Per salvare i nostri mari, cambiamo prospettiva 

Per salvare i nostri mari, cambiamo prospettiva 

Con gli strumenti della scienza, ciascuno può fare la sua parte per tutelare gli ecosistemi marini. È l’approccio della Water Defenders Alliance.

Tempo di lettura: 27 min.

A cosa pensiamo, quando pensiamo al mare? Per chi è cresciuto intravedendolo dalla finestra di casa, è una presenza familiare e rassicurante. Per chi vive in città, mare è sinonimo di evasione; c’è chi lo sorvola, chi lo attraversa in barca e chi vi si immerge, ma in ogni caso è un qualcosa di elettrizzante, diverso dall’ordinario. Ma il mare è molto, molto di più. Immenso e silenzioso, brulica di vita, mitiga il clima, ci offre cibo e risorse indispensabili per la nostra economia.  

I nostri mari celano anche segreti che non sempre sono piacevoli da guardare. Perché quel paradiso che da fuori ci appare incantevole, in realtà, è un ecosistema in profonda sofferenza. Se scendiamo sotto la superficie, scopriamo un habitat che diventa sempre più povero e fragile a causa dell’inquinamento da plastiche e da idrocarburi, dei cambiamenti climatici, dell’intenso traffico navale, dello sfruttamento eccessivo delle sue risorse. Fenomeni molto diversi, ma con un minimo comune denominatore: sono esclusivamente responsabilità dell’uomo.

Serve una buona dose di coraggio per guardare in faccia questa realtà. Ma studiare i problemi – e farlo con gli strumenti della scienza – è il primo, indispensabile passo per escogitare delle soluzioni a impatto. Tuffiamoci dunque nel nostro mare e impariamo a guardarlo da un’altra prospettiva. Solo così potremo proteggerlo. 

Un’alleanza per salvare i nostri mari

Cambiare prospettiva è ciò che fa la Water Defenders Alliance, battezzata in occasione della Giornata mondiale degli oceani dell’8 giugno 2023. Perché è innegabile che finora tante persone e organizzazioni abbiano fatto la loro parte per la tutela di mari, laghi e darsene cittadine, ma ciascuna per il proprio ambito di competenza. Il mondo della ricerca studia i problemi, i mass media li documentano, le imprese innovano i loro processi per esempio per gestire meglio i rifiuti, o ridurre l’impiego di plastica monouso e così via. La Water Defenders Alliance spariglia le carte: perché non lavorare tutti insieme, come alleati appunto?  

Nel concreto, questo progetto individua innanzitutto tre macroaree di intervento: la presenza dei rifiuti di plastica in mare, l’inquinamento chimico provocato dagli sversamenti accidentali di idrocarburi e la fragilità degli habitat marini. Per ciascuna di esse, individua alcune tecnologie innovative, già ampiamente collaudate e pienamente compatibili con l’ecosistema.  

Ciascuno degli attori dell’alleanza può contribuire ad adottarle su vasta scala. Il mondo dell’università e della ricerca fornisce i dati aggiornati sulle condizioni del mare e candida le proprie soluzioni science-based. Le aziende, nelle vesti di Water Defenders, finanziano l’adozione di una o più di queste tecnologie in un singolo porto, in una macroarea o in più località. Proprio enti locali e porti infatti, essendo il punto di congiunzione tra le persone e il mare (o lago), le ospitano e adottano i protocolli per la gestione sostenibile delle acque. Anche i cittadini hanno un ruolo, perché possono adottare le buone pratiche proposte e farsi portavoce di un cambiamento positivo, spronando altri soggetti a entrare nella Water Defenders Alliance. LifeGate ne tiene le redini, facendo da garante della sua solidità scientifica. 

Gli sversamenti di oli non sono solo grandi chiazze nere. Sono anche piccole gocce

Passeggiando in banchina e aguzzando lo sguardo, capita di notare delle iridescenze sulla superficie dell’acqua. Sono il sintomo di quegli innumerevoli piccoli sversamenti accidentali di idrocarburi che sfuggono alle statistiche, ma non per questo sono innocui. Ad oggi, infatti, è possibile monitorare soltanto i grandi incidenti: l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) in una nota del 2018 parla di 600mila tonnellate di idrocarburi finite in mare ogni anno e segnala ventisette occorsi nel mar Mediterraneo nei trent’anni precedenti, per un totale di 272mila tonnellate di petrolio finite in acqua. Sono gli episodi che coinvolgono per esempio traghetti, cargo e imbarcazioni commerciali: sono 200mila quelli che solcano le acque del Mare Nostrum ogni anno, tra cui circa 300 navi cisterna che ogni giorno trasportano prodotti petroliferi.  

