L’acqua, un bene comune da proteggere insieme

L’acqua, un bene comune da proteggere insieme

L’acqua è la risorsa più preziosa che abbiamo, ma spesso non le diamo il valore che merita. Uno sguardo ai problemi e, soprattutto, alle possibili soluzioni.

Tempo di lettura: 62 min.

Visto dallo spazio, il colore predominante del nostro Pianeta è il blu. Il colore dell’acqua. Tanto basta per far capire che senza acqua non può esistere la vita. Si tratta del bene più prezioso che abbiamo sulla Terra. Tuttavia, troppo spesso non lo utilizziamo come tale. Anche perché ad esso non viene dato il giusto valore: etico ed economico. Eppure quest’ultimo, normalmente, è determinato dall’importanza di un bene e dalla sua rarità. E uno sguardo anche soltanto superficiale ai dati relativi alla disponibilità di tale risorsa naturale sono sufficienti per comprendere quanto la sua gestione sia determinante per il futuro dell’umanità.

L’acqua dolce, un bene prezioso (e raro) per l’umanità

Le riserve complessive di acqua presenti sul nostro Pianeta sono infatti pari a 1.400 milioni di miliardi di metri cubi. Una massa immensa, che copre circa i tre quarti della superficie terrestre. La porzione di acqua dolce, tuttavia, è estremamente inferiore rispetto al totale. L’acqua salata dei mari e degli oceani è infatti pari a 1.365 milioni di miliardi di metri cubi, ovvero circa il 97,5 per cento del totale. Del restante 2,5 per cento (35,2 milioni di miliardi di metri cubi), soltanto una quota infinitamente più piccola è realmente a disposizione dell’uomo. Parliamo di meno dell’1 per cento di quel 2,5 per cento. Il che, tradotto, significa che possiamo raggiungere e sfruttare solo lo 0,028 per cento della cosiddetta idrosfera, ovvero l’insieme delle acque presenti sotto varie forme a livello globale. Il resto dell’acqua dolce non può essere infatti consumata dall’uomo (ad esempio poiché troppo in profondità nel suolo o perché congelata). Quella a disposizione è quella stoccata in riserve naturali o artificiali (laghi, dighe, invasi, ecc.) oppure nelle falde acquifere di superficie.

Il lago Bajkal, situato nella Siberia meridionale, rappresenta la più grande riserva naturale di acqua dolce allo stato liquido al mondo, con 23mila miliardi di metri cubi di acqua. Non a caso, il bacino è stato inserito dall’Unesco nell’elenco dei siti considerati Patrimonio mondiale dell’umanità, anche per la ricchezza della biodiversità che ospita.

Un bene distribuito in modo estremamente diseguale

L’acqua, dunque, non è rara sulla Terra. Ma quella che possiamo utilizzare per il consumo umano, che possono sfruttare gli animali e che può essere impiegata in agricoltura è pochissima. Inoltre, molte delle principali falde acquifere del mondo sono sottoposte a crescente stress: il 30 per cento dei più grandi sistemi di acque sotterranee si sta ormai esaurendo. Non solo: la risorsa fondamentale per la vita è anche distribuita nel mondo in modo fortemente diseguale.

Più di un quarto della popolazione mondiale, infatti, non può godere di un accesso diretto all’acqua potabile. Parliamo di qualcosa come due miliardi di persone, distribuite su 80 nazioni della Terra. Con un’incidenza particolarmente elevata, a causa della mancanza materiale della risorsa, in Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Libia, Cipro, Singapore, Malta e Israele. A ciò si aggiunge – spiega il rapporto “Il valore dell’acqua”, pubblicato nel 2021 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) – il fatto che “circa 1,6 miliardi di persone devono affrontare una scarsità d’acqua ‘economica’. Il che significa che benché essa può sia fisicamente disponibile, mancano le infrastrutture necessarie per accedere a quell’acqua”.

Più in generale, le Nazioni Unite hanno stimato che oltre due miliardi di persone vivano in paesi che soffrono di stress idrico. E si stima che circa quattro miliardi di persone vivano in aree che patiscono situazioni di grave scarsità idrica fisica, ovvero mancanza materiale della risorsa, per almeno un mese all’anno. Una situazione che non farà che aggravarsi per colpa dei cambiamenti climatici: l’aumento della temperatura media globale, che in alcune aree del Pianeta risulterà particolarmente elevato, esacerberà situazioni che già oggi possono essere definite di crisi. Provocherà infatti ondate di siccità sempre più marcate e durature nel tempo. Ed esaspererà la variabilità stagionale, rendendo più irregolare e incerto l’approvvigionamento idrico. Così, saranno non soltanto ancor più complicate le situazioni di alcune regioni della Terra, ma il fenomeno colpirà anche aree che ad oggi ne sono esenti.

All’estremo opposto, esistono alcuni paesi che vengono considerati dagli esperti delle Nazioni Unite come “potenze idriche”. In particolare, si tratta di nove stati: Brasile, Russia, Indonesia, Cina, Canada, Stati Uniti, Colombia, Perù e India. Da soli, i loro territori hanno l’immensa fortuna di custodire quasi il 60 per cento delle risorse mondiali di acqua dolce.

Quattro miliardi di persone vivono in aree che soffrono di grave scarsità idrica fisica, ovvero mancanza materiale della risorsa, per almeno un mese all’anno.

Come viene impiegata l’acqua dolce nel mondo

Secondo l’Unesco, “l’uso globale di acqua dolce è aumentato di sei volte negli ultimi 100 anni, e continua a crescere a un tasso di circa l’1 per cento all’anno dagli anni Ottanta. L’agricoltura attualmente è responsabile del 69 per cento dei prelievi idrici globali che vengono utilizzati principalmente per l’irrigazione, ma includono anche l’acqua utilizzata per il bestiame e l’acquacoltura”. Si tratta di un rapporto che, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), può arrivare a toccare il 95 per cento in alcuni paesi in via di sviluppo.

La stessa agenzia delle Nazioni Unite ha stimato che, sulla base di uno scenario a parità di condizioni, il mondo avrà bisogno di circa il 60 per cento in più di cibo entro il 2050, per sfamare dieci miliardi di persone. Ciò comporterà un incremento della produzione agricola, e in particolare di quella irrigua, che registrerà una crescita di oltre il 50 per cento nello stesso periodo. Certo, potremmo eliminare gli sprechi di cibo, poiché già oggi produciamo ben più di ciò che sarebbe necessario per sfamare l’intera umanità, ma concentriamo la distribuzione nelle nazioni ricche del mondo (che ne fanno finire enormi quantità nella spazzatura). E inoltre ci si potrebbe orientare verso diete a minore impatto. Ma la storia insegna che non è detto che ciò venga fatto.

Le multinazionali del settore agroindustriale prediligono la strada dell’aumento della produzione (e dei giri d’affari). Di conseguenza, uno scenario che preveda un notevole incremento dell’uso agricolo delle risorse idriche non può essere di certo escluso. Una parte non indifferente dei consumi di acqua dolce, inoltre, è legato all’industria. Quest’ultima copre infatti il 19 per cento del totale, considerando anche la quota legata alla generazione di energia elettrica tramite impianti idroelettrici. Infine, le città consumano il restante 12 per cento.

Quanto vale l’acqua?

L’umanità, dunque, deve la sua stessa esistenza all’acqua. Ne discende che l’attribuzione stessa di un valore economico a tale bene appare – filosoficamente prima ancora che finanziariamente – quasi impossibile, poiché inestimabile. Nel mondo, però, spesso l’erogazione di acqua viene effettuata sulla base di prezzi che non riflettono tale concetto. E che di fatto agevolano gli sprechi.

Normalmente, il valore di un bene viene concepito sulla base di tre principi: il valore di scambio, ovvero il prezzo di mercato di un bene o di un servizio. Quindi l’utilità, sulla base degli usi che se ne fanno. E infine l’importanza, che può essere anche “emotiva” e dunque, di fatto, soggettiva. Il risultato è che il valore “reale” dell’acqua è stato spesso trascurato, portando inevitabilmente a un uso improprio nonché a casi di appropriazioni indebite da parte di determinati gruppi di interesse.

D’altra parte, basti pensare che è stato necessario aspettare il 28 luglio del 2010 per un primo riconoscimento ufficiale da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. All’epoca, quest’ultima approvò infatti una risoluzione storica, con 124 voti favorevoli, 41 astensioni e un solo paese contrario. Il documento, che era stato presentato da un gruppo di 35 nazioni del Sud del mondo, sanciva il “diritto all’acqua potabile”. Un’iniziativa guidata, all’epoca, dalla Bolivia di Evo Morales, che da sempre si è battuto affinché le risorse idriche fossero considerate “un bene comune”.

Occorrerà poi aspettare sette anni affinché, nel 2017, il Global High-Level Panel on Water and Peace (Gruppo globale di alto livello su acqua e pace, lanciato da 15 paesi sotto l’egida delle Nazioni Unite) decreti: “L’acqua è vita. È una condizione fondamentale per la sopravvivenza e la dignità umana ed è la base per la resilienza delle società e dell’ambiente naturale”.

La finanziarizzazione dell’acqua: il caso degli Stati Uniti

Ma la gestione dell’acqua da parte di soggetti privati, che rispondono – come ovvio – a logiche puramente aziendali, è stata ormai, in qualche modo, “oltrepassata”. Non in senso positivo, però. Il 7 dicembre 2020 ha segnato infatti una svolta nel processo che, da decenni, ha portato a considerare l’acqua comunque un qualsiasi bene commerciale. In quella data, infatti, essa fece il proprio ingresso alla Borsa di Chicago (Chicago mercantile exchange), negli Stati Uniti.

Si trattò della prima volta in cui una risorsa vitale non era, di fatto, più considerata solo come una merce che si può comprare e vendere sul mercato, ma addirittura come un asset finanziario. Sul quale poter speculare come lo si fa sul prezzo del petrolio o dell’oro.

Le transazioni, infatti, non riguardano il bene in sé. Ad essere trattati sono dei contratti finanziari chiamati derivati, con i quali, di fatto, si può scommettere sull’andamento dei prezzi. In altre parole, chi compra o vende non punta a farsi consegnare fisicamente cisterne di acqua, ma a veder salire il valore dei titoli acquistati, per poterli rivendere e centrare un guadagno. “Teoricamente – ha spiegato il quotidiano economico Valori.it – l’obiettivo è di garantire alle aziende che fanno un largo consumo di risorse idriche di gestire il loro bilancio, assicurandosi un prezzo di acquisto”. Ciò attraverso “i cosiddetti futures, contratti a termine che permettono di acquistare un prodotto ad un prezzo prefissato, in un periodo differito nel tempo. In questo modo si possono evitare le ripercussioni di possibili fluttuazioni dei prezzi. Inoltre, secondo gli operatori di Borsa, i futures sull’acqua dovrebbero consentire di monitorare la disponibilità della materia prima”. Ma la realtà è che a prevalere sono, appunto, gli speculatori. Il tutto in un mercato il cui valore è stimato nella sola California – dove è nata la finanziarizzazione dell’acqua – a 1,1 miliardi di dollari.

