Incontro con Raiz, la voce degli Almamegretta

Abbiamo incontrato Raiz, voce degli Almamegretta, in occasione dell’uscita del suo disco “Uno”.

Come facciamo spesso in radio, togliamo le domande e lasciamo
le risposte. Parla Raiz.

 

Quando faccio Raiz in qualche modo vesto un carattere
perché in realtà io non sono così; cioè
lui è una cosa che ho costruito e che mostro alla gente, e
appunto è Raiz. Cioè ha un nome che non è il
mio, perché io ho un altro nome anagrafico. Dice delle cose
che penso io, e le dice nel suo modo, che è un modo molto
popolare, molto sanguigno, molto sensuale. Sicuramente è una
parte di me, una mia filiazione, una parte del mio carattere. Mi
diverto a recitare Raiz, e quando lui è sul palco è
soltanto una parte di me; lui lascia a casa tante cose che io poi
mi porto in giro. Io gli scrivo le canzoni, gli dico in genere
quello che deve dire e poi gli lascio il palco, e lui sul palco fa
la sua parte. Però questo mi salvaguarda, perché non
essendo io pienamente lui mi posso permettere di svestirne i panni
e vivere una vita normale. Cioè, se la gente non mi
riconosce per strada non è un problema mio, Raiz ha problemi
di ego, non io!

 

Napoli è più un’idea che una cosa reale. Io mi
definisco uno di cultura napoletana, anche perché sono
cresciuto in provincia di Milano. Mi sono innamorato a distanza
dell’essere napoletano perché in questo ho visto quasi
un’attitudine e una propensione ad essere cittadino del mondo.
Perché Napoli è una città che ha formato la
sua cultura da tante altre che si sono messe insieme. Io mi sento
figlio di questa città porosa, che assorbe senza rilasciare
niente.

Io definisco quella napoletana una cultura migrante, un po’
perché i napoletani sono stati emigranti e un po’
perché hanno accolto, nella loro storia, emigrazioni e
dominazioni. Non riesco ad abbandonare quest’attitudine.

 

Il divorzio con gli Almamegretta è stato artistico e
non personale, con loro ho un rapporto fantastico, sono i miei
amici di sempre, e abbiamo un rapporto che va oltre la musica. Io
mi sono sentito di allontanarmi perché dopo più di
dieci anni di lavoro insieme avevo voglia di rendermi indipendente
da quel progetto che per noi è stato totalizzante per molti
versi. Non c’era modo di fare altre cose se non allontanandosi dal
collettivo.

D’altronde però loro sono i miei amici con i quali ci
scambiano sempre tante impressioni. Può darsi pure che un
giorno riusciremo a scrivere dieci canzoni fantastiche e a uscire
con un altro disco, però questa è una conditio sine
quae non. Altrimenti rimettersi insieme solo per vendere di
più sarebbe prendere in giro la gente. Ma insomma,
c’è ancora tanto, tanto tempo per poterlo fare…

 

Nei miei dischi non ci sono donne, ovvero forse ce n’è
una ed è sempre la stessa, un po’ simbolica. Forse in questo
ho proprio il carattere mediterraneo dove la donna è un po’
santa, po’ madre, un po’ amante, un po’ puttana, e più o
meno scrivo sempre dello stesso personaggio, che una donna come
potrebbe essere una ragazza dei Quartieri Spagnoli, molto
sanguigna, molto di cuore, molto amante.

Forse questo deriva dai racconti di mia nonna e di mia madre.
Napoli con l’occupazione americana non era un posto semplice dove
tirare su due ragazze; c’è un romanzo di Curzio Malaparte,
“La pelle”, che descrive bene quel clima. Quel periodo è
entrato nel mio immaginario anche se non l’ho vissuto.

Però vedo che quei caratteri, quei personaggi, esistono
ancora, sono sempre lì. O per lo meno io me le cerco
così, visto che così più o meno sono tutte le
ragazze che ho avuto, e anche la mia fidanzata attuale è un
po’ così.

Sono ragazze che sognano di realizzarsi e di essere donne
senza rinunciare alla propria femminilità, e di essere
rispettate per quello che sono. Forse se fossi donna mi piacerebbe
essere così!

 

Con gli Almamegretta sperimentavamo molto per raggiungere un
sound ben definito che coinvolgesse l’ascoltatore per farlo entrare
in una sorte di “palla” che lo avvolgesse in un’atmosfera
coinvolgente. Invece il mio tipo di sperimentazione è sulla
canzone, sulla forma canzone. Mi sono divertito a lavorare su
diversi tipi di armonie e di melodie che partono da Napoli ma poi
fanno il giro del Mediterraneo, o che magari partono da altre parti
del Mediterraneo ma cantate in napoletano diventano canzoni
napoletane. Ad esempio prendo delle melodie arabo-andaluse e le
canto in napoletano. Perché il Mediterraneo è un’area
che io sento profondamente omogenea.

 

Venirsi incontro è il tema del mio disco, che si chiama
“Uno” e al centro mette il compromesso, che è la maniera per
dirimere intelligentemente ogni tipo di conflitto, da quelli
personali a quelli politici. E il Mediterraneo è pieno di
conflitti.

Il compromesso è l’unica maniera di venirne fuori. Come
fa la natura del resto, un albero che incontra un muro di cemento
armato cerca di aggirarlo, non di buttarlo giù a
testate.