Questa, però, è solo una parte del problema dell’inquinamento da idrocarburi, quella più visibile. In Italia sono immatricolate anche 81.464 imbarcazioni da diporto, per la precisione 19.519 barche a vela, 61.779 barche a motore e 166 navi da diporto che superano i 24 metri. Solo in Liguria se ne contano più di 17mila. Poi c’è il parco nautico non immatricolato, molto più vasto ma anche molto più difficile da esaminare: ne fanno parte canoe, kayak e piccole barche a vela, ma anche 167.399 unità con motore ausiliario, per esempio i gommoni (i dati sono del rapporto La nautica in cifre monitor – Trend di mercato 2023/2024, realizzato dall’Ufficio studi di Confindustria Nautica). 

Insomma, nei porti del Belpaese attraccano ogni anno decine di migliaia di unità da diporto che usano gli idrocarburi, per alimentare il motore – che anche le barche a vela hanno bisogno di accendere per le manovre, oppure per uscire dalla bonaccia o da situazioni difficili – e il generatore necessario per l’illuminazione, il frigo e i vari dispositivi elettrici. I piccoli sversamenti accidentali sono all’ordine del giorno, per esempio durante il rifornimento e la manutenzione del motore. Molto delicata è anche la pulizia della sentina, cioè quella parte dello scafo in cui si raccolgono le infiltrazioni d’acqua e i vari scarti, tra cui oli lubrificanti, carburanti, liquidi di condensazione, acque nere e grigie, detergenti usati per lavare lo scafo. Le normative prevedono di pompare questi liquidi, raccoglierli in un contenitore idoneo e conferirli presso gli impianti dedicati; ciò che spesso accade, però, è che gli armatori si limitano a sversarle in mare.  

Intervista a Emilio Mancuso, biologo e presidente dell’impresa sociale Verdeacqua

Sono gocce, certo. Ma, goccia dopo goccia, ogni litro di olio arriva a inquinare mille metri quadrati di acqua, in termini di superficie, e fino a un milione di litri in termini di volume. Le conseguenze negative sugli ecosistemi sono pervasive. I vertebrati, come pesci e uccelli marini, restano invischiati negli idrocarburi o li ingoiano, intossicandosi. Quando i piccoli invertebrati muoiono per avvelenamento, gli animali più grandi se ne nutrono e finiscono dunque loro stessi per accumulare nel proprio organismo quantità crescenti di queste sostanze (tecnicamente si parla di bioaccumulo).

Che fare, dunque? Le soluzioni tradizionali sono tre, ma tutte presentano dei limiti. Si possono per esempio catturare gli oli con le apposite panne monouso in polipropilene che, però, si impregnano anche d’acqua. Un materiale plastico come il polipropilene, inoltre, rischia di rompersi rilasciando in acqua particelle intrise di oli e, una volta usato, va smaltito come rifiuto speciale. In alternativa ci sono le tecnologie meccaniche, come pompe e skimmer, ma sono piuttosto farraginose da usare perché, non potendo filtrare gli oli, assorbono grandi quantità d’acqua. E, se interventi del genere non sono immediati, gli oli affondano. In occasione del più grave disastro ambientale della storia statunitense, l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, andò proprio così: pur spendendo 40 miliardi di dollari, si riuscì a recuperare appena il 3 per cento del petrolio finito in mare. Infine, esistono anche solventi e detersivi da versare in acqua per sciogliere gli oli; ma è una mossa controproducente, perché si finisce per contaminare ulteriormente l’acqua senza recuperare pressoché nulla. Insomma, la chiazza nera non si vede più a occhio nudo, ma solo perché si disperde andando a danneggiare un’area ancora più vasta.

La Water Defenders Alliance è andata alla ricerca di qualcosa di diverso. Una soluzione più efficace, efficiente, sostenibile e semplice. Soprattutto, una soluzione alla portata di tutti: non solo dei team specializzati che intervengono quando c’è una perdita da una petroliera, ma anche di un qualsiasi diportista che ci tiene a organizzare una vacanza in barca a vela autenticamente ecosostenibile. L’ha trovata nelle spugne FoamFlex, sviluppate e brevettate da un’azienda tutta italiana, T1 Solutions. Formulate in poliuretano espanso a celle aperte, respingono l’acqua fino al 95 per cento e assorbono l’olio fino al 99 per cento: dopo l’uso possono essere strizzate e riutilizzate fino a duecento volte, senza deteriorarsi né perdere frammenti o sostanze nocive in mare. Un chilo di spugna arriva ad assorbire, nel suo ciclo di vita, fino a sei tonnellate di idrocarburi. E l’olio che fine fa? Se è stato raccolto correttamente, basta strizzare le spugne per recuperarlo e destinarlo alla raccolta dedicata.

Oltre a fornire spugne a diportisti e pescherecci, la Water Defenders Alliance consegna ai porti i materiali assorbenti per raccogliere gli sversamenti nei loro specchi acquei (per esempio nell’area di rifornimento) e uno strumento per raccogliere e stoccare gli idrocarburi che andranno poi conferiti nella raccolta differenziata degli oli esausti. Può mettere inoltre a disposizione barriere contenitive ad hoc che i porti e le aree marine protette possono posizionare tempestivamente in caso di incidenti ambientali. Oltre a fornire una soluzione concreta e facilmente utilizzabile, la diffusione di questi kit ha l’obiettivo principale di creare cultura e diffondere consapevolezza su questo problema per promuovere comportamenti più virtuosi, a terra e in mare, al fine di rimuovere il problema a monte.

Abbiamo lavorato su questa innovazione per fornire un’alternativa che fosse da un lato green e inerte sia per l’uomo che per l’ambiente, e dall’altro che potesse incrementare questa performance ma con un’attenzione ai costi.

Alessandro Taini, founder T1 Solutions

L’appello dei porti Water Defenders
Noi viviamo il mare, noi lavoriamo sul mare, la nostra vita e il nostro lavoro sono strettamente ed intimamente connessi con il mare. 
Da troppi anni osserviamo le macchie nere che lo inquinano, che lo soffocano, che lo imbruttiscono.
Per noi è un danno morale, etico ed economico. Per voi? 
Non vogliamo un mare nero, un mare morto, un mare soffocato. 
Siamo in Italia, il nostro mare bagna i due terzi del paese, siamo nel cuore del Mediterraneo. Non possiamo semplicemente permettercelo. 
Nessuno ha mai dato voce prima a questa emergenza, nessuno l’ha neanche mai considerata tale. 
Grazie al dialogo con LifeGate, finalmente possiamo far sentire la nostra voce, possiamo portare alla conoscenza dell’opinione pubblica un problema enorme: l’inquinamento chimico dei nostri mari per via degli sversamenti accidentali di idrocarburi.
Queste macchie nere, che entrano in mare e che lo soffocano, sono per noi fin troppo visibili. Una conseguenza di tutto questo è per esempio l’iridescenza, un problema così esteso che lo possono vedere tutti, anche i non addetti ai lavori. Noi purtroppo lo vediamo pressoché quotidianamente nelle acque dei nostri porti, marine e circoli, che rappresentano il nostro posto di lavoro, il nostro territorio, la nostra casa e la nostra identità. 
Non possiamo permettere che questo problema resti “invisibile” al resto della popolazione, non possiamo e non vogliamo lavorare e vivere in un mare nero. 
Vogliamo agire, vogliamo farlo subito ma ci mancano i mezzi. LifeGate ha individuato la soluzione più efficace ed efficiente per prevenire, raccogliere e stoccare gli idrocarburi sversati accidentalmente nei nostri mari. 
Chiediamo all’Alleanza, a tutti i Water Defenders, di aiutarci: dotate tutti i porti, marine e circoli italiani che ne fanno richiesta dei kit per prevenire, assorbire e raccogliere gli idrocarburi dall’acqua.  
Aiutateci ad aiutare il mare a respirare, perché lui dà a noi il nostro respiro.

Dove sono i kit contro gli sversamenti accidentali di idrocarburi

Grazie a Riomare, che da dieci anni collabora con l’area marina protetta Isole Egadi, la Water Defenders Alliance ha dotato dei kit per gli sversamenti di idrocarburi le imbarcazioni dell’Amp e 38 pescatori autorizzati.

Grazie a Cosnova, la Water Defenders Alliance ha dotato Marina Fiera Genova, di diretta gestione del Porto Antico di Genova, di un kit progettato per il porto. Inoltre, ha consegnato pratici kit per prevenire gli sversamenti già a bordo a 100 proprietari di imbarcazioni da diporto, ormeggiate al Marina Fiera Genova. 

Grazie a Fineco, la Water Defenders Alliance ha dotato di un kit per il porto la società Osp – Operazioni e servizi portuali Palermo srl, che si occupa proprio della pulizia dello specchio acqueo del Porto di Palermo.

Grazie a Fineco, anche il porto di Marina Santelena, a pochi passi dal centro storico di Venezia, è dotato di un kit per il porto. La Water Defenders Alliance ha distribuito anche cento kit per i diportisti.

Le foreste non sono solo sulla terraferma. Crescono anche sott’acqua

Sapremmo tutti indicare senza troppe difficoltà dove si trovano le grandi foreste primarie, i polmoni verdi del nostro pianeta. In Amazzonia, innanzitutto; ma anche nell’Africa centrale, nel sudest asiatico tra Indonesia e Papua Nuova Guinea, e poi – a latitudini totalmente diverse – in Siberia e Nordamerica. Queste, almeno, sono le grandi foreste sulla terraferma. Ma il “nostro” mar Mediterraneo non è da meno. Sui suoi fondali (e in nessun altro luogo al mondo, perché si tratta di un endemismo) cresce infatti la Posidonia oceanica.



