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Il Parlamento europeo ha aggiornato il report sull’impatto della produzione tessile mentre cresce l’attesa nei confronti delle prossime scelte politiche.
Se la domanda mondiale di petrolio è in continuo aumento, la colpa è anche del nostro armadio: quanto poliestere c’è dentro?
Nel 2021, nei soli Stati Uniti, sono state prodotte 1,3 milioni di tonnellate di poliestere. Un’enormità se si considera che gli Usa sono solo il terzo produttore dopo Cina e India. Secondo un report diffuso da Bloomberg, il mercato globale delle fibre tessili ricavate a partire dal poliestere dovrebbe aumentare del 5,1 per cento dal 2022 al 2032, passando da una quota di mercato di 106 a 174,7 miliardi di dollari tra il 2022 e il 2032. Questa è la diretta conseguenza dell’aumento della domanda di filamenti di poliestere, che rappresentano circa l’11,7 per cento dell’industria tessile mondiale.
Rigidità, flessibilità e, non da ultimo, un costo contenuto rendono questo materiale molto appealing per tutta una serie di settori, dall’automotive alla moda, attirati dalla grande versatilità del poliestere che consente di “imitare” le qualità di un gran numero di fibre naturali, dalla seta al pelo animale fino alla lana. Queste imitazioni, col tempo e con la ricerca, sono diventate sempre più convincenti e adesso vengono impiegate in larghissima parte nell’industria della moda, lusso e grandi maison comprese.
Difficile rinunciare all’attrattiva di una fibra forte, resistente alle abrasioni e alle lacerazioni e in grado di sopportare numerosi lavaggi senza che ne venga modificata la vestibilità. Non solo: il poliestere è molto resistente alle pieghe, sembra sempre appena stirato e, se opportunamente lavorato, è anche un materiale che può essere traspirante. Il suo impiego è infatti massiccio nell’abbigliamento tecnico. Il poliestere, se di buona qualità, è veramente un materiale dei miracoli per l’industria tessile e non stupisce che il suo utilizzo sia importante: si stima che il 60 per cento degli abiti prodotti annualmente contenga fibre sintetiche. Ma c’è più di un ma.
Qual è quindi il problema? Che è un derivato del petrolio. Sebbene l’industria tessile si stia attrezzando per produrre alternative più sostenibili da un punto di vista ambientale, una su tutte l’Econyl riciclato a partire dalle reti da pesca dismesse, la presenza di fibre tessili prodotte ex novo dai petrolati è ancora altissima.
Il poliestere è infatti un derivato della plastica Pet che, attraverso un processo di fusione, viene poi trasformata in filato. Secondo un report prodotto dalla Iea, l’International energy agency, saranno proprio i prodotti plastici a incidere maggiormente sull’aumento della domanda di petrolio nei prossimi anni.
Lo scenario delineato da Future of petrochemicals, il report Iea, indica che, entro il 2030, i petrolchimici rappresenteranno oltre un terzo della crescita della domanda mondiale di petrolio. La domanda di plastica ha infatti superato quella di tutti gli altri materiali sfusi e le economie avanzate attualmente consumano fino a venti volte la plastica consumata da quelle in via di sviluppo. I prodotti petrolchimici sono basilari per le nostre vite ormai: per dirne una, sono necessari per produrre elementi chiave del sistema energetico come i pannelli solari, le turbine eoliche o i rivestimenti per l’isolamento termico. E se sostituire i derivati dal petrolio in questi settori è una strada lunga e tortuosa, che comporterà anni di ricerca, nell’abbigliamento la soluzione è a portata di mano se si pensa che il poliestere ha fatto il suo ingresso nell’industria tessile solo negli anni Cinquanta.
Il successo delle fibre sintetiche è dato in larga parte dal fatto che sono in grado di imitare le prestazioni di quelle naturali, costando però molto meno. Preferire il poliestere alle fibre naturali, tuttavia, comporta una serie di problemi, tra cui una maggior emissione di gas serra e la dispersione di microplastiche nell’ambiente ad ogni lavaggio. Abbandonarlo però, soprattutto nel mercato dell’abbigliamento a basso costo, è semplicemente utopico, ma cosa si può fare per limitare i danni provocati dalla domanda sempre crescente di fibre plastiche?
Preferire fibre naturali o fibre sintetiche riciclate e certificate: tra una fibra naturale e una sintetica che semplicemente la imita, la nostra scelta dovrebbe ricadere su quella naturale. Produrre poliestere è, in termini di emissioni di anidride carbonica, tre volte più dispendioso del cotone. Spesso e volentieri però i prodotti tessili, anche se a base di lana o cotone, hanno comunque una componente sintetica al loro interno: è quindi fondamentale porre la massima attenzione all’etichetta per essere veramente coscienti di quello che stiamo comprando. Abbiamo più volte parlato di greenwashing e di comunicazione ingannevole da parte dell’industria della moda. Le fibre sintetiche riciclate esistono, ma è importante che siano certificate: una garanzia in questo senso sono i prodotti realizzati con Econyl, il nylon rigenerato prodotto da Aquafil a partire da rifiuti plastici e a sua volta riciclabile infinite volte.
Ci siamo abituati a riciclare la carta, la plastica, il vetro, il metallo, ma non ancora i vestiti: si stima che solo il 14 per cento del poliestere impiegato nel tessile venga oggi riciclato. Eppure, produrre nuovi abiti da fibre già esistenti ha un impatto molto minore rispetto a crearne di nuove. Jeplan è una società giapponese che ha sviluppato una tecnologia che, attraverso un processo di depolimerizzazione e poi di purificazione, ricicla le fibre di poliestere presenti negli indumenti. La Bring technology – così si chiama il processo brevettato da questa società giapponese – consentirebbe di ripetere più volte il processo di riciclo: l’azienda, che punta a recuperare 30mila tonnellate di indumenti in poliestere all’anno, ha distribuito in tutto il Giappone dei contenitori per la raccolta di abbigliamento. Un’altra buona pratica è quella di investire in prodotti realizzati con il metodo dell’upcycling o in second hand. Dal momento che queste fibre sono già in circolazione, usiamole senza comprarne di nuove.
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