Noi siamo vittime del fatto che quando siamo in conflitto con
qualcuno pensiamo di avere ragione e siamo in contrapposizione con
l’altro perché lui non riesce a capire quanto noi abbiamo
ragione, mentre invece abbiamo ragione noi e ha ragione anche il
nostro contendente. Questa è una teoria non mia ma di uno
scrittore di Gerusalemme che si chiama Amos Oz che ho letto
tantissimo e che ha scritto un libro bellissimo, “Contro il
fanatismo”.

 

Noi, come Almamegretta, siamo stati molto a lungo associati a
un certo tipo di cultura cosiddetta antagonista, alternativa,
quella dei centri sociali. Sono realtà che senz’altro
abbiamo frequentato musicalmente, nel senso che quando loro ci
chiamavano per fare dei concerti ci siamo andati, anche di buon
grado e abbiamo sostenuto le cause che ci sembravano giuste; ma non
siamo mai stati dei militanti dei centri sociali, non siamo mai
stati organici a quelle realtà. Probabilmente se avessimo
mai iniziato una discussione politica con i ragazzi dei centri
sociali saremmo stati in disaccordo su molti punti. Ciononostante
ritenevamo che certe istanze andassero sostenute al di là
della militanza. Ma non veniamo da quel mondo.

 

Sfogliando i ringraziamenti del tuo cd, tra le decine
di nomi appare anche Nino D’Angelo. Hai mai pensato di far cantare
Raiz qualcosa del melodico napoletano, quello che di solito viene
bistratto da tutti?

Ma Raiz prende molto da quell’ambiente lì, solo che lo
mette in un contesto completamente diverso quindi magari non
sembra. Ma io Nino lo conosco bene ed è un artista che
rispetto molto; è uno che ha scritto delle cose molto belle
e anche molto profonde. Mi piace molto e sicuramente fa parte della
mia formazione culturale e musicale. Io adoro la musica pop, il
modo in cui arriva direttamente alle persone; Nino è un
artista pop perché conosce il modo di arrivare al cuore
delle persone semplici in maniera semplice, un po’ come Marvin
Gaye. Il suo modo di fare mi piace moltissimo, c’è un pezzo
di lui in ogni cosa che faccio.

 

Cosa manca nella musica italiana? O quale può
essere il prossimo passo che dovrebbe fare la musica nel nostro
paese?

Quello di farla uscire dall’Italia, e questo riuscirà
soltanto se le case discografiche usciranno dall’attitudine servile
e provinciale che le cose che vengono dall’estero sono migliori di
quelle che facciamo noi. Io ad esempio ho lavorato con i Letfield,
e Paul Daley, che è un dj pazzesco, un fabbricatore di beat
assurdi oltre che un batterista pazzesco, mi diceva che lui
è tutta la vita che cerca di fare l’italo house, di cui
è innamorato. Quando Robert 3D dei Massive Attack dice che
in ogni suo disco cerca di far cantare delle melodie che
assomiglino un po’ a quelle italiane degli anni ’60, tipo Mina.
Beh, quando senti queste cose ti cadono le braccia, perché
ti dici: vedi, questi imitano noi. E noi? Ecco, quando ad esempio
Eugene Hotz dei Gogol Bordello ti dice di essere innamorato della
musica etnica italiana e chiama il suo disco Super Taranta, e in
Italia fai un prodotto culturale, tipo anche la roba che faccio io,
che affonda a piene mani nelle radici, e in Italia sei considerato
“sfigato” perché canti in dialetto. Poi arriva Eugene Hotz e
fa un pezzo di tarantella e le radio lo suonano a mille
perché è una roba che arriva da New York. Ma
probabilmente perché questo cambi dovranno cadere tutte le
case discografiche multinazionali; lo dico con dolore perché
io sono un artista Universal e loro mi danno da mangiare,
però a volte mi sembra quasi che ci sia stata una sorta di
conferenza di Yalta in cui il mondo sia stato già spartito:
noi italiani dobbiamo assorbire, quindi anche l’ultima band garage
di Seattle la dobbiamo conoscere, però non dobbiamo
esportare niente, tranne tre o quattro cose.

 

Io mi sento come gli artisti cubani che non possono uscire dal
loro paese, loro magari per problemi di passaporto, io
perché non mi fanno uscire. Poi magari vai a suonare in
Francia e dopo il terzo concerto la gente impazzisce e ti chiede
“ma dov’eri, cosa facevi?”. Cosa facevo? Ero relegato lì con
gente miope che non sa che questa musica può andar bene
anche all’estero.

 

Manu Chao, che è uno che Napoli l’ha frequentata tanto,
e che secondo me ha imparato tanto dai napoletani, lui questa
lezione l’ha imparata bene. Solo che in Francia sanno che lui puoi
andare altrove e lo fanno andare altrove, e lo proteggono anche in
patria, visto che in Francia c’è una quota protetta di
musica francese. Questo ha aiutato artisti come Manu Chao a venire
fuori.

 

Quando si riuscirà a non considerare il pezzo in
napoletano come terrone e quindi sfigato, perché si ha
vergogna di quello che si è? Quando si avrà il
coraggio di considerare un pezzo in dialetto come proprio retaggio
culturale come fanno tutti, come fanno in giamaicani che cantano in
patois? È significativo il caso dei Modena City Ramblers,
che si rifanno alla musica tradizionale irlandese; ora, con tutto
il rispetto per quello che fanno loro, che è bellissimo, ma
è assurdo che sia quasi più sdoganabile la musica
tradizionale irlandese di quella italiana. Vuol dire avere vergogna
di quello che siamo; abbiamo, come direbbe Malcom X ai suoi
fratelli neri, un atteggiamento da “negri” nei confronti di noi
stessi!

 

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