Un approccio circolare per dare valore a ogni goccia

Come risolvere, dunque, il problema di un bene essenziale, la cui quantità è fortemente limitata nel mondo e sul quale premono numerose forze, da quelle agroindustriali a quelle finanziarie? Una risposta passa dall’economia circolare. Ovvero da un approccio che non soltanto dia alla risorsa il giusto valore, ma che la tratti con lungimiranza.

L’enorme dispendio idrico di agricoltura e allevamento: come limitarlo

Abbiamo visto come la stragrande maggioranza dell’acqua prelevata dall’uomo sia destinata all’agricoltura e all’allevamento: la media sfiora il 70 per cento a livello globale, ma supera addirittura il 90 per cento nel sud dell’Asia.

Partiamo dunque da qui, dal settore più critico in assoluto, per capire se esistono delle contromisure. “Per quanto riguarda l’irrigazione, è fondamentale scegliere piante autoctone e idonee al contesto territoriale”, sottolinea il giornalista e geografo Emanuele Bompan, autore con Ilaria Nicoletta Brambilla di “Che cosa è l’economia circolare?”. L’esempio negativo, anzi, paradossale, è quello della California. Uno stato in cui la crisi idrica è conclamata ma i consumi restano spropositati, anche perché più di 5mila chilometri quadrati sono coltivati a mandorle (nel 1995 erano meno di 1.700). Ed è vero che le mandorle californiane ormai sono una potenza economica, con un valore della produzione 2020 stimato in 6,1 miliardi di dollari che ne fanno la terza commodity agricola dello Stato, dopo i latticini e il vino. Ma è vero anche che, secondo alcuni studi, servono 12 litri d’acqua per portare a piena maturazione una singola mandorla.

mandorle in California, consumo di acqua in agricoltura
Una coltivazione di mandorle in California. Si tratta di una coltura che consuma moltissima acqua © Bruce Barnett/Flickr

Il primo passo per abbassare la gigantesca impronta idrica dell’agricoltura è quello di selezionare le coltivazioni con un occhio di riguardo anche per le risorse che la Terra ci offre, e non soltanto per i profitti centrati nell’immediato. Dopodiché, “l’agricoltura rigenerativa aiuta anche nella captazione idrica”, cioè nell’approvvigionamento, spiega Emanuele Bompan.

“Il modello a cui guardare non è più quello della monocoltura intensiva senza nemmeno un albero o un filo d’erba attorno, bensì quello della produzione integrata”.

Emanuele Bompan, giornalista

Possiamo inoltre contare sulle tecnologie per l’irrigazione efficiente. Ormai ne esistono parecchie, anche a basso costo: come le ali goccianti che somministrano a ogni pianta la quantità di acqua di cui ha bisogno, nel momento esatto in cui le serve; oppure l’agricoltura di precisione che si basa su “iot” (internet delle cose), data science e rilevazioni ambientali digitali; o ancora i droni che sorvolano i campi, li mappano con precisione e decidono dove e quando irrigare.

Sull’enorme impronta idrica dell’allevamento sono stati versati fiumi d’inchiostro. Il dato che circola di più è quello – clamoroso – per cui servono più di 15mila litri d’acqua per produrre un solo chilo di carne bovina. È stato elaborato dal Water footprint network e di sicuro è molto utile per comparare i vari alimenti tra loro: sempre restando nel campo della carne, infatti, scende a 4.300 litri per il pollo. Va comunque riletto alla luce del fatto che per la stragrande maggioranza si tratta di acqua verde, cioè quella piovana evaporata o traspirata dai terreni durante la crescita delle colture; poi, in percentuali molto inferiori, ci sono l’acqua grigia (quella necessaria per diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione) e quella blu (effettivamente prelevata dai corsi d’acqua e dalle falde per non essere più restituita all’ambiente).

Detto ciò, ci sono due strade per abbassare l’impronta idrica dell’allevamento. La prima spetta agli operatori del settore: si tratta di allevare i bovini in zone a ridotto stress idrico. Così facendo si eviterebbero vere e proprie stragi come quella accaduta nel 2013, quando migliaia e migliaia di manzi sono letteralmente morti di sete per la gravissima ondata di siccità che ha travolto il Brasile. La seconda strategia invece spetta e noi, e la conosciamo: ridurre – almeno in parte – i consumi di carne, prediligendo quella di filiera corta.

Ridurre i consumi di carne bovina è una strategia efficace per abbassare l’impronta idrica della propria dieta.

Chiudere il ciclo idrico per produrre senza sprechi

Profondi cambiamenti sono necessari anche nel settore industriale. Nei paesi avanzati, come detto, la produzione di energia elettrica e l’industria hanno un peso proporzionalmente maggiore sul consumo di acqua. L’Italia non fa eccezione. L’Istat fa sapere che tre settori, da soli, sfruttano il 40 per cento del totale dell’acqua impiegata per la manifattura: coke, prodotti petroliferi raffinati e prodotti chimici; prodotti in metallo (macchinari esclusi); e, infine, gomma e materie plastiche. Sebbene su scala inferiore, anche tessile e alimentare sono abbastanza esigenti, con un consumo idrico rispettivamente di 335mila e 288mila metri cubi l’anno (l’8,8 e il 7,6 per cento del totale dell’industria). “Per questo mondo esistono sempre più soluzioni tecnologiche che chiudono i cicli di acqua, il che significa usare sempre la stessa acqua per raffreddamenti. Oppure esistono cicli sempre chiusi con depurazione in caso di lavaggi, quando l’acqua si contamina”, prosegue Bompan.

Applicare l’approccio dell’economia circolare alla gestione dell’acqua significa proprio questo:

  • ridurre il fabbisogno a monte ed evitare gli sprechi lungo la filiera;
  • riutilizzare il più possibile l’acqua nei processi produttivi, limitando gli scarichi;
  • depurare questi ultimi recuperando non soltanto acqua, ma anche materiali e sostanze chimiche che possono essere utilizzate per produrre energia e biomateriali;
  • riutilizzare gli effluenti depurati e i fanghi di depurazione, soprattutto in ambito agronomico. 

Sfogliando il libro 100 storie italiane di economia circolare, pubblicato nel 2021 da Fondazione Symbola, ci si imbatte per esempio in Naturella, una pelle realizzata dalla storica Santori Pellami tramite un processo innovativo brevettato nel 2018. Di per sé il settore conciario ha un impatto considerevole, ma in questo caso non si fa uso di cromo (sostanza tossica e inquinante) e i metalli pesanti sono ridotti al minimo, così come il consumo d’acqua e gli scarti di produzione. Il risultato è una pelle che assorbe bene i colori, resiste allo strappo alle rotture ed è biodegradabile al 77 per cento.

Restando nella moda, i jeans sono ormai assurti a simbolo dello spreco d’acqua: ne servono 3.800 litri per confezionarne un paio, tra la coltivazione del cotone e le numerose tinture (da tre a nove) necessarie per raggiungere la colorazione desiderata. Il fashion design studio milanese Blue of a kind ha trovato un’alternativa nell’upcycling: recupera capi vintage di ottima qualità in Italia e in Francia, li scuce pezzo per pezzo e li riassembla a mano, trasformandoli in giacche e pantaloni in denim. Veri e propri pezzi unici che traggono il loro stile proprio dai segni del passato.

In un ambito completamente diverso, Arvedi vuole dimostrare che anche la siderurgia può evolvere in chiave sostenibile, e lo fa anche attraverso un sistema di ricircolo dell’acqua utilizzata per i raffreddamenti che garantisce un risparmio idrico pari al 50 per cento rispetto agli impianti convenzionali.

“La buona notizia è che le soluzioni ci sono tutte, non dobbiamo inventarci niente”, conclude Bompan. “Servono volontà, investimenti, meccanismi di sostegno agli investimenti. E serve una cultura della sostenibilità che oggi è ancora carente”. Questo non significa rinunciare allo sviluppo, anzi. Significa sceglierne a lungo termine che garantisca anche alle nuove generazioni il benessere di cui abbiamo goduto noi.

L’acqua, un tesoro di biodiversità

In questo senso, un altro aspetto cruciale nella tutela delle risorse idriche è legato alla biodiversità. I bacini di acqua dolce e i mari ne conservano inoltre una quantità immensa e preziosissima. Quella presente negli oceani è fondamentale per l’equilibrio di un ecosistema, quello marino appunto, che rappresenta anche uno dei principali strumenti naturali di assorbimento della CO2 prodotta in eccesso dalle attività umane. Ma anche la diversità biologica presente nei bacini di acqua dolce, come fiumi e laghi, è di vitale importanza.

Le acque dolci profonde: la vita in condizioni estreme

Normalmente i bacini lacustri si dividono in due zone ben distinte: una superiore, nel quale fitoplancton e vegetazione possono proliferare. E una inferiore, nella quale è presente molto meno ossigeno e le radiazioni solari non arrivano. Analizzare la seconda, nella quale la presenza di organismi viventi è inevitabilmente meno importante, aiuta a comprendere le dimensioni della ricchezza della biodiversità presente nei laghi, negli stagni o nelle marane. Crostacei, trote lacustri, salmerini alpini: la fauna presente nelle acque dolci profonde è impressionante. Senza parlare di vermi, larve, lumache che partecipano a bonificare l’acqua e a fornire cibo alle specie viventi.

Al contempo, sedimenti e resti di vita organica si accumulano sul fondo dei bacini, ospitando una moltitudine di batteri che costituisce il principale nutrimento di numerosi invertebrati. E anche alcuni pesci si inoltrano in acque profonde alla ricerca di cibo. Perfino la flora risulta ridotta a causa della mancanza di luce, ma è comunque presente.

Muovendosi verso la superficie, la vita già presente sui fondali si moltiplica. La fotosintesi permette lo sviluppo di numerose specie e gli elementi nutritivi si fanno più abbondanti, permettendo la riproduzione. Le piante presenti sono di tipo anfibio, come ad esempio la littorella uniflora, o semi-acquatico, come nel caso del trifoglio d’acqua. Assieme ad alberi e arbusti. Senza parlare dei numerosissimi insetti o degli uccelli migratori che nei loro viaggi sono soliti fare tappa in prossimità dei laghi. Si calcola che almeno 126mila specie dipendano dagli ecosistemi di acqua dolce. Ma si stima che la cifra possa salire a un milione tenendo conto di quelle non ancora note.

Intervista a Emilio Mancuso, biologo marino e divulgatore scientifico, presidente dell’impresa sociale Verdeacqua

Nel 2050 nel mare ci sarà più plastica che pesci: quali saranno le conseguenze sulla salute animale e umana?
Le conseguenze saranno, e già in larga parte si vedono, estremamente impattanti: la plastica e i suoi derivati sono ormai all’interno delle reti trofiche marine, e poiché noi stessi ci cibiamo di prodotti del mare, mangiamo e bio-accumuliamo nel nostro corpo nanoplastiche, microplastiche e derivati. Questa è una delle connessioni più dirette, ma ve ne sono poi di numerose “indirette”: la crisi climatica sta colpendo i nostri mari e oceani rendendoli meno resilienti, meno capaci di sopportare accidenti naturali o antropici. Quindi tutti i problemi, anche legati alle plastiche in mare, finiscono per avere effetti maggiori.

Qual è l’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità acquatica? Si rischia uno squilibrio simile a quello di altri ecosistemi, come nel caso della criosfera?
La crisi climatica sta erodendo habitat e biodiversità marina (e non solo) rendendo quindi i nostri oceani più fragili, capaci di rispondere meno bene e in più tempo a qualsiasi tipo di danno che si possa generare per via naturale o per l’azione dell’uomo. Ricordiamoci che questo è un rischio tremendo per noi in primis. Mari e oceani sono andati già incontro a profonde crisi di biodiversità e fenomeni di estinzione di massa, ma l’ultima volta non eravamo in ormai 8 miliardi di persone a trarne risorse, cibo, energia, o ancora stabilità socio-economica.

Quali sono le misure concrete più urgenti che si potrebbero attuare a livello nazionale e internazionale?
Ascoltare cosa la comunità scientifica sta facendo e cercare di attuare progetti di habitat restoration, azioni di contrasto e mitigazione dei cambiamenti climatici, incentivare tutte le cosiddette natural based solutions: ovvero capire meglio i meccanismi degli ecosistemi marini e incentivarli così da permettere agli stessi ecosistemi di fornirci in maniera efficace servizi fondamentali per il benessere umano.

Esistono esempi di politiche virtuose attuate da governi o organizzazioni internazionali in questo senso?
L’istituzione del Decennio del mare e i vari Sdgs (Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite) legati alla protezione dei sistemi marini fanno capire che la presa di coscienza è ormai globale. E posso direi con piacere che molti enti e istituti di ricerca italiani stanno producendo tanto in questo senso. Occorre tenere alta l’attenzione e vedere gli sviluppi, già a medio termine, che direzione prenderanno.

Cosa possiamo fare invece noi in quanto singoli individui?
Ognuno di noi può far parte della soluzione, a partire dall’avere una corretta informazione su cui basare le proprie scelte quotidiane in materia di alimentazione, approvvigionamento ed efficientamento del consumo energetico, riduzione degli sprechi e adozione di forme di mobilità più sostenibile.

Quali iniziative state portando avanti con l’Istituto per gli studi sul mare Verdeaqua al fine di sensibilizzare la popolazione sulla necessità di tutelare le aree acquatiche?
Da sempre in prima linea sul fronte dell’educazione ambientale ed educazione alla sostenibilità, abbiamo diversi progetti scolastici che parlano di crisi climatica e resilienza degli ecosistemi acquatici, oltre una serie di manifestazioni rivolte al pubblico adulto, alla società civile. Tra questi, ci onoriamo di essere partner per la disseminazione scientifica di PlasticLess e di Un mare di idee per le nostre acque. Informare ed educare quante più persone possibile rispetto alla complessità della natura e alla sua fondamentale importanza per la salute, il benessere e la quotidianità di noi tutti è il denominatore comune di tutte le nostre attività.

Si calcola che almeno 126mila specie animali e vegetali dipendano dagli ecosistemi di acqua dolce. Conteggiando anche quelle non ancora note, la cifra potrebbe salire fino a un milione.

Dolce o salata, l’acqua è anche energia

A dimostrazione di quanto quest’elemento sia vitale non solo per la nostra biologia ma anche per il nostro modello di sviluppo, l’acqua dolce è la più antica fonte di energia usata dall’uomo. Quella salata, invece, è da molti considerata una nuova frontiera.

L’idroelettrico: la terza fonte di energia più importante al mondo

Addirittura i greci e i romani sfruttavano l’energia dell’acqua per azionare i mulini, per la prima centrale idroelettrica propriamente detta bisogna aspettare il 1879, quando fu costruita alle cascate del Niagara. Oggi, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), l’idroelettrico vale circa il 15,6 per cento del mix energetico globale: si tratta della terza fonte più importante del mondo e la prima tra le rinnovabili. Complessivamente, nel 2020 la produzione mondiale è stata di 4.418 terawattora, grazie a una potenza installata di 1.330 gigawatt.

Si tratta dunque di un sostegno fondamentale per le economie di numerose nazioni di tutto il mondo, e anche per la lotta ai cambiamenti climatici, che impone un abbandono delle fonti fossili a vantaggio, appunto, di quelle rinnovabili. Inoltre, i costi di sfruttamento dell’energia idroelettrica sono particolarmente bassi, esattamente come le emissioni di gas ad effetto serra. Tuttavia, non di rado gli impatti dal punto di vista sociale e ambientale sono particolarmente elevati, soprattutto nel caso di costruzioni di mega-dighe. Ovvero enormi strutture che prevedono invasi giganteschi, capaci di modificare radicalmente intere regioni, imponendo a volte migrazioni forzate alle popolazioni locali e incidendo profondamente sugli ecosistemi.

Ad oggi (dati del 2020) il principale produttore di energia idroelettrica al mondo è la Cina, che copre all’incirca il 31 per cento del totale. Al secondo posto figura il Brasile con il 9,4 per cento, seguito da Canada (8,8 per cento) e Stati Uniti (6,7 per cento). Ma, più in generale, una delle particolarità dell’idroelettrico è la sua disponibilità piuttosto omogenea nel mondo. E, contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, ad affidarsi di più a tale fonte non sono le regioni montuose, bensì quelle attraversate da numerosi fiumi. Alcune stime ritengono tra l’altro che il potenziale idroelettrico complessivo del Pianeta sia ben più alto rispetto a ciò che oggi viene sfruttato: si parla infatti di circa 15mila terawattora, ovvero il triplo di ciò che viene prodotto attualmente.

La diga di Detroit, nell’Oregon. L’idroelettrico è la prima fonte rinnovabile a livello globale, con 4.418 TWh generati nel 2020.

Una nuova frontiera: l’energia delle maree

L’idroelettrico è solo uno dei modi in cui l’uomo sfrutta (o intende sfruttare in futuro) l’acqua al fine di produrre energia. Un esempio, in questo senso, è dato dalla cosiddetta tidal energy, ovvero l’energia maremotrice. Il cui potenziale, in alcune aree dell’Europa settentrionale in particolare, è potenzialmente gigantesco, ma che in Nuova Scozia, in Canada, potrebbe rappresentare un’autentica rivoluzione.

In fondo alla baia di Fundy, braccio di mare che si allunga sulla costa atlantica della nazione nord-americana, si trova il Minas Basin, nel quale si registrano le maree più ampie al mondo, con un “tidal range” medio di 16,8 metri. Una risorsa energetica potenzialmente enorme: nella baia entrano ed escono due volte al giorno 115 miliardi di tonnellate di acqua. Sfruttare tale moto permetterebbe, secondo le stime, di raggiungere una potenza installata di circa 7 gigawatt di energia. Pari a quella di mille grandi pale eoliche offshore.

L’acqua, infatti, è molto più performante dell’aria, grazie alla sua maggiore densità. Un business intuito dall’impresa scozzese Sustainable Marine, che ha annunciato proprio nel mese di maggio del 2022 di aver immesso nella rete elettrica i primi kilowatt prodotti grazie a un sistema di pale idroeoliche installato nell’area.

L’acqua come filo conduttore della storia dell’uomo

C’è qualcosa che accomuna le poleis greche e l’impero ottomano, l’Unione sovietica e la Cina di Xi Jinping, l’Italia durante il Ventennio e le frenetiche metropoli statunitensi. Queste civiltà, come tutte le civiltà umane in qualsiasi epoca e a ogni angolo del pianeta, si sono dovute organizzare per gestire la risorsa acqua. Una risorsa indispensabile per la sopravvivenza e per qualsiasi attività economica, dai trasporti al turismo, passando per l’agricoltura e l’allevamento. Una risorsa che l’uomo non può creare, ma soltanto provare a governare attraverso soluzioni tecnologiche inevitabilmente imperfette, a loro volta figlie di un patto sociale.

Chi vuole fare un salto nel passato, per rileggerlo alla luce del rapporto tra uomo e acqua, trova un lungo e affascinante excursus nel libro Acqua. Una biografia di Giulio Boccaletti. Volendo stabilire una data di nascita del legame indissolubile tra uomo e acqua, bisognerebbe collocarla nel Neolitico, quando le prime comunità della Mezzaluna fertile iniziarono a praticare l’agricoltura diventando sedentarie. L’antica agricoltura a secco, cioè quella che faceva affidamento solo sulle piogge, poteva produrre circa 600 chili di cereali per ettaro: una resa che si moltiplica fino a 2 tonnellate per ettaro grazie all’irrigazione e alle coltivazioni multiple, centuplicando l’apporto calorico (e quindi le possibilità di sostentamento) rispetto all’allevamento al pascolo.

Le prime città stato sumeriche sono descritte come civiltà fluviali perché si svilupparono lungo le rive del Tigri e dell’Eufrate, così come poi l’Egitto lungo il Nilo e gli stati di Xia e Shang lungo il fiume Giallo. Sarebbe semplicistico – puntualizza Boccaletti – affermare che lo Stato, inteso come istituzione, sia nato allo scopo di governare i fiumi. Ma ciò non toglie che, una volta stabilitesi in via stanziale, le persone fossero in qualche modo “costrette” a collaborare per governare l’acqua a proprio vantaggio.

Il Tigri e l’Eufrate, per esempio, raggiungevano la loro portata massima in primavera con la fusione della neve ad alta quota: le inondazioni dunque avvenivano nel momento sbagliato per l’agricoltura, perché i cereali erano già pronti per il raccolto. Cosa fecero, allora, le comunità del luogo? Approfittarono del fatto che i sedimenti depositati dai fiumi in pianura avessero alzato il suo letto, creandogli attorno degli argini naturali. Scavarono dunque brevi canali di irrigazione, abbastanza profondi da poter contenere le piene e intrecciati tra loro in modo tale da creare campi di trenta o quaranta ettari disposti lungo il fiume. Era un sistema molto laborioso perché imponeva di dragare ripetutamente i canali, scegliere le colture più idonee, costruire dighe per alzare il livello dell’acqua quando il flusso era troppo basso, arare i campi. La popolazione dunque dovette organizzarsi, stabilire un calendario condiviso, dare a ciascuno un compito specifico, razionare il cibo. Le maggiori rese agricole favorirono la crescita demografica, così i villaggi diventarono città e le città divennero sempre più grandi.

Tigri ed Eufrate
Il Tigri e l’Eufrate © Wikimedia Commons

È da qui che arriva la nostra civiltà. Tendiamo a dimenticarcene, perché viviamo in ambienti altamente antropizzati in cui abbiamo l’impressione che la natura, acqua compresa, sia al nostro servizio. Ma in realtà è vero proprio il contrario. Se i nostri insediamenti sono organizzati in un determinato modo, è perché quel modo si è rivelato il più funzionale per poter gestire le risorse che il pianeta ci offre.

Prendiamo una città come Milano, capitale economica e finanziaria d’Italia, al centro di un agglomerato urbano che – se si considera l’intero territorio della città metropolitana, più la provincia di Monza e Brianza – raggiunge i 5 milioni di persone. Ebbene, Milano non è attraversata da un grande fiume come Roma e Parigi, ma gode comunque di una grande abbondanza di acque superficiali e sotterranee. Questo è uno dei motivi per cui, dal primo millennio avanti Cristo e dalla seconda età del ferro, i celti e poi i romani si stabilirono nel suo territorio, dando inizio alla sua storia.

Vettabbia Milano
La Vettabbia a Milano © Yorick39/Wikimedia Commons

La Mediolanum romana, molto diversa da quella che conosciamo oggi, era attraversata da un articolato sistema di vie d’acqua che nel Medioevo furono poi trasformate nei Navigli. “In età romana, la pianificazione stessa della città nacque e si sviluppò di pari passo con la gestione delle acque e delle vie d’acqua”, spiega a LifeGate l’archeologa Ilaria Frontori. “Sappiamo per esempio che i romani regimarono, cioè strutturarono, incanalarono o – in alcuni casi – deviarono i fiumi e torrenti per portarli vicino alla città e sfruttarli a fini diversi. A ovest per esempio incanalarono l’Olona e crearono una deviazione artificiale, la Vepra o Vetra, per farla arrivare alla zona che ancora oggi ricordiamo come piazza Vetra. Mentre a nord due torrenti, il Seveso e il Nirone, furono incanalati lungo la cinta muraria, per costituirne il fossato difensivo. A sud tutto questo sistema sfociava nella Vettabbia, che è un altro fiume che ancora oggi esiste, e questa Vettabbia doveva fungere sia da scolmatore di tutto questo sistema sia da collegamento con il Lambro, il Po e di conseguenza con l’Adriatico e il Mediterraneo”.

Le fonti documentarie o storiche ci hanno trasmesso poco o nulla di questa parte fondamentale della storia milanese. Le nostre conoscenze derivano soprattutto dagli scavi che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni, con parecchie scoperte inaspettate nei cantieri di metropolitane, parcheggi e palazzi. Reperti preziosi che gli archeologi hanno studiato e interpretato, per poterli restituire alla cittadinanza.

Diplomazia dell’acqua. Le risorse idriche come strumenti di pace

Una notizia particolarmente positiva, che arriva mentre il mondo si chiede come affrontare gli sconvolgimenti geopolitici ed energetici dipesi dalla guerra in Ucraina. L’invasione della nazione europea era iniziata solo da pochi giorni, e una delle prime manovre dell’esercito russo fu quella di distruggere la diga di Kherson. Una sorta di vendetta, visto che era stata costruita dall’Ucraina nel 2014 per ridurre drasticamente (si parla dell’80 per cento) l’approvvigionamento idrico della Crimea, appena annessa dalla Russia stessa.

È soltanto uno degli innumerevoli episodi in cui l’acqua è stata usata come arma. Per la precisione, il Water Conflict Chronology censisce 1.300 conflitti negli ultimi 4.500 anni in cui le risorse idriche sono coinvolte a vario titolo. La loro frequenza risulta in aumento negli ultimi anni: si è passati dai 22 del 2000 ai 127 del 2021. Un paradosso, perché un elemento che garantisce la vita viene piegato agli interessi delle guerre, cioè alla sua stessa negazione. E non è soltanto un problema dei paesi in via di sviluppo, come forse viene spontaneo pensare. Nell’estate del 2021 alcuni proprietari terrieri dell’Oregon (legati, sembra, ad ambienti di estrema destra) hanno minacciato di abbattere le recinzioni e prendere il controllo degli impianti di irrigazione nel bacino del fiume Klamath, al confine con la California. In una zona flagellata dalla siccità.

La gestione del fiume Senegal: un esempio di cooperazione virtuosa

Poi, in Africa, c’è il fiume Senegal, un maestoso corso d’acqua lungo 1.800 chilometri, con un bacino di 337.500 chilometri quadrati. Anche in questo caso si tratta di una risorsa cruciale per la produzione agricola, perché la zona è arida e densamente popolata (con 3 milioni e mezzo di abitanti). E a complicare le cose si aggiunge il fatto che il fiume attraversi tre stati diversi – Mali, Mauritana e Senegal, appunto – e i suoi affluenti ne lambiscano un quarto, la Guinea. Eppure, da anni la sua gestione è pacifica.

Mappa del fiume Senegal
Mappa del fiume Senegal © Kmusser/Wikimedia commons

La differenza tra questo esempio e i precedenti potrebbe essere riassunta in una parola: diplomazia. La cooperazione per la gestione del fiume Senegal affonda le sue radici addirittura nell’epoca coloniale ed è stata suggellata da 13 diversi trattati internazionali, incluso quello che nel 1972 – nel bel mezzo di una gravissima ondata di siccità – sancisce la nascita dell’Organisation pour la mise en valeur du fleuve Senegal (Organizzazione per la valorizzazione del fiume Senegal, Omvs). Da allora, una commissione monitora il corso del fiume, regolamenta le reti elettriche e lo sviluppo industriale. E la proprietà delle dighe – fatto più unico che raro – è condivisa tra Mauritania, Mali e Senegal.

La diplomazia si costruisce anche in occasioni come il World water forum, un summit internazionale pubblico-privato organizzato da un think tank chiamato World water council. La nona edizione si è tenuta a marzo 2022 proprio in Senegal, a Dakar. “L’importanza di questi forum è data dall’urgenza crescente di trovare soluzioni alla molteplicità dei problemi legati all’acqua: dalla gestione dei rischi climatici fino alle infrastrutture sanitarie e ai grandi impianti di gestione come canali, dighe, sistemi di pompaggio, depositi”, racconta il giornalista ambientale Emanuele Bompan, presente ai negoziati. “La principale debolezza di questo forum a mio avviso sta nella scarsa partecipazione della società civile, dovuta ai prezzi d’ingresso abbastanza alti. L’Italia si era candidata per ospitare l’edizione 2024 facendo leva proprio sull’apertura a ong e movimenti, ma ha perso. Probabilmente ci riproverà per il 2026”.

A Dakar si è discusso di come fornire risposte alle necessità infrastrutturali, e la strada che è sembrata più promettente è quella degli investimenti pubblico-privati. “Qui scontrano due mondi”, spiega Bompan. “Da un lato c’è quello capitalista che vede gli investimenti nell’acqua come commodities e la sua finanziarizzazione come un’opportunità di crescita: in pratica, io vendo infrastrutture e incasso denaro da reinvestire in altre infrastrutture. L’approccio opposto prevede sempre la partecipazione del privato, considerando però l’acqua come un bene pubblico. Ciò significa che l’impresa può fare profitti e pagare stipendi e bonus ma non staccare dividendi per gli azionisti”. Insomma, bisogna trovare la formula giusta per riuscire a realizzare le infrastrutture, senza finire preda delle storture legate a una privatizzazione senza freni.

Mancanza di lungimiranza e clima che cambia: il caso di Giacarta

Storture che hanno condannato la capitale dell’Indonesia, Giacarta. O meglio, ex-capitale, visto che è stata ufficialmente sostituita da Nusantara, una metropoli costruita da zero che verrà inaugurata nel 2024. Incurante del fatto che il 40 per cento del territorio urbano sia collocato al di sotto del livello del mare, infatti, lo sviluppo caotico di Giacarta dell’ultimo decennio si è basato sulla continua estrazione dell’acqua di falda. A furia di scavare sempre più in profondità, la porzione settentrionale della città è lentamente sprofondata. E le inondazioni sono diventate sempre più frequenti.

L’auspicio è che eventi come questo, alla pari di quelli organizzati dalle Nazioni Unite, “riescano a riportare al centro dell’attenzione della diplomazia la questione idrica che è finita un po’ sotto traccia, dopo il grande successo del 2010 con l’approvazione del diritto all’acqua. E che oggi diventa fondamentale proprio perché l’acqua è la massima espressione dei cambiamenti climatici, nel suo eccesso, nella sua assenza, nell’innalzamento del livello dei mari e nella fusione di calotte polari e ghiacciai”, continua Bompan. Proprio a maggio 2022 hanno fatto il giro del mondo le immagini impressionanti di un ponte nel Pamir, in Pakistan, che si accartoccia letteralmente su sé stesso, travolto da una violenta massa d’acqua. La causa scatenante sta proprio nell’interminabile ondata di caldo torrido che ha flagellato il subcontinente indiano per tutta la primavera, facendo collassare il ghiacciaio Shishper.

Ora che vediamo a occhio nudo quanto il clima metta a repentaglio una delle risorse più preziose che abbiamo, dovremmo anche capire quanto una gestione oculata, collaborativa e pacifica sia la strada più conveniente per tutti. Esempi come il fiume Senegal appaiono ancora come delle felici eccezioni, ma la verità – sottolinea Bompan – è che una vasta letteratura scientifica spiega per filo e per segno come governare i bacini idrici, anche transfrontalieri, ed esistono trattati delle Nazioni Unite che aiutano a dirimere le tensioni.

Il nodo sta sempre nell’esercizio del potere. Se le parti non hanno intenzione di negoziare, anche i migliori modelli non servono a nulla. Per questo è importante che i cittadini facciano pressione per gestire al meglio la risorsa acqua, evitando i conflitti.

Emanuele Bompan, giornalista

Abbiamo gli strumenti in mano, perciò, per gestire l’acqua in modo sostenibile. Abbiamo dunque ciò che serve per salvaguardare tale risorsa e, con essa, la vita sulla Terra. A patto che a prevalere sia l’interesse di tutti.

Impronta idrica, un indicatore che ci aiuta ad agire responsabilmente

Si parla sempre di più di impronta idrica. Ma a che cosa si riferisce e perché è così importante parlarne? Tutto ciò che utilizziamo, vendiamo, acquistiamo, indossiamo e mangiamo richiede una certa quantità di acqua per essere prodotto. Il concetto di impronta idrica è stato sviluppato nel 2002 da Arjen Y. Hoekstra, professore in water management presso l’università di Twente, nei Paesi Bassi, proprio per quantificare il volume totale di acqua dolce utilizzato (direttamente e indirettamente) per produrre i beni e i servizi consumati da un individuo, una comunità o un’azienda. L’impronta idrica può essere misurata per un singolo processo (come la coltivazione del frumento), per un prodotto (come un paio di jeans) o per un’intera azienda o nazione.

L’impronta idrica è una misura dell’appropriazione da parte dell’umanità di acqua dolce in volumi di acqua consumata e/o inquinata.

Water Foodprint Network

La sua caratteristica principale è quella di essere multidimensionale. Ciò significa che non indica soltanto quanta acqua viene usata per produrre (ad esempio) un certo alimento, ma anche come, distinguendo tra evaporazione dell’acqua piovana, superficiale o sotterranea. L’analisi quantitativa viene combinata con quella qualitativa, tenendo presente se e quanto la produzione di quell’alimento abbia un impatto inquinante sulle fonti idriche. Considera anche l’ubicazione delle risorse idriche che vengono sfruttate, nonché le tempistiche. Per questo motivo, l’impronta idrica consente il confronto tra paesi, nel tempo e tra diversi settori (industriale, domestico e agricolo).

Alla base di concetto di impronta idrica c’è la distinzione tra le sue tre componenti: acqua verde, acqua blu e acqua grigia. Insieme, esse delineano la fonte di acqua consumata e il volume di acqua dolce necessaria per l’assimilazione degli inquinanti. La gestione, gli impatti ambientali e il costo-opportunità totali di una certa produzione sull’acqua sono dati dalla somma di queste tre componenti.

Acqua verde

L’acqua verde non appartiene a nessuna superficie o corpo idrico sotterraneo: è acqua piovana che viene immagazzinata nelle piante e nel suolo sotto forma di umidità. È particolarmente rilevante per i prodotti agricoli, orticoli e forestali.

Acqua blu

È l’acqua proveniente dai corpi idrici superficiali (fiumi, laghi, estuari ecc.) e dalle falde acquifere sotterranee. L’agricoltura irrigua, l’industria e l’uso domestico dell’acqua possono avere una considerevole impronta idrica blu.

Acqua grigia

È l’acqua inquinata dai processi produttivi. Nello specifico, l’acqua grigia si riferisce alla quantità di acqua dolce necessaria per assimilare gli inquinanti così da soddisfare specifici standard locali di qualità dell’acqua. Viene considerato l’inquinamento scaricato in una risorsa di acqua dolce direttamente, attraverso tubi di scarico, o indirettamente, attraverso il deflusso o la lisciviazione dal suolo, da superfici impermeabili o altre fonti diffuse. La produzione di certi prodotti, come il cuoio o pellame, ha un’alta impronta idrica grigia.

Perché è importante parlare di impronta idrica

L’acqua che viene utilizzata per la produzione delle merci in ogni fase della filiera – di un capo di abbigliamento, di un alimento o di un medicinale, per esempio – è acqua invisibile, nascosta e, spesso, i cittadini non ne hanno percezione, tant’è che si parla di acqua virtuale per identificarla e che è quindi “virtualmente” contenuta in esse.

Come affermato dal professor Arjen Y. Hoekstra, “L’interesse per l’impronta idrica è radicato nel riconoscimento che gli impatti umani sui sistemi di acqua dolce possono essere in definitiva collegati al consumo umano e che questioni come la carenza d’acqua e l’inquinamento possono essere meglio comprese e affrontate considerando la produzione e le catene di approvvigionamento nel loro insieme”.

Considerare non solo l’uso diretto (visibile) di acqua, ma anche il consumo indiretto (invisibile) come “incorporato” nei prodotti che usiamo ogni giorno, è importante perché ci permette di capire come e quanto le scelte di produzione e le nostre scelte di consumo possano influire sulle risorse naturali. Non solo: considerando anche il ruolo delle acque grigie, l’impronta idrica ci segnala quali prodotti, per esempio, impattino maggiormente sull’ambiente anche in termini di inquinamento. Lo scopo dell’impronta idrica è, quindi, quello di indicare la pressione che esercitiamo sulle nostre risorse di acqua dolce e aiutarci nelle nostre scelte di consumo come cittadini e di produzione come imprese.

La valutazione dell’impronta idrica permette:

  • ai governi di determinare quali normative e strategie ambientali applicare per una gestione sostenibile delle risorse idriche di un Paese, quantificandone l’efficacia;
  • alle aziende di scoprire dove l’acqua è importante nella produzione o nella propria catena di approvvigionamento e come si collega ai prodotti che stanno realizzando, così da attuare buone pratiche per la riduzione della risorsa stessa;
  • ai cittadini di aumentare la consapevolezza sui temi della sostenibilità idrica, rispondendo a domande come cosa posso fare per ridurre la mia impronta idrica? Quali comportamenti di consumo posso attuare o evitare per avere un impatto più limitato sull’ambiente?

Governi, produttori e consumatori hanno tutti la stessa responsabilità nei confronti della contabilizzazione dell’uso delle risorse idriche del pianeta.

Water footprint implementation, in collaborazione con il Water footprint network, ha sviluppato uno strumento di valutazione dell’impronta idrica: https://www.waterfootprintassessmenttool.org/

Quanta acqua è nascosta nel nostro cibo e nei nostri vestiti

Misurare l’impronta idrica di un prodotto significa capire come la sua produzione, e conseguentemente il suo consumo, contribuisca allo stress idrico mondiale o di un determinato paese.

In questo calcolo si considerano tutte le fasi di produzione e approvvigionamento. Per esempio, come riportato dal Water footprint network, il conteggio dell’impronta di un paio di jeans comprende:

  • coltivazione del cotone;
  • sgranatura e filatura delle fibre;
  • tessitura;
  • cucitura;
  • lavorazione a umido del tessuto per avere il prodotto finito.

  • Cioccolato: 17.196 l/kg
  • Pellame di bovino: 17.000 l/kg
  • Carne bovina: 15.415 l/kg
  • Cotone: 10.000 l/kg
  • Carne ovina/caprina: 8.763 l/kg
  • Carne di maiale: 5.988 l/kg
  • Carne di pollo: 4.325 litri per chilogrammo
  • Legumi: 4.055 l/kg
  • Uova: 3.265 l/kg
  • Formaggio vaccino: 3.178 l/kg
  • Riso: 2.497 l/kg
  • Pasta: 1.849 l/kg
  • Birra: 1.420 l/kg
  • Pizza: 1.259 litri per pizza
  • Latte: 1.020 l/kg
  • Frutta: 962 l/kg
  • Vino: 610 l/kg
  • Pomodori: 214 l/kg

Conoscere questo dato permette a ciascuno di noi di fare scelte consapevoli, limitando il consumo di quei beni e quegli alimenti che hanno un impatto particolarmente elevato. Come la carne, già citata, ma non solo. Guardando questa lista, per esempio, possiamo concludere che una pastasciutta va preferita a un risotto, un calice di vino a un boccale di birra, una cena in pizzeria a una in hamburgeria. Anche il vestiario ha un’impronta idrica considerevole: prima di fiondarci a comprare un capo nuovo, dunque, possiamo provare a ripararne o riadattarne uno che abbiamo già; oppure rivolgerci a un marketplace di usato; o ancora, scegliere un marchio che abbia dimostrato attenzione a questo tema.

Cosa fa Coop per preservare l’acqua

Come anticipato, l’impronta idrica considera sia un’analisi quantitativa dell’acqua utilizzata per la produzione di un determinato bene o servizio, sia un’analisi qualitativa, ossia conteggia il volume di acqua necessario ad assimilare gli inquinanti rilasciati durante la fase di produzione. Insieme alla riduzione della disponibilità idrica è, quindi, da considerare anche l’impronta inquinante di tutte le attività di produzione e consumo umane.

Secondo il Wwf, il solo settore alimentare produce una percentuale di sostanze organiche inquinanti dell’acqua che vanno dal 40 per cento nei paesi ad alto reddito al 54 per cento nei paesi a basso reddito dove, tra l’altro, il 70 per cento dei rifiuti industriali non è trattato. L’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi, poi, porta a un grave deterioramento delle risorse di acqua dolce in molte aree agricole intensamente sfruttate.

Per non parlare di plastica e microplastica che, ad oggi, rappresenta il primo agente inquinante dei nostri mari: secondo Greenpeace, i materiali di plastica rappresentano tra il 60 e l’80 per cento dei rifiuti marini, mentre secondo l’ultimo rapporto Plastic rivers di Earthwatch Europe e Plastic oceans UK, circa l’80 per cento di essi viene trasportato dai fiumi, dove gli involucri per alimenti sono il secondo articolo più visibile nelle acque dolci del continente, seguiti da pacchetti di sigarette usati.

Tutelare la risorsa acqua, quindi, non significa solo risparmiarla, ma anche mettere in campo strategie per la salvaguardia dall’inquinamento.

Oggi più che mai le aziende devono comprendere la loro dipendenza dall’acqua e la necessità di gestire i rischi legati alla sua scarsità e all’inquinamento. In altre parole, l’impronta idrica merita di entrare nelle loro agende proprio come la carbon footprint (impronta di carbonio). Dati alla mano, infatti, possono mettere in atto strategie per rendere i prodotti più sostenibili per l’ambiente e per le persone. Il che è un vantaggio sia in termini di reputazione, perché i consumatori sono sempre più sensibili, sia in termini di competitività, perché risparmiare risorse abbatte i costi di produzione.

Coop negli anni ha concretizzato il proprio impegno per usare con consapevolezza la risorsa acqua, nella produzione e lungo l’intera catena di approvvigionamento. Questo percorso prevede di limitare gli sprechi, ridurre i rifiuti e incrementare il risparmio, incentivare il riuso e il riciclo delle risorse idriche in agricoltura, nonché lavorare per un’acquacoltura e di una pesca rispettosa degli ecosistemi marini, puntando – in prospettiva – all’eliminazione totale degli antibiotici.

Le iniziative di Coop

  • Dal 2010 Coop ha promosso la campagna “Acqua di casa mia” per informare soci e consumatori sullo stato delle acque di rubinetto, sulle caratteristiche delle acque minerali e sugli sprechi.
  • Nei punti vendita si promuove l’acqua di rubinetto: accanto alle mappe territoriali dell’acqua pubblica e alle bottiglie di minerale, sono state aggiunte caraffe, gasatori, filtri e tutti gli strumenti necessari a migliorarne il sapore.
  • Coop ha avviato una politica di riduzione dell’impatto ambientale delle bottiglie di plastica di acqua minerale a marchio, riducendone la grammatura e utilizzando plastica riciclabile, con un risparmio di 3.300 tonnellate all’anno di anidride carbonica. La bottiglia di acqua Monte Cimone è la prima in Italia riciclata al 100 per cento e con il tappo non separabile.
  • Nel 2019 quasi un milione di bottiglie Coop utilizzate durante il Jova Beach Party di Jovanotti è stato trasformato in filato per le magliette da destinare ad associazioni sportive giovanili dei diciassette comuni che hanno ospitato la tournée.
  • Coop è l’unico marchio italiano della grande distribuzione organizzata ad aderire alla Pledging campaign, con cui l’Unione europea promuove l’utilizzo della plastica riciclata, e alla Circular plastic alliance, voluta dalla Commissione europea per ridurre la produzione di nuove materie plastiche e incentivare il riciclo. Inoltre, è stata premiata dal Consorzio nazionale imballaggi (Conai) per l’eco-design e la sostenibilità di molti dei suoi imballaggi.
  • Già da prima che entrasse in vigore la legge che vietava le buste di plastica per la spesa, nel 2009, Coop, oltre ad aver introdotto i sacchetti biodegradabili, ha promosso la sostituzione degli usa e getta con una serie di shopper riutilizzabili in vari materiali come polipropilene, cotone e juta.
  • Da dicembre 2019, tutti gli imballaggi della linea Viviverde sono riciclabili, riutilizzabili o compostabili, così come le capsule del caffè Fior Fiore. I flaconi, le vaschette di detersivo, le confezioni di pollo bio e latte fresco, spremute e the pronti, tubi Igiene Baby e concimi, tutti a marchio Coop, contengono percentuali variabili dal 25 al 100 per cento di plastica riciclata.
  • Dal 2019, è attiva la campagna “Un mare di idee per le nostre acque” in collaborazione con il progetto Plasticless di LifeGate.
  • Coop ha vietato le microplastiche fino ai cinque millimetri di diametro in tutti i cosmetici, dentifrici e detergenti a marchio Viviverde. Ha inoltre escluso dalle formulazioni delle creme solari alcuni filtri per proteggere dai raggi ultravioletti, come l’octinoxate e l’oxybenzone, considerati responsabili della diminuzione della quantità di fitoplancton.
  • Per limitare il trasporto su ruota di acqua in bottiglia, Coop ha aumentato le sorgenti da cui si approvvigiona, avvicinandole ai supermercati sul territorio e riducendo gli spostamenti.
  • Coop promuove l’agricoltura le tecniche di agricoltura di precisione (mappatura delle semine, irrigazione a goccia ecc.) o idroponica. Oltre a risparmiare acqua ed energia, esse riducono (o addirittura azzerano) il ricorso a pesticidi chimici, in particolare il glifosato.
  • I pescatori che riforniscono Coop hanno sostituito le cassette di polistirolo con quelle riutilizzabili.
  • Le conserve di pesce, i prodotti di gastronomia e surgelati, nonché trote, branzini, orate, rombi chiodati e salmoni d’allevamento a marchio Coop arrivano da pesca sostenibile certificata, che garantisce la corretta gestione degli ecosistemi marini e una pesca rispettosa dei mari e delle popolazioni costiere che da essi dipendono. Inoltre, Coop aderisce al progetto Friends of the sea (Fos).
  • Coop salvaguarda i delfini durante la pesca del tonno, come dimostra il marchio Dolphin safe. Da anni ha tolto dagli scaffali il tonno rosso, specie pregiata ma a rischio di estinzione perché sovrasfruttato. Sono vietati per il tonno a marchio Coop l’utilizzo di palamiti, reti impiglianti, la pesca illegale, il trasbordo in mare e il pescato da pescherecci inseriti in black list ufficiali.
  • Coop ha avviato una campagna di sensibilizzazione e informazione verso i consumatori per evitare l’immersione degli animali vivi in acqua bollente, mentre nei negozi non si vendono più crostacei vivi su ghiaccio.

10 consigli utili (più uno) per non sprecare l’acqua

L’acqua è una delle risorse fondamentali per la sopravvivenza umana, un bene primario, universale, ma spesso dato per scontato: nei paesi occidentali, la percezione prevalente nei cittadini è che sia una risorsa illimitata e sempre a portata di mano.

Secondo gli ultimi dati Istat, l’Italia si colloca in seconda posizione tra i paesi dell’Unione europea per il maggior prelievo di acqua per uso potabile pro capite. Ogni giorno consumiamo in media 215 litri a testa per attività che riteniamo, a ragione, di prima necessità, come fare la doccia o scaricare lo sciacquone del water, ma che spesso provocano uno spreco considerevole se pensiamo che una doccia di cinque minuti consuma fino a 90 litri. Spesso, il facile e immediato accesso all’acqua ci fa dimenticare quanto potremmo fare per limitare il suo uso.

Ecco, allora, 10 consigli, più uno, per limitare il consumo di acqua nelle nostre abitazioni, giorno dopo giorno.

1. Chiudi il rubinetto quando non ti serve

Potrebbe sembrarti banale, ma la prima regola da adottare ogni giorno per risparmiare acqua in casa è chiuderla mentre ti lavi i denti, ti insaponi i capelli, ti fai la barba o ti depili. Il rubinetto del bagno ha una portata di 10 litri al minuto e lasciato aperto per tre minuti mentre ti spazzoli i denti, per esempio, ti farà utilizzare fino a 30 litri di acqua potabile senza che tu ne abbia realmente bisogno. Mentre ti radi, per risciacquare il rasoio, puoi riempire il lavandino o una bacinella con poca acqua. Ricorda: se tenessimo aperto il rubinetto solo per il tempo realmente necessario, potremmo risparmiare circa 2.500 litri di acqua pro capite all’anno.

2. Meglio la doccia di cinque minuti rispetto al bagno

Per riempire una vasca da bagno si consumano in media 150 litri di acqua, circa tre volte in più di quelli che servono per farsi una doccia: quest’ultima ti farà risparmiare fino al 75 per cento di acqua. Ricorda, però, che anche il tempo che utilizzi per lavarti può fare la differenza: ogni minuto che passi sotto la doccia consumi dai 6 ai 10 litri, in base al modello di soffione. Rimanere sotto il getto tiepido della doccia a volte è molto rilassante ma, se vuoi risparmiare acqua, cerca di evitare docce troppo lunghe.

3. Installa aeratori frangigetto sui rubinetti

I rubinetti che si trovano ora in commercio sono già in linea con le esigenze di risparmio idrico. Su quelli che già possiedi in casa, invece, puoi pensare di installare i frangigetto o aeratori: dispositivi che, attraverso un sistema di ventilazione, riducono la quantità d’acqua utilizzata fino al 50 per cento, senza comprometterne la resa e il comfort. Semplici da reperire e installare e piuttosto economici, i frangigetto sono in grado di far risparmiare fino ai 6mila litri di acqua ogni anno a una famiglia di tre persone.

4. Scarica il wc con parsimonia

Non ci crederai, ma oltre il 30 per cento dei consumi di acqua di casa proviene dallo scarico del wc. Le cassette del wc, infatti, ne contengono dai 10 ai 12 litri che spesso vengono utilizzati per scaricare anche un singolo fazzoletto. Utilizzare il proprio scarico con parsimonia, quindi, è un modo per non sprecare acqua. Se non l’hai già fatto, installa una cassetta a doppio pulsante: questi modelli permettono, infatti, di scegliere tra un getto da 6 e uno da 12 litri a seconda delle necessità. Ipotizzando cinque scarichi a testa al giorno, una famiglia di quattro persone risparmia fino a 26mila litri di acqua all’anno. Se non vuoi cambiare la tua cassetta a getto unico, puoi inserire al suo interno una bottiglia piena in modo da ridurre il volume di acqua scaricato ogni volta.

5. Fai attenzione alle perdite

Un rubinetto che perde 90 gocce al minuto spreca dai 30 ai 100 litri al giorno e fino ai 4mila litri all’anno (fonte: Publiacqua). Per questo è molto importante controllare di non avere perdite in casa, sia dai rubinetti che dallo scarico del wc. Farlo è molto semplice. Durante la notte, puoi posizionare sotto ai rubinetti un contenitore da controllare la mattina seguente. Per il wc, invece, puoi inserire del colorante alimentare: residui di colore sul fondo indicheranno una perdita. Anche il controllo periodico della bolletta dell’acqua ti potrà segnalare velocemente eventuali anomalie.

6. Usa gli elettrodomestici in modo efficiente

L’uso intelligente di un elettrodomestico inizia dalla fase di acquisto: lavatrici e lavastoviglie di nuova generazione, oltre ad appartenere a classi energetiche più efficienti, hanno funzionalità ad hoc come i sensori che rilevano il peso della biancheria e il grado di sporco per determinare la quantità ottimale di acqua e detersivo. Utilizza lavatrice e lavastoviglie sempre a pieno carico e opta per il lavaggio eco: a fronte della lentezza (impiegano da tre a cinque ore), utilizzano meno acqua rispetto al ciclo rapido perché la scaldno più lentamente e a temperature più basse. Ricorda anche di non effettuare il prelavaggio né per la lavatrice né per la lavastoviglie: in caso di macchie sugli indumenti, puoi pretrattare i capi mettendoli in ammollo; per le stoviglie, puoi toglie i residui di cibo con un fazzoletto. Secondo una ricerca Ipsos, se scegli di non sciacquare le tue stoviglie, risparmierai fino a 38 litri di acqua a ogni lavaggio.

7. Lava le verdure in ammollo

Invece di lavare frutta e verdura sotto l’acqua corrente, riempi un contenitore o una bacinella con il quantitativo di acqua necessario e lasciale in ammollo per un po’, utilizzando il getto d’acqua che scorre solo per un veloce risciacquo finale. Questo metodo consente a una famiglia di tre persone un risparmio di circa 4.500 litri all’anno.

8. Riutilizza l’acqua più volte

Il riutilizzo è una delle 4R della sostenibilità. Perché, allora, non cercare di riutilizzare anche l’acqua in ambiente domestico? Ti stai chiedendo come? Innanzitutto, pensa al tuo condizionatore e ai litri di acqua di condensa che rilascia durante le giornate più calde. Quell’acqua, priva di calcare, può essere usata nel ferro da stiro, per lavare i pavimenti o per pulire l’auto senza lasciare aloni. Con l’acqua che avanza dal lavaggio di frutta e verdura, invece, puoi innaffiare le piante. Ma c’è un modo anche per riutilizzare l’acqua di cottura della pasta: può tornare utile per il prelavaggio delle stoviglie, come brodo di base per la preparazione di minestre e zuppe o per cuocere le verdure al vapore.

9. Raccogli l’acqua

L’acqua del rubinetto non è l’ideale per la cura delle piante perché le sostanze contenute al suo interno potrebbero danneggiarle. Senza dubbio, le più consigliabili a questo scopo sono l’acqua piovana, quella filtrata e quella distillata (senza profumo). Raccogliere l’acqua quando piove in appositi recipienti, quindi, non solo ti permetterà di non sprecare acqua, ma anche di irrigare le tue piante con quella più adatta a farle crescere sane e forti. Ma c’è un altro momento utile: spesso, infatti, facciamo scorrere il rubinetto in attesa che l’acqua diventi calda; inizia a raccogliere quella che esce ancora fredda e utilizzala per i più svariati scopi.

10. Fai attenzione a quando (e come) annaffi le piante

Prima regola: annaffia le piante del giardino, del balcone o di casa nelle ore più fresche, di sera o all’alba. Senza la luce del sole, infatti, l’acqua evapora più lentamente e viene assorbita completamente dalla terra; inoltre, in queste ore la pressione dell’acqua è inferiore, permettendo di risparmiarne diversi litri. Gli irrigatori automatici e programmabili sono preferibili all’irrigazione manuale tramite annaffiatoio o pompa, perché sono in grado di dosare meglio la quantità d’acqua necessaria. Se, poi, si opta per un’irrigazione a goccia, il risparmio va dal 40 al 70 per cento rispetto al classico tubo. Infine, è consigliabile aggiungere uno strato di pacciamatura intorno agli alberi e alle piante del tuo giardino per proteggerle dalla siccità e dall’arsura.

11. Chiudi il rubinetto centrale in periodi di assenza

Un’altra buona abitudine quando sei in partenza per le vacanze estive o, comunque, quando non sei in casa per periodi più o meno lunghi, è quella di chiudere il rubinetto centrale: in caso di guasti agli impianti potrai evitare di sprecare moltissima acqua, ma anche di provocare danni a mura e strutture.

La plastica in mare: uno dei più grandi problemi del nostro tempo

Purtroppo, però, spesso anche chi ha a disposizione una quantità sufficiente di acqua non può sentirsi garantito rispetto alla sua qualità. Oltre ad aver sprecato gigantesche quantità di risorse idriche, l’umanità ha spesso trattato con superficialità il problema dell’inquinamento. Secondo l’Unesco, sono ormai contaminati, a livelli più o meno gravi, “quasi tutti i principali fiumi in Africa, America Latina e Asia. Il carico di nutrienti, che è spesso associato al carico di agenti patogeni, è tra le fonti di inquinamento più diffuse”.

La stessa agenzia Onu aggiunge che “a livello globale, si stima che l’80 per cento di tutte le acque reflue industriali e urbane venga rilasciato nell’ambiente senza alcun trattamento previo, con effetti dannosi sulla salute umana e sugli ecosistemi. Questo rapporto è molto più alto nei paesi meno sviluppati, dove i servizi igienico-sanitari e le strutture per il trattamento delle acque reflue sono gravemente carenti”. Inoltre, un’analisi dell’Ocse del 2017 ha spiegato che “la gestione dei nutrienti in eccesso nel deflusso agricolo è considerata una delle criticità più diffuse legate alla qualità dell’acqua a livello globale”.

Le microplastiche: nemici invisibili e onnipresenti

A ciò si aggiunge poi il gigantesco problema di plastiche e microplastiche, che non riguarda soltanto i corsi d’acqua dolce, ma anche i mari di tutto il mondo. La produzione mondiale di plastica è passata dai 2,3 milioni di tonnellate del 1950 ai 448 milioni del 2015. E le previsioni parlano di un ulteriore aumento di qui alla metà del secolo. Ciò principalmente per tre motivi: il primo è legati ai nostri modelli di consumo, che nel corso del tempo si sono spostati dal riparare al gettare per riacquistare. Oggetti che, via via, per ragioni di costi, hanno visto la plastica imporsi come principale materia prima, ai danni di legno, vetro, cuoio, fibre tessili. La seconda ragione è invece legata all’aumento demografico previsto per i prossimi decenni. E infine l’abbandono progressivo di benzina e gasolio come combustibili per i trasporti spingerà probabilmente numerose compagnie a buttarsi sul business petrolchimico.

Nel mondo, dei circa 400 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno, quasi 9 milioni finiscano in mare. Residui di plastica sono stati trovati praticamente ovunque nei mari e negli oceani, dalla fossa delle Marianne ai poli. Gli ammassi di plastica in mare hanno formato delle vere e proprie isole, le cosiddette Plastic island o il Great garbage patch: enormi piattaforme di inquinamento galleggiante tra oceano Pacifico, Atlantico e Indiano.

Entro il 2050 il peso della plastica negli oceani supererà il peso complessivo degli animali marini.

Ciò nonostante, ad oggi l’umanità non è ancora in grado di immaginare una vita senza plastica. L’aumento della produzione ha fatto sì che, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Science advances nel 2017, tra il 1950 e il 2015 la produzione cumulativa di rifiuti primari e secondari sia stata pari a 6,3 miliardi di tonnellate. Di questi, circa il 12 per cento sono stati inceneriti e il 9 per cento sono stati riciclati. E il rimanente 79 per cento? Nessuna delle plastiche più comunemente usate fino a qualche anno fa e la maggior parte di quelle tuttora usate è biodegradabile. Di conseguenza tale quota di rifiuti, anziché decomporsi, si è accumulata nelle discariche o nell’ambiente naturale ed è destinata a rimanerci per centinaia di anni. Insomma, il 60 per cento di tutta la plastica finora prodotta dall’umanità è spazzatura. E minaccia i nostri ecosistemi.

Compresi quelli italiani. Un recente studio dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha rivelato come più del 63 per cento delle tartarughe marine presenti nel Mediterraneo abbia ingerito plastiche, mentre nel mar Tirreno la stessa sorte ha riguardato più del 50 per cento dei pesci analizzati. Il Mediterraneo “accoglie” ogni anno 229mila tonnellate di plastiche, l’equivalente di 500 container, provenienti principalmente da tre Paesi: Egitto, Italia e Turchia. Il nostro Paese è secondo per la produzione di rifiuti plastici riversati in mare, con ben cinque città tra le dieci più inquinanti per la plastica del bacino del Mediterraneo: Roma, che detiene il primato assoluto, Milano, Torino, Palermo e Genova.

Le soluzioni all’inquinamento prodotto dalle microplastiche, tuttavia, non mancano. Un esempio su tutti riguarda l’abbigliamento: uno studio canadese pubblicato all’inizio del 2021 ha rivelato che le particelle di plastica presenti nell’Artico, nel 73 per cento dei casi, provengono da fibre tessili artificiali, come nel caso del poliestere. Ad ogni lavaggio, infatti, i capi perdono progressivamente spessore, liberando negli scarichi microplastiche che finiscono nei fiumi, nei laghi e negli oceani. L’applicazione obbligatoria di filtri alle lavatrici permetterebbe in questo senso di trattenere buona parte delle particelle inquinanti, ma una soluzione ancor più efficace passerebbe per la sostituzione del poliestere con fibre naturali. Il che consentirebbe di preservare non solo i mari ma anche i bacini di acqua dolce, già sottoposti a un crescente stress legato alla crescita dei consumi.

Per arginare il problema servono, come detto, cambiamenti nelle abitudini e nei consumi. Ma anche le leggi (nazionali e comunitarie, assieme agli accordi internazionali) giocano un ruolo fondamentale. È per questo che le Nazioni Unite hanno inserito la tutela dei mari tra gli Obiettivi di sviluppo sostenibile con il Goal 14 – Vita sott’acqua.

Ma come trattare tutta la plastica che è già presente nei nostri mari? Una soluzione risiede nelle tecnologie innovative che, oggi, ci permettono di ripulire i mari dalla plastica grazie a quelle che possiamo definire vere e propri dispositivi “mangiaplastica”. Dal 2019, con il programma PlasticLess, LifeGate ha installato più di cento di questi nuovi dispositivi in diversi porti italiani grazie a una rete di persone e aziende che si sono unite nella sfida di ripulire i mari italiani dai rifiuti plastici. Una di queste è Coop con la campagna per l’ambiente Un mare di idee per le nostre acque che, nel 2022, giunge alla sua terza edizione.

Un mare di idee per le nostre acque, la campagna Coop per salvare i mari dalla plastica

Era il 2019 quando Coop ha lanciato la campagna Un mare di idee per le nostre acque, installando sul molo di Marina Genova a Sestri Ponente il primo Seabin: un cestino di raccolta dei rifiuti che galleggia in acqua di superficie e, posizionato in punti di accumulo come porti, marine o circoli, è in grado di catturare circa 500 chilogrammi di rifiuti all’anno, comprese le microplastiche da 5 a 2 millimetri di diametro e le microfibre da 0,3 millimetri. 

Il 7 giugno 2022, per il terzo anno consecutivo, la campagna Coop riparte proprio da Genova con tante novità e con il debutto di due nuovi dispositivi per la raccolta della plastica in mare, entrambi mai presentati fisicamente in Italia e disponibili oggi solo in altri cinque Paesi (Francia, Grecia, Italia, Canada e Usa): il Trash Collec’Thor e il Pixie Drone.

La prima tappa genovese è stata l’occasione anche per sensibilizzare su un dato clamoroso, rilevato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra): più del 70 per cento dei rifiuti nei mari italiani è depositato sui fondali e il 77 per cento è plastica. Per questo, il biologo marino Emilio Mancuso, presidente dell’associazione Verdeacqua, ha guidato una squadra formata da 4 sub professionisti del team di Tribù Diving Academy, un fotografo professionista e un altro biologo marino nonché video operatore subacqueo. Il team ha filmato i rifiuti ritrovati che verranno poi conferiti alle autorità preposte. L’attività è stata possibile grazie al supporto di SmartBay Santa Teresa, Scuola di Mare Santa Teresa e del Comune di Lerici. 

“Proteggere i nostri mari è un impegno che ci siamo assunti anni fa. Da un lato ci occupiamo di rendere la pesca il meno invasiva possibile aderendo alle varie certificazioni, riduciamo la plastica che utilizziamo negli imballaggi e che potrebbe finire in mare, alleviamo i nostri pesci nel rispetto dell’ecosistema che ci ospita. Accanto a questo, però, abbiamo scelto di occuparci anche di quella plastica che in mare ci è già finita e che minaccia l’ecosistema marino”, spiega Maura Latini, amministratrice delegata Coop Italia.

Dall’inizio della campagna sono stati raccolti quasi 32 tonnellate di rifiuti pari al peso di oltre 2 milioni di bottiglie da mezzo litro che, se messe in fila, eguaglierebbero la distanza tra Torino e Firenze (circa 400 chilometri).

Maura Latini, amministratrice delegata Coop Italia

Il Trash Collec’Thor cattura diversi i tipi di rifiuti galleggianti come bottiglie di plastica, sacchetti, mozziconi, ma anche idrocarburi e microplastiche fino a 3 millimetri di diametro. Attivo sette giorni su sette, il suo nome contiene anche quello del fortissimo dio del tuono, perché la capienza arriva fino a cento chilogrammi; un argano ne facilita il sollevamento una volta pieno.

Il Pixie Drone esplora, navigando, piccole aree di mare o di lago, a caccia dei rifiuti plastici che galleggiano lontano dai punti di accumulo dei pontili. Telecomandato da una distanza di 500 metri, può raccogliere fino a 60 chilogrammi di rifiuti: dalla plastica all’organico, dal vetro alla carta ai tessuti.

“È fondamentale non abbassare la guardia e mantenere sempre alta l’attenzione delle pubbliche amministrazioni, delle aziende e delle persone sul tema dell’inquinamento da plastica nei mari. Con le due nuove tecnologie proposte da LifeGate PlasticLess, scelte dopo tre anni di scouting a livello internazionale, vogliamo confermare il nostro impegno concreto per avvicinarsi sempre di più a una soluzione”, aggiunge Simone Molteni, direttore scientifico di LifeGate.

Il 26 luglio la campagna ha fatto tappa a Venezia, all’Isola della Certosa, dove è stato messo in azione sulla banchina di Venezia Certosa Marina il Trash Collec’Thor che aiuterà a dare un contributo ulteriore a pulire la laguna dai rifiuti, ma anche a tenere alta l’attenzione sul problema della plastica in mare, come ha sottolineato Lajal Andreoletti, responsabile progetti ambientali di LifeGate. Nella città di Venezia, grazie alla campagna “Un mare di idee per le nostre acque”, erano già in funzione tre Seabin che, finora, hanno raccolto oltre 3.600 chilogrammi di rifiuti galleggianti, pari al peso di oltre 240mila bottiglie da mezzo litro. In particolare, sull’Isola della Certosa, grazie all’impegno di Vento di Venezia che si occupa della gestione e svuotamento del dispositivo, questo è riuscito a superare di tre volte la sua capacità di raccolta.

“La Certosa è laboratorio e vetrina del rilancio sostenibile della città e della laguna di Venezia dove si sperimentano in modo integrato varie soluzioni innovative”, sottolinea Alberto Sonino, amministratore Vento di Venezia. “Dal 2018 aderiamo al progetto di LifeGate con i primi Seabin arrivati in Italia e, grazie ai risultati conseguiti, siamo orgogliosi di essere stati scelti nuovamente per fruire anche delle due nuove tecnologie (il Pixie Drone ed il Trash Collec’Thor) con le quali possiamo sistematizzare la raccolta di plastica dall’acqua della laguna e soprattutto continuare a sensibilizzare la comunità sul rispetto del mare”.

Coop a Venezia, Trash Collec’Thor
Il Trash Collec’Thor messo in azione sulla banchina di Venezia Certosa Marina © Coop

Negli ultimi anni il Comune di Venezia si è distinto per diverse iniziative di taglio ecosostenibile. È il caso della “delibera di giunta comunale che dà la possibilità ai pescatori di raccogliere le reti che successivamente vengono smaltite negli ecocentri del territorio comunale”, spiega Alessandro Scarpa Marta, consigliere delegato alle isole e pesca. “Inoltre, il comune di Venezia ha avuto un’altra iniziativa come la raccolta dell’olio esausto su tutto il territorio comunale sia nel centro storico, sia nelle isole che in terraferma.”

La partnership tra pubblico e privato, in questo senso, si rivela fruttuosa. “Pensiamo che la tutela e la salvaguardia dell’ambiente siano alla base del benessere e qualità della vita per noi e per le generazioni future, infatti, il nostro impegno è sì concentrato nel contingente ma con uno sguardo verso il domani perché tutelare l’ambiente e le acque vuol dire porre le basi di un cambiamento in positivo che coinvolge tutti e tutte”, dichiara Daniel Tiozzo, membro del Cda di Coop Alleanza 3.0.

Vorremmo che Venezia fosse il luogo nel quale si dimostri, con opere concrete e strategie gestionali, la possibilità di uno sviluppo sostenibile basato su salvaguardia ed innovazione. Le soluzioni integrate applicate alla complessità della nostra laguna possono essere esportate dappertutto; per questo ha senso pensare al territorio veneziano quale capitale della sostenibilità e a Venezia come la più antica città del futuro.

Alberto Sonino, amministratore Vento di Venezia

Prosegue anche la collaborazione con Findus già avviata nel 2021, quando è stato il primo partner commerciale ad aderire alla campagna adottando dieci Seabin. L’8 giugno, nell’ambito della presentazione di Fish for Good, manifesto che riassume l’impegno dell’azienda per la salvaguardia degli oceani, l’azienda ha permesso l’attivazione, proprio sull’Isola della Certosa, di un Pixie Drone, strumento che navigando esplora piccole aree di mare o di lago, a caccia dei rifiuti plastici che galleggiano lontano dai punti di accumulo dei pontili. Un altro dispositivo di questo genere sarà attivato anche a Rimini.

Il 29 settembre il tour Un mare di idee per le nostre acque ha fatto tappa a Castiglione della Pescaia, sul litorale tirrenico, dove il Pixie Drone ha fatto il suo debutto presso il Club Velico Castiglione della Pescaia.

Prima del suo arrivo, erano già tre i Seabin presenti nei territori toscani in cui è presente Unicoop Tirreno: i primi due sono stati inaugurati il 28 agosto 2020 rispettivamente a Livorno, presso il circolo pesca Nazario Sauro, e a Castiglione della Pescaia, presso la darsena del Circolo velico; il terzo è stato inaugurato l’11 ottobre 2021 alla Marina dei Presidi di Porto Ercole.

Dalle date di inaugurazione fino al 31 agosto 2022, i tre dispositivi hanno raccolto in totale 2.314 chilogrammi di rifiuti, pari al peso di 154.267 bottigliette di plastica da mezzo litro. Di questi, il 70 per cento è composto da plastiche, microplastiche, materiali metallici (latte, lattine), mozziconi di sigarette e materiali di assorbenti igienici; il 20 per cento da massa organica umida (legno, foglie, rami, alghe) contaminata da frammenti di plastica e polistirolo e, per il restante 10 per cento, da materiale organico umido non contaminato. 

La difesa dell’ambiente è uno dei valori di Coop che, sin dalla sua fondazione, sensibilizza le comunità e i territori in cui è presente, sostenendo attività che riducono l’inquinamento.

Paolo Bertini, responsabile politiche sociali di Unicoop Tirreno

Riferendosi all’inaugurazione del nuovo dispositivo a Castiglione della Pescaia, Paolo Bertini, responsabile politiche sociali di Unicoop Tirreno, ha dichiarato: “È la dimostrazione di un sentire trasversale che accomuna adulti e ragazzi, enti pubblici, associazioni e imprese; così come l’impiego delle nuove tecnologie ci permette di trasferire questo impegno dal passato al futuro, passando per un presente fatto di azioni concrete e quotidiane”.

Come sottolineato anche da Elisabetta Moling, responsabile della campagna Un mare di idee per le nostre acque, il nuovo Pixie Drone “rappresenta un’evoluzione dell’impegno e della sfida che Coop ha il piacere di condividere con chi rappresenta questo importante territorio”.

coop a castiglione della Pescaia
Da sinistra a destra, Elisabetta Moling, responsabile campagna “Un mare di idee per le nostre acque” di Coop Italia; Lajal Andreoletti, responsabile progetti ambientali LifeGate; Angelo Gentili, responsabile nazionale agricoltura e coordinatore del centro nazionale per l’Agroecologia di Legambiente; Paolo Bertini, responsabile politiche sociali di Unicoop Tirreno; Elena Nappi (in piedi), sindaca di Castiglione della Pescaia © LifeGate

Il Comune di Castiglione della Pescaia, infatti, è impegnato da anni nella tutela del mare, anche “attraverso continue campagne informative”, come spiega la sindaca Elena Nappi. “La nostra attenzione è stata apprezzata da Coop, che conosce anche gli sforzi compiuti per poterci dotare di attrezzature sempre più avanzate e svolgere questo lavoro senza sosta”.

Per l’ultima tappa di questo tour 2022, Coop ha presentato la campagna Un mare di idee per le nostre acque al Barcolana Sea Summit di Trieste che si è tenuto dal 5 al 7 ottobre: tre giorni di riflessioni con esperti, politici e scienziati ambientali, sull’innovazione marittima, la tutela degli ecosistemi marini e la sostenibilità delle scelte dell’uomo.

Durante la manifestazione Paolo Bonsignore, direttore marketing e marche private di Coop Italia, ha avuto l’occasione di presentare i risultati della campagna, le cui azioni messe in atto hanno già portato alla raccolta di quasi 42 tonnellate di rifiuti di plastica, un quantitativo pari al peso di oltre 2 milioni e 700 mila bottigliette da mezzo litro di acqua, che messe in fila coprirebbero la distanza tra il Duomo di Milano e il Colosseo di Roma.

Sempre durante la tre giorni di Trieste, il biologo marino Emilio Mancuso, sub esperto e presidente di Verdeacqua, ha portato la sua testimonianza sulla raccolta dei rifiuti in mare avvenuta il 30 settembre nel bacino di San Giusto a Trieste. Gli stessi rifiuti raccolti sono poi stati esposti in una teca all’uscita dell’installazione Coop in Piazza Unità d’Italia Mediterraneo 2072.

L’attività di raccolta è stata svolta in stretta collaborazione con l’area marina protetta di Miramare, che ha coordinato contestualmente anche la ricerca di giovani esemplari di pinna nobilis, specie protetta, e la relativa traslocazione in un luogo sicuro, come previsto nell’ambito del progetto Life Pinna sostenuto dall’Unione europea.

Un mare di idee per le nostre acque: le tappe

Dopo l’inaugurazione a Genova, il tour prosegue toccando Venezia e il litorale tirrenico nel Grossetano, a Castiglione della Pescaia, fino ad arrivare in ottobre a Trieste. Testimonial d’eccezione Filippo Solibello, speaker radiofonico di Caterpillar, e Tania Cagnotto campionessa olimpica nei tuffi.

Genova

07/06/2022

Sul molo di Marina Genova a Sestri Ponente sono stati installati un Trash Collec’Thor e un Pixie Drone.

Isola della Certosa (Venezia)

26/07/2022

Sulla banchina di Venezia Certosa Marina è stato installato un Trash Collec’Thor.

Castiglione della Pescaia

29/09/2022

Inaugurazione di un Pixie Drone presso il Club Velico Castiglione della Pescaia.

Trieste

06/10/2022

Pulizia dei fondali dell’area marina protetta di Miramare da parte del team di sub esperti coordinati dal biologo marino Emilio Mancuso.

Anywave Safilens è la prima imbarcazione ad aver istituito a bordo la figura del R.ECO, Responsabile ecologico – persona dell’equipaggio che ha il compito di rispettare e far rispettare un atteggiamento ecosostenibile durante la navigazione – e ad aver stilato un Decalogo di comportamenti da cui non derogare sia in navigazione che nelle fasi di attracco nei porti. Qualche esempio? La cambusa è rigorosamente plastic free; a bordo si beve da borracce riempite attraverso un rubinetto alimentato da un sistema di acqua potabile autonomo; i rifiuti sono rigorosamente differenziati; per la pulizia a bordo vengono utilizzati prodotti biodegradabili al cento per cento.
Anche nel 2022, come l’anno scorso, Anywave accompagna Coop nella campagna “Un mare di idee per le nostre acque”. L’imbarcazione, guidata dallo skipper Alberto Leghissa, seguirà tutte le tappe e avrà una funzione di supporto educational, aprendosi alle visite di soci, dei consumatori e delle scuole.