cibo e spazzatura. Un ulteriore fattore da tenere in considerazione, nell’analizzare il mutato rapporto che abbiamo con gli squali, è quello della fascinazione, dell’amore per il rischio, e del racconto distorto proposto dai social network. In un mondo in cui la natura selvaggia è in declino, a causa delle nostre attività, l’offerta turistica è sempre più caratterizzata da proposte di incontro con la fauna selvatica, mutandone comportamenti e abitudini. Le immersioni in gabbia, ad esempio, utilizzano attrattori olfattivi, visivi o uditivi per diverse ore al giorno, tutti i giorni, per attirare gli squali bianchi nelle immediate vicinanze e fornire buone opportunità di osservazione ai subacquei. Nonostante nutrire il grande predatore sia illegale, occasionalmente gli operatori vengono autorizzati a gettare in mare delle esche portando, secondo gli esperti, ad una modifica nella distribuzione spaziale e temporale della specie e nel tasso di movimento, mentre non sono ancora confermate modifiche a lungo termine sulla sua fisiologia.

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L’offerta turistica è sempre più caratterizzata da proposte di incontro con la fauna selvatica © iStockphoto

Preoccupazioni condivise da Melissa Cristina Márquez, biologa marina esperta di educazione legata alla fauna selvatica e conosciuta come “Mother of Sharks” – Madre degli squali – la quale, a proposito delle sempre più frequenti interazioni volontarie, ha spiegato che “se da un lato è importante apprezzare la bellezza e la magnificenza di queste creature, è altrettanto fondamentale garantire il rispetto del loro comportamento naturale e del loro habitat. Ci sono diversi rischi che devono essere presi in considerazione. Innanzitutto, favorire il contatto tra l’uomo e gli squali può portare a un aumento delle interazioni, compromettendo potenzialmente la sicurezza di entrambe le parti coinvolte. Sebbene alcune specie di squali siano generalmente docili e rappresentino una minaccia minima per l’uomo, è importante ricordare che si tratta pur sempre di animali selvatici con comportamenti istintivi che possono essere imprevedibili”. Ecco perché, quando arriviamo a discutere del mio scetticismo nei confronti dell’attitudine a normalizzare le interazioni uomo-squalo da parte di svariati conservazionisti, influencer e fotografi, Márquez sottolinea come queste “possono potenzialmente alterare il comportamento naturale degli squali e il loro ruolo ecologico visto che, abituandosi alla presenza umana e associandola al cibo, possono alterare i loro modelli naturali di foraggiamento e affidarsi maggiormente a fonti di nutrimento legate alla nostra presenza”. In pratica, stiamo letteralmente fornendo cibo di cui nutrirsi alla nostra più grande, e infondata, paura innescando effetti a cascata sull’intero ecosistema marino. Considerato che l’industria globale delle immersioni con gli squali genera 314 milioni di dollari all’anno, sostenendo direttamente diecimila posti di lavoro, e che tale cifra sembra destinata a raddoppiare nei prossimi vent’anni, arrivando a superare i 780 milioni di dollari all’anno, è sempre più urgente un cambiamento nel modo in cui percepiamo queste creature. Nonostante sia comprensibile l’attrazione che abbiamo nei loro confronti, alimentata da oscure paure, miti e racconti, è importante lavorare urgentemente per ridare dignità ad un animale a cui dobbiamo niente di meno che la salute degli oceani e la possibilità di continuare a vivere su questo Pianeta.

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