Mick Harvey – Sketches From The Book Of The Dead

Della precedente discografia a suo nome restavano memorabili solamente i due capitoli dedicati a Serge Gainsbourg; il resto, francamente, non aveva lasciato il segno. Con Sketches From The Book Of The Dead è però la prima volta che Mick Harvey agisce da vero cane sciolto, dopo aver reciso del tutto gli antichi legami col suo datore

Della precedente discografia a suo nome restavano memorabili
solamente i due capitoli dedicati a Serge Gainsbourg; il resto,
francamente, non aveva lasciato il segno.

Con Sketches From The Book Of The Dead è però la prima volta che Mick Harvey agisce da vero
cane sciolto, dopo aver reciso del tutto gli antichi legami col suo
datore di lavoro Nick Cave (col quale è stato transfuga dai
Birthday Party nei Bad Seeds, principale arrangiatore e anche
manager organizzativo, finché la furia egocentrica di Warren
Ellis non ha spazzato via pure lui). Harvey non è dotato di
una voce memorabile, ma l’esperienza e la perlustrazione di lungo
corso degli abissi attraversa lucidamente questo nuovo disco
dall’inizio alla fine, impreziosendolo col sapore della psichedelia
blues torbida, del songwriting malato e dello sguardo sincero su un
mondo, quello dei bassifondi dell’animo umano, che non smette di
affascinare.

È anche la prima volta che Mick si cimenta interamente con
materiale esclusivamente proprio, senza la sponda di brani altrui;
inoltre, la recente collaborazione allo splendido Let England Shake
di PJ Harvey gli ha certamente dato quel maggiore slancio e quella
consapevolezza di sé che si colgono fin dalle primissime
battute.

Le canzoni raccontano tutte di morte, del rapporto personale di
Harvey con la scomparsa, tragica o meno, di persone a lui vicine
(anche idealmente). Una morte cominciata nella vita stessa: la
stura all’album è stata proprio la scomparsa di Rowland S.
Howard, vecchio amico e compagno nei Boys Next Door e Birthday
Party, avvenuta per un tumore al fegato alla fine del 2009. La vita
balorda, l’uso smodato di droghe, lo stare per così tanti
anni sul filo del rasoio, hanno permeato la mano di Mick dipingendo
brani dai tratti catartici, atmosfere toccanti e sonorità
molto curate, che sembrano evocare la profondità delle
American Recordings di Johnny Cash. October Boy apre il disco quasi
alla David Sylvian, descrivendo un’amicizia forte; The Ballad Of
Jay Given scende nel baratro di un omicidio sbagliato; Two
Paintings rivisita i fantasmi del passato, nel rapporto fra Harvey
e una casa in cui ha vissuto molti anni fa.

Musicalmente parlando, le vette sono toccate dalla pianistica e
struggente Rhymeless e dalla murder ballad psichedelica Frankie T
And Frankie C. Gli amanti del blues malato, delle strade fangose
percorse da Mark Lanegan e da Hugo Race, possono finalmente
accogliere a piene mani un altro autore e interprete da amare
incondizionatamente. E la musica ritrova un’anima profonda che si
era un po’ persa nei meandri della routine.

Pier Angelo Cantù

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