Morgan e le canzoni dell’appartamento

E’ fatto di canzoni scritte da Morgan nell’arco di due anni, arrangiate come i grandi brani prodotti negli anni Cinquanta e Sessanta, ma prodotto con i mezzi e le tecniche di oggi. Morgan in persona è il più indicato per raccontare la gestazione di questo disco, il primo da solista, da cui permea l’eclettismo e

E’ fatto di canzoni scritte da Morgan nell’arco di due anni,
arrangiate come i grandi brani prodotti negli anni Cinquanta e
Sessanta, ma prodotto con i mezzi e le tecniche di oggi. Morgan in
persona è il più indicato per raccontare la
gestazione di questo disco, il primo da solista, da cui permea
l’eclettismo e la fantasia di un artista che in 48 minuti e 31
secondi di musica racconta i suoi ultimi due anni. Nelle canzoni
dell’appartamento c’è il vero e l’immaginato, il reale e il
surreale.

Canzoni dell’appartamento contiene delle canzoni che
tu stesso hai definito delle “auto-cover”. Ci racconti questa cosa
curiosa?

Ho fatto un disco di “auto-cover” nel senso che ho scritto
delle canzoni immaginando di trovarmi in un’altra epoca, più
o meno quarant’anni prima rispetto all’epoca in cui realmente mi
trovavo, quindi anni Cinquanta-Sessanta. Ciò che ne è
venuto fuori è anche di più rispetto a quello che si
sarebbe potuto fare a quell’epoca. Questa decisione ha costituito
per me una forte spinta propulsiva e un motore per comporre. E’
stato come porsi dei limiti prima dei processi creativi, una cosa
naturale e comune in molti tipi di espressione artistica. Nella
pittura, ad esempio, la dimensione della tela è un vincolo.
Perché decidere di fare un quadro settanta per centoventi
significa che quello spazio racchiuderà tutto l’universo
dell’opera. Tutto ovviamente cambia nel fare la stessa cosa in uno
spazio di dieci per dieci. Il presupposto era quello di trovarsi
magicamente in un’epoca del passato. Per fare questo ho ascoltato
parecchia musica di quel periodo.

 

Pet Sounds…

Sì, Pet Sounds dei Beach Boys, ma anche Surf’s Up,
quello dove c’è Student Demonstration Time e Sunflower. Ho
ascoltato molti Beatles, che però già avevo ascoltato
tanto. La ricerca vera e propria è partita dai Kinks, fino a
un progetto di un musicista americano che si chiama White Noise del
1968, An Electric Storm. Questo è considerato dalla critica
uno dei primi dischi elettronici, nella storia del rock ovviamente,
perché nell’ambito della sperimentazione accademica era
già stata sperimentata dagli anni Venti, anzi Dieci: Luigi
Russolo nel ’14 ha fatto “Risveglio di una città” con
l’intona-rumori, entro gli anni Venti, considerato l’unico
musicista che per primo ha usato un protocampionatore.

 

Nelle CD si sente il suono del teremin.
Cos’è?

E’ in assoluto il primo strumento elettronico mai inventato,
è del 1917. Fino ad allora gli strumenti erano tutti
meccanici, dal teremin in poi ci voleva la corrente elettrica per
farli funzionare.

 

Hai detto che 40 anni fa un disco così non si
sarebbe potuto fare. Come mai, cosa hai fatto?

Il disco suona come acustico ma è stato fatto con
tecnologie modernissime. E’ stato interamente concepito e scritto
al computer “step by step”, che significa senza la
possibilità di suonare in tempo reale tutte le parti ma
pensandole e mettendole dentro come numeri in un software. E’ un
modo molto simile a quello della composizione su carta, dove si
scrive una nota alla volta sul pentagramma. Ho seguito lo stesso
procedimento ma l’ho fatto sul computer. Una volta finita questa
fase, ho trascritto le parti sul pentagramma e le ho fatte eseguire
dai musicisti sulla base degli spartiti. Una volta registrato tutto
su nastro, è stato rimesso tutto dentro al computer dove,
con ProