Nel 2021 la foresta tropicale primaria è stata distrutta al ritmo di 10 campi da calcio al minuto

Da qualche anno la distruzione della foresta tropicale primaria procede a un ritmo costante. Nel 2021 l’area andata persa è pari a 3,75 milioni di ettari.

  • Nel 2021 sono andati distrutti 3,75 milioni di ettari di foresta tropicale primaria, la più importante in termini di biodiversità e stoccaggio dei gas serra.
  • I dati sono stati elaborati dall’università del Maryland per il Global forest watch del World resources institute.
  • In cima alla lista c’è il Brasile con 1,5 milioni di ettari nel 2021, il 40 per cento del totale planetario. Radicalmente opposto, invece, il caso dell’Indonesia, dove il tasso di deforestazione è calato per il quinto anno consecutivo.

Nel corso del 2021, le regioni tropicali del nostro pianeta hanno perso un’area coperta da alberi delle dimensioni di 11,1 milioni di ettari, poco meno della superficie dell’Honduras. 3,75 milioni di ettari (all’incirca come Israele e il Kuwait messi insieme) erano di foresta tropicale primaria, la più importante in termini di biodiversità e stoccaggio dei gas serra, che è andata quindi distrutta a un ritmo di 10 campi da calcio al minuto. Ciò significa che sono state liberate in atmosfera 2,5 gigatonnellate di CO2, equivalenti alle emissioni annue dovute ai combustibili fossili in India. I dati sono stati elaborati dall’università del Maryland per il Global forest watch del World resources institute.

Come interpretare i dati del Global forest watch

Il primo dato (11,1 milioni di ettari) si riferisce a tutte le aree coperte da alberi di altezza superiore ai cinque metri, anche messi a dimora. Per la prima volta, l’università del Maryland è stata in grado di valutare in modo dettagliato l’impatto degli incendi; anche se essi tecnicamente non determinano un cambiamento permanente nell’uso del suolo, infatti, emettono gas serra e possono innescare un circolo vizioso, perché le fiamme si propagano più rapidamente se la vegetazione è già secca.

Il Global forest watch si concentra in modo particolare sulle foreste tropicali primarie, cioè quelle che non sono state finora coinvolte da attività agricole o industriali. Questo per due motivi. Innanzitutto, lì si è concentrato quasi il 97 per cento della deforestazione permanente associata all’urbanizzazione, all’agricoltura e alla produzione di altre materie prime; nelle aree a clima boreale o temperato, al contrario, spesso tale fenomeno è temporaneo e risolvibile, perché legato soprattutto agli incendi e all’estrazione di legname. In secondo luogo, le foreste tropicali intoccate hanno una maggiore capacità di assorbire CO2 mitigando i cambiamenti climatici.

In Brasile la deforestazione è fuori controllo

Da qualche anno la distruzione della foresta tropicale primaria procede a un ritmo costante. Nel 2021 l’area andata persa è inferiore dell’11 per cento rispetto a quella del 2020, anno però che aveva visto un aumento del 12 per cento sul 2019 (soprattutto dovuto agli incendi).

In cima alla lista c’è il Brasile con 1,5 milioni di ettari nel 2021, il 40 per cento del totale planetario. All’incirca come la superficie della Calabria. E dire che non troppo tempo fa l’amministrazione era riuscita ad abbassare la curva del disboscamento, tenendola ben al di sotto del milione di ettari per diversi anni, compresi tra il 2008 e il 2015. Dal 2016, invece, si assiste a nuova impennata che non accenna a placarsi. Nell’ultimo anno diminuiscono gli incendi (0,61 milioni di ettari nel 2020, 0,36 nel 2021) ma, per contro, aumenta la deforestazione dovuta ad altre cause, in primis l’agricoltura (da 1,09 a 1,19 milioni di ettari). Nell’Amazzonia occidentale si notano nuovi hotspot di deforestazione, spesso in corrispondenza dei pascoli lungo le strade.

Nell’osservare questi dati bisogna tener conto del fatto che la metodologia adottata dall’università del Maryland è diversa rispetto a quella di Prodes, il programma di monitoraggio del governo.

L’Indonesia dimostra che le foreste si possono ancora salvare

Radicalmente opposto, invece, il caso dell’Indonesia. Il tasso di deforestazione è calato per il quinto anno consecutivo; e non di poco, ma di un notevole 25 per cento rispetto al 2020. Nel suo nuovo piano di riduzione delle emissioni (nationally determined contributions, ndc), il paese promette addirittura di diventare un serbatoio netto di gas serra entro il 2030.

Il cambiamento di rotta risale al 2015, l’anno in cui la catastrofica stagione degli incendi ha spinto il governo ad adottare due moratorie: una temporanea sulle licenze per le nuove piantagioni di palma da olio (ormai scaduta) e una permanente sulla conversione di foreste primarie e terreni torbosi. Scelte che hanno portato i loro frutti, e che sono state accompagnate da un’intensificazione delle attività di monitoraggio e prevenzione degli incendi. Oggi l’83 per cento dell’olio di palma indonesiano e malese, e l’80 per cento di carta e cellulosa, sono prodotti sottostando a policy contro la deforestazione e lo sfruttamento del territorio (no deforestation, no peat and no exploitation, Ndpe).

Deforestazione in Indonesia
Lo scheletro dell’ultimo albero rimasto di una foresta convertita a piantagione © Daniel Beltrá / Greenpeace

Tutte misure che, sostiene il World resources institute, andranno ulteriormente rafforzate. Soprattutto ora che la moratoria temporanea sulle nuove piantagioni è scaduta e i prezzi dell’olio di palma hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi quarant’anni. Di recente il governo ha revocato centinaia di licenze per il disboscamento, le piantagioni e le attività minerarie nelle aree forestate: bisognerà vedere però se le redistribuirà ai popoli indigeni o alle grandi corporation. La necessità di risollevare l’economia dopo la crisi pandemica potrebbe incidere sulla decisione.

Le condizioni della foresta tropicale primaria in Congo e Bolivia

La classifica dei paesi con la più grave perdita di foresta tropicale vede al secondo posto la Repubblica Democratica del Congo che sfiora i 500mila ettari. Il World resources institute chiede “grandi cambiamenti”, tra cui “percorsi di sviluppo che non comportino l’espansione dell’agricoltura nelle foreste primarie” ed “energia pulita a prezzi accessibili” per le comunità rurali, “per ridurre la dipendenza dal carbone e altre forme di energia ricavate dal legno”.

congo, foreste
Il parco nazionale di Virunga, in Congo © Brent Stirton/Getty Images

Sul terzo gradino del podio, l’Indonesia viene scalzata dalla Bolivia che nel 2021 segna un record negativo, con 291mila ettari di foresta tropicale primaria distrutta. Circa un terzo della deforestazione registrata negli ultimi tre anni è dovuto agli incendi. Spesso vengono appiccati per liberare i terreni e sfuggono al controllo, a causa del clima caldo e secco.

Quattro metodi per contrastare la deforestazione

Alla Cop26 di Glasgow, i leader di cento nazioni (poi salite a 141 nelle settimane successive) si sono formalmente impegnati a interrompere la deforestazione e il degrado del suolo entro la fine del decennio. Per realizzare questa promessa, però, il tasso di deforestazione dovrebbe calare stabilmente ogni anno per tutto il resto del secolo. Cosa che ai tropici non sta accadendo. Le uniche eccezioni positive sono Indonesia e Malesia, seguite da Gabon e Guyana (che negli ultimi due decenni hanno perso soltanto l’1 per cento della loro foresta tropicale primaria).

I dati quindi “tragici”, ma non tutto è perduto. Il World resources institute propone infatti quattro strategie per porre fine alla deforestazione entro il 2030. Innanzitutto, bisogna approfittare di un enorme vantaggio che abbiamo rispetto al passato: disponiamo di dati accurati sull’entità del fenomeno, sulle zone coinvolte e anche sulle cause. Una conoscenza che va tradotta in politiche mirate. I dati possono tornare utili anche alle aziende, perché permettono loro di acquistare materie prime solo dai territori in cui il rischio deforestazione appare ragionevolmente basso.

In secondo luogo, è vero che i driver della deforestazione (come il commercio di materie prime) sono globali, ma è vero anche che gli interventi sono prevalentemente locali. Spesso agire è complicato perché mancano risorse, competenze e budget, ma la storia insegna che è la volontà politica a fare la differenza. Cosa ci suggerisce questa considerazione? Che bisogna creare consapevolezza sul fatto che la deforestazione fa danni e, viceversa, la tutela forestale porta benefici. Per il territorio nel suo insieme, e per chi lo abita.

Per spingere in questa direzione, sono stati avviati diversi programmi volti, per esempio, a dare un valore monetario alla CO2 stoccata nelle foreste, o ancora a escludere i prodotti legati alla deforestazione dalle catene di fornitura e dai portafogli finanziari. “È indispensabile calcolare in modo rigoroso gli impatti finali di queste iniziative sulle foreste man mano che vanno avanti, e perfezionare le nostre strategie di conseguenza”, scrive il World resources institute. Infine, bisogna prendere atto del fatto che le foreste sono vulnerabili all’aumento delle temperature, agli eventi meteo estremi, alle infezioni parassitarie e ad altre conseguenze dei cambiamenti climatici. Pertanto, gli sforzi per la loro tutela devono andare di pari passo con altre politiche di mitigazione.

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