Da non confondere con un’alga, è una pianta acquatica dotata di radici, fusto e foglie che in autunno genera anche un frutto, comunemente ribattezzato come “oliva di mare”. Non si può dire che i bagnanti la amino: soprattutto quando viene strappata e sospinta a riva dalle mareggiate, crea cumuli antiestetici e maleodoranti. Quando è in buona salute, però, forma praterie sottomarine che sono nostre alleate su tanti fronti. Qualche esempio? Innanzitutto, i posidonieti contribuiscono a rallentare il riscaldamento globale, perché assorbono il doppio dell’anidride carbonica rispetto alle foreste e rilasciano ossigeno a un ritmo di 4-20 litri al giorno per metro quadrato. Nel loro insieme, secondo alcune analisi, le praterie di posidonia hanno immagazzinato tra l’11 e il 42 per cento delle emissioni di CO2 dei paesi mediterranei dall’epoca della rivoluzione industriale in poi. E lo fanno per lunghi periodi, anche secoli o addirittura millenni, a patto di essere in buone condizioni. Parallelamente, mantengono vitale l’ecosistema marino: circa il 20-25 per cento delle specie della regione dipende da questo ambiente per alimentarsi, riprodursi e trovare rifugio. I posidonieti infine stabilizzano i fondali e svolgono un’azione da “freno idrostatico”, placando l’energia delle onde e quindi salvaguardando le coste dall’erosione. 

Sono i cosiddetti servizi ecosistemici che la natura ci offre ogni giorno, senza chiederci niente in cambio. Di solito li diamo per scontati, salvo poi renderci conto del loro valore solo quando li abbiamo persi. È successo per esempio nel golfo di Gabès, al largo della Tunisia, un luogo che ospitava la più grande prateria di posidonia del bacino del Mediterraneo. A partire dagli anni Settanta, una fabbrica tunisina di fertilizzanti ha rilasciato in mare oltre 500 milioni di tonnellate di forfogesso tossico, radioattivo e non trattato. Condannando a morte circa il 90 per cento della superficie originaria del posidonieto. Un team di ricercatori ha calcolato il valore monetario dei servizi ecosistemici andati perduti: si parla di circa 105 milioni di euro nel 2014, ben più rispetto al valore aggiunto dello stabilimento industriale nello stesso anno. In altre parole, sacrificare la prateria di posidonia per produrre fertilizzanti è la scelta sbagliata. Per la natura, ma anche da un punto di vista puramente economico. 

Da Bergeggi all’isola d’Elba, riforestare la posidonia è possibile

Prima della centrale a carbone di Vado Ligure, la spiaggia di Bergeggi in Liguria non esisteva. Nel 1963, come luogo balneare, si utilizzavano gli scogli affiorati presenti sulla costa. Poi verso la fine degli anni ‘60 milioni di metri cubi di detriti provenienti dagli scavi necessari per la nuova centrale a carbone di Vado sono stati smaltiti proprio nelle acque di Bergeggi, gettati direttamente dall’Aurelia, la strada principale, che costeggia il litorale in diversi punti. Così è nata la spiaggia famosa ancora oggi. Tuttavia, il mare ci ha messo pochi anni a “rimangiarsela”, a portarsela via, mareggiata dopo mareggiata. E allora, com’è stata mantenuta tale la spiaggia di Bergeggi? Grazie alla pratica del ripascimento artificiale. Si può dire che è stata questa a cambiare drasticamente i connotati del territorio di Bergeggi, come racconta Davide Virzi, direttore dell’Area marina protetta dell’isola di Bergeggi. Si parla di ripascimento delle spiagge – o “rifornimento”, secondo la definizione ufficiale dell’Unione europea – quando si versano sabbia o ghiaia sulla costa per compensare gli effetti dell’erosione naturale e proteggerla dalle mareggiate, ma anche per estendere l’ampiezza della spiaggia a fini turistici e ricreativi. 

Negli ultimi sessant’anni le regioni hanno elargito milioni per questa pratica, che ha determinato i connotati delle coste italiane a vantaggio del turismo balneare. Tuttavia, il costo che ha pagato l’ambiente è stato alto. Ogni volta che il mare “si riprende” la sabbia, i granuli più pesanti si depositano nelle vicinanze della costa, tipicamente abitata dalle praterie, soffocandone le foglie e impedendone la fotosintesi; mentre i granuli più fini vengono trasportati più al largo, dove contribuiscono all’aumento della torbidità dell’acqua che impedisce alle praterie più profonde di ricevere la luce, e, di conseguenza, fare la fotosintesi. Le più grandi regressioni in termini di estensioni di praterie di posidonia sono avvenute proprio per questo motivo: le praterie meno esposte alla luce, quelle più profonde, hanno accusato maggiormente l’aumento di torbidità dell’acqua, spiega Monica Montefalcone, ricercatrice con un dottorato in Scienze del mare. Il discorso vale per tutti i mari di Italia: dal Tirreno, al basso Adriatico, allo Ionio, al mar Ligure. La posidonia, che un tempo era fiorente nelle acque italiane, tra gli anni ’60 e ‘90 ha accusato una forte regressione. 

Successivamente è avvenuta una svolta: l’intervento della comunità scientifica dell’Unione europea. A seguito della direttiva Habitat 92/43/CEE emanata nel 1992, la posidonia è stata categorizzata come habitat prioritario e, di conseguenza, da tutelare. Per adeguarsi alla normativa, l’Italia ha riconsiderato l’utilizzo del ripascimento artificiale come pratica frequente e ha istituito le aree marine protette. Oggi ce ne sono una trentina. Ma adesso è tempo di andare oltre: non ci si può fermare a salvaguardare gli habitat esistenti, bisogna anche ricostruire quelli che sono stati danneggiati nel corso del tempo.  

L’Area marina protetta Isola di Bergeggi, gestita dal comune e diretta da Davide Virzi, ha portato avanti nel 2023 un progetto pilota di ripiantumazione della posidonia che, a un anno di distanza, ha visto la sopravvivenza del 70 per cento delle piantine reimmesse. Un risultato tutt’altro che scontato, visto che normalmente le percentuali di sopravvivenza sono ben più basse. Un’iniziativa che oggi si amplia e prosegue, con la Water Defenders Alliance. E in particolare con Coop, che è entrata a farne parte già nel 2023 e ora è nel pieno della sua nuova campagna “Foresta blu”. Tra maggio e giugno, al largo dell’isola di Bergeggi sono stati reimpiantati ben 200 metri quadri di posidonia, riforestando circa 4mila piantine, in collaborazione con l’università di Genova e la professoressa Monica Montefalcone e seguendo l’innovativo protocollo ideato dall’International school for scientific diving coordinato dal suo direttore Stefano Acunto.

È una sfida, ce ne rendiamo conto, i cui risultati non possono essere previsti ma sappiamo che seminare innovazione e conoscenza oggi è il modo più proficuo per raccogliere rigogliosi frutti domani.

Maura Latini, presidente di Coop Italia

Proprio per aumentare le probabilità di successo, questa tecnica prevede di intervenire dove la posidonia è in fase di regressione ma mostra già segni di recupero, e dove non rischia di essere disturbata dalle pressioni antropiche. Nei fondali a 10-15 metri – una profondità non casuale, perché è quella in cui la luce arriva ma mareggiate e correnti non sono troppo violente – i team di subacquei posizionano biostuoie in reti di fibra di cocco, tenute ben salde da una rete metallica. Su di esse, gli esperti ripiantano manualmente, una per una, “le talee già libere in mare, cercando quelle che sono già state eradicate (per esempio dagli ancoraggi) e altrimenti sarebbero destinate a morire sul fondo. Se non ne troviamo, le andiamo a staccare dalle praterie limitrofe (chiamate donatrici) assicurandoci di non avere un impatto negativo”, ha spiegato a LifeGate Monica Montefalcone. Un’attività paziente, da monitorare ogni tre mesi per i due anni successivi. 

Questa è soltanto la prima tappa del percorso di Coop con la Water Defenders Alliance, un percorso che si snoda per due anni su tre ecosistemi differenti tra loro. Dopo Bergeggi, infatti, si passa – con lo stesso team – all’isola d’Elba. Si inizia a settembre, identificando e monitorando le aree dove sorgono posidonieti in regressione, per poi riforestarne 100 metri quadrati nel 2025. Per evitare che le imbarcazioni gettino le àncore strappando via foglie, rizomi o intere piante, è previsto anche il posizionamento di un campo boe. Ancora diverse sono le caratteristiche delle coste del mare Adriatico, dove la posidonia c’è ma soltanto a sud delle isole Tremiti. A partire da luglio del 2024, prende il via il monitoraggio dei tre grandi posidonieti al largo di Monopoli, Torre Guaceto e Savelletri, in Puglia, in collaborazione con un team di ricerca dell’università di Bari. 

La plastica non si raccoglie solo a terra. Si cattura anche in mare

Quando LifeGate ha iniziato ad attuare interventi concreti per la tutela delle nostre acque, l’ha fatto focalizzandosi su un singolo problema ambientale che aveva assunto dimensioni talmente clamorose da non poter più essere ignorato: l’inquinamento da plastica. I numeri, d’altra parte, sono vertiginosi. E continuano ad aumentare. A livello globale la produzione di plastica si attesta sui 400 milioni di tonnellate all’anno, stando ai dati più aggiornati diffusi dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). Soltanto una quantità molto piccola, circa il 9 per cento, entra nel circuito del riciclo. Un altro 12 per cento è destinato all’inceneritore. Tutto il resto, vale a dire l’assoluta maggioranza nel totale, viene smaltito in discarica o – ancora peggio – disperso nell’ambiente. Anche nei mari e negli oceani, dunque. Nel 2016 c’erano 11 milioni di tonnellate di plastica negli ecosistemi acquatici; andando avanti di questo passo, sostiene l’Unep, si arriverà a circa 29 milioni di tonnellate nel 2040.  

Si potrebbe pensare che questo problema riguardi quasi unicamente i paesi del sud del mondo, privi di impianti appropriati per la gestione dei rifiuti, ma non è così. Ogni anno nel mar Mediterraneo finiscono circa 570mila tonnellate di plastica di ogni genere: per avere un termine di paragone, è all’incirca il peso di cinquanta Torri Eiffel. O come se qualcuno buttasse in mare 33.800 bottiglie di plastica al minuto, ogni giorno. Quando si aggregano in formazioni galleggianti, note come windrows, chiazze, strisce o andane, i rifiuti marini nel mar Mediterraneo si vedono addirittura dallo spazio. Una ricerca internazionale a cui ha partecipato anche l’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Lerici (Cnr-Ismar) ha attinto da 300mila immagini satellitari, scattate ogni giorno per sei anni con una risoluzione spaziale di dieci metri. Individuando migliaia di strisce di rifiuti, alcune delle quali lunghe fino a venti chilometri. 

densità dei rifiuti nel Mediterraneo
Densità media dei rifiuti nel tempo nel mar Mediterraneo © Nature Communications 15(1) – Giugno 2024

Il Wwf spiega che la metà di questi rifiuti deriva dalle attività costiere, il 30 per cento viene trasportato dai fiumi e tutto il resto viene disperso direttamente in mare, per esempio perché le navi cargo perdono parte della loro merce (o gettano rifiuti in acqua volontariamente), oppure perché reti e altri materiali da pesca restano in acqua senza più essere recuperati. A differenza di quanto accade negli oceani, nel Mediterraneo – che è un mare chiuso – l’80 per cento dei rifiuti torna a riva nell’arco di un decennio; ciò significa che ogni giorno, su ogni singolo chilometro di costa, se ne accumulano circa 5,1 chili. I paesi più colpiti sono Italia e Turchia.  

A livello globale, sono circa 700 le specie marine che pagano il prezzo dell’inquinamento da plastica in mare. Perché la ingeriscono, vi restano intrappolate o, semplicemente, perché vivono in un habitat che è stato degradato dalla plastica stessa. Nel mar Mediterraneo, i rifiuti e le cosiddette “reti fantasma” sono una minaccia per la sopravvivenza soprattutto di uccelli (35 per cento) e pesci (27 per cento), ma anche per mammiferi (13 per cento) e rettili (5 per cento). Come se non bastassero i danni ambientali, ci sono quelli monetari. Si stima che la cosiddetta blue economy, cioè l’economia che ruota attorno alle risorse marine, valga il 6 per cento del prodotto interno lordo (pil) della regione del Mediterraneo. Ebbene, il turismo – che è anche causa di questo diluvio di plastica, perché in estate fa crescere di un terzo la quantità di rifiuti generati – ogni anno spende complessivamente circa 268 milioni di euro per ripulire i territori e mantenerli attrattivi per i visitatori. Il trasporto marittimo, da parte sua, deve fare i conti con episodi che aumentano i costi, i ritardi e i disagi: i rifiuti si impigliano nelle eliche, entrano in rotta di collisione con le navi, intasano le prese d’acqua necessarie per i sistemi di raffreddamento dei motori. Da qui, altri 235 milioni di euro di danni l’anno. Infine, la pesca subisce ogni anno perdite che sfiorano i 138 milioni di euro.  

Da tempo ong e aziende organizzano giornate di raccolta sulle spiagge, emulate anche da cittadini e cittadine che si armano di guanti e sacchetti e decidono di investire qualche ora per ripulire la località dove vivono o vanno in vacanza. Ma le tecnologie permettono di fare qualcosa di diverso: attirare e tenere alta l’attenzione sul problema e rendere più efficace la raccolta delle plastiche galleggianti in acqua, prima che finiscano a riva e prima che vengano inghiottite dai pesci. Nel 2018 LifeGate ha introdotto per prima in Italia i Seabin, cestini galleggianti progettati per catturare non solo i rifiuti comuni che si trovano in acqua ma anche le microplastiche fino a 2 mm di diametro, permettendo dunque di toglierli dall’acqua per poi essere semplicemente svuotati e differenziati nella raccolta in porto. Nasceva così LifeGate PlasticLess, il progetto che – dopo cinque anni e più di cento dispositivi installati in Italia e non solo – si è ampliato ed evoluto nella Water Defenders Alliance. Oggi le aziende Water Defenders possono contribuire all’installazione di tre diversi dispositivi. 

Seabin: il cestino in grado di raccogliere dall’acqua circa 500 kg di rifiuti galleggianti all’anno, incluse plastiche, microplastiche e frammenti di fibre.  

Trash Collec’thor: si installa sui punti di accumulo e, grazie a una robusta pompa industriale, cattura fino a 100 kg di rifiuti (incluse le microplastiche) alla volta, con un media di raccolta annuale di 1.500 kg di rifiuti galleggianti all’anno, incluse le microplastiche fino a 3 mm di diametro, da scaricare a terra grazie a un argano. 

Pixie Drone: il drone, telecomandato da una distanza fino a 500 metri, che naviga a una velocità di 3 km/h e intercetta, per ogni missione, fino a 60 kg di macro rifiuti che si trovano nello specchio acqueo.  

Sono ormai decine i dispositivi mangiaplastica installati tra porti turistici e commerciali, laghi e darsene cittadine. E la lista continua ad allungarsi, man mano che la squadra delle aziende Water Defenders cresce.  



Vedere questi dispositivi in azione fa senza dubbio un certo effetto. Perché non si può non pensare a cosa succederebbe se quel cumulo di lattine, mozziconi di sigarette, sacchetti, bottiglie e altri rifiuti restasse in mare. Ma due di queste tecnologie, il Seabin e il Trash Collec’Thor, riescono a incidere anche su un inquinamento invisibile a occhio nudo: quello da microplastiche, le particelle di diametro inferiore ai 5 millimetri. Possono essere rilasciate direttamente in mare dal lavaggio di capi sintetici, dall’abrasione degli pneumatici o da alcuni prodotti per la cura del corpo (in tal caso si parla di microplastiche primarie) oppure derivare dalla degradazione di rifiuti di plastica più grandi (le microplastiche secondarie, che sono la maggioranza). Il Wwf parla di una concentrazione nel mar Mediterraneo pari a 1,25 milioni di frammenti per chilometro quadrato. Per la sua conformazione chiusa, il Mediterraneo tende ad accumulare inquinamento: non è un caso se, pur coprendo soltanto l’1 per cento della superficie totale di mari e oceani del pianeta, contiene il 7 per cento del totale delle microplastiche. Se ne parla più di rado, ma i laghi non sono da meno. Gli studi effettuati nell’ambito del progetto Life Blue Lakes hanno rilevato una contaminazione da microplastiche nel 98 per cento dei campioni prelevati nei laghi di Bracciano, Trasimeno e Piediluco. Tante ottime ragioni per agire in modo capillare. Sia a monte, riducendo il consumo di plastica usa e getta e di prodotti che contengono granuli e microsfere, anche grazie alla spinta dell’Unione europea. Sia a valle, andando a rimuovere quei frammenti di plastica – grandi e piccoli – che sono già finiti in acqua.  

I rifiuti non sono solo in superficie. Sono anche sui fondali

Tra i tanti primati che possiamo vantare in Italia, ce n’è uno che non ha nulla di buono: è quello per l’area marina con la maggiore densità di rifiuti al mondo. Uno studio dell’università di Barcellona la identifica infatti nel fondale dello stretto di Messina, rivelando che in alcuni punti (ma non tutti, ci tiene a sottolineare l’ateneo della città) raggiunge una densità di un milione di oggetti per chilometro quadrato. Il braccio di mare che separa Sicilia e Calabria presenta infatti condizioni – purtroppo – ideali per l’accumulo dei cosiddetti marine debris. Oltre a essere fortemente urbanizzata, infatti, l’area costiera è caratterizzata da montagne molto ripide drenate da piccoli torrenti (quelli che localmente si chiamano fiumare). Durante i flash flood, cioè le inondazioni improvvise dovute alle forti piogge stagionali, questi torrenti portano con sé grandi quantità di materiali che si depositano poi nelle profondità dello stretto. Soprattutto nei canyon sottomarini, collegati a monte alle fiumare, che fungono da “nastri trasportatori”. Per scovare queste discariche sommerse è necessario affidarsi ai rov, sottomarini a comando remoto che esplorano i fondali anche a profondità di centinaia di metri (irraggiungibili per qualsiasi sub) e acquisiscono foto e video ad alta definizione, anche al buio o quasi. Raccoglierli è – o, per meglio dire, sarebbe – una missione completamente diversa. E non è nemmeno detto che sia possibile senza arrecare danni ancora più gravi all’ecosistema. 

Lo stretto di Messina è diventato un simbolo di un problema ambientale che, in realtà, sembra non risparmiare nessun’area del Pianeta. Tant’è che le esplorazioni scientifiche condotte negli ultimi anni hanno scovato tracce di plastica anche a 11mila metri di profondità nella fossa delle Marianne, la profonda depressione nel bel mezzo dell’oceano Pacifico che per antonomasia è considerata il luogo più inaccessibile del mondo. Tornando a territori che conosciamo più da vicino, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) nel 2014 è andata alla ricerca di rifiuti tra il delta del Po e Caorle, rilevando una densità media di oltre 700 oggetti (e 100 chili di peso) per chilometro quadrato. A Varazze, rinomata località balneare del Ponente ligure, a una profondità tra i 30 e i 45 metri giacciono da oltre mezzo secolo mille automobili che erano state danneggiate in modo irreversibile dalla violenta alluvione del 1970. Le affondò la Fiat in quella che, per gli standard dell’epoca, appariva come la pionieristica operazione di creazione di un reef artificiale. Ma qualsiasi sub, amatoriale o professionista, prima o poi durante un’immersione si è imbattuto in un copertone o in un giocattolo rotto. Stando al Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep), infatti, i rifiuti che vediamo galleggiare sulla superficie dei mari sono soltanto il 15 per cento del totale; un altro 15 rimane in acqua e l’assoluta maggioranza, il 70 per cento, si deposita sui fondali. Di questo 70 per cento, il 77 per cento è costituito da plastica.  

Una parte considerevole di questi rifiuti è costituita dalle cosiddette ghost net, cioè le reti e le attrezzature da pesca abbandonate in mare. Reti che non servono più a nessuno ma continuano comunque a intrappolare pesci, tartarughe marine, cetacei e altri animali, impedendo loro di muoversi liberamente, ferendoli, talvolta uccidendoli. Quando restano impigliate nei coralli, li soffocano e coprono la luce del sole. Danni che si protraggono per anni e anni, perché le moderne reti da pesca sono fatte di nylon e materiali plastici pressoché indistruttibili. Il tempo e le correnti non fanno altro che disgregarle in microplastiche che finiscono nella catena alimentare. 

Le missioni sub per la raccolta di rifiuti organizzate dalla Water Defenders Alliance  

Baia di Santa Teresa, La Spezia

Baia di Santa Teresa (La Spezia), 2022

Grazie a Coop, per festeggiare la Giornata degli oceani 2022, un team di sette subacquei professionisti del team di Tribù Diving Academy, accompagnati da un fotografo e un documentarista subacqueo, guidati da Emilio Mancuso – biologo marino di LifeGate e presidente dell’impresa sociale Verdeacqua – ha ripulito dai rifiuti il fondale di Santa Teresa di Lerici, in provincia della Spezia, documentando in video l’operazione.

Rifiuti raccolti: 40 kg

Bacino di San Giusto, Trieste

Bacino di San Giusto (Trieste), 2022

Grazie a Coop la città di Trieste, durante la 54ma edizione della storica regata Barcolana, ha ospitato un’installazione immersiva sull’urgenza di proteggere le nostre acque, chiamata Mediterraneo 2072. Un grande contenitore trasparente posizionato all’esterno ha mostrato ai visitatori i rifiuti raccolti da una squadra di sub nelle acque triestine. L’attività di raccolta dei rifiuti è stata svolta in stretta collaborazione con l’Area marina protetta di Miramare che ha coordinato contestualmente anche la ricerca di giovani esemplari di Pinna nobilis, specie protetta, e la relativa traslocazione in un luogo sicuro come previsto nell’ambito del progetto europeo Life Pinna.

Rifiuti raccolti: 500 kg

Riviera di San Bartolo, Pesaro-Urbino

Riviera di San Bartolo (Pesaro-Urbino), 2023

Grazie a Coop i sub della Water Defenders Alliance, in collaborazione con il Comitato Area marina San Bartolo, si sono immersi nelle acque dell’Adriatico a caccia di rifiuti. I materiali recuperati sono stati esposti in una teca a Baia Flaminia (Pesaro) in occasione del CaterRaduno 2023, l’appuntamento annuale che richiama gli ascoltatori della trasmissione Caterpillar.

Rifiuti raccolti: 170 kg

Baia di Santa Teresa, La Spezia

Baia di Santa Teresa (La Spezia), 2024

Grazie a Fineco, a maggio 2024 una straordinaria missione sub ha permesso di togliere 1.500 chili di rifiuti dai fondali della Smart Bay Santa Teresa, nel golfo della Spezia. L’operazione è stata condotta da Enea e altri enti di ricerca, Verdeacqua e il Gruppo operativo subacquei di Comsubin della Marina militare di stanza a La Spezia, con il supporto del comune di Lerici.

Rifiuti raccolti: 1.500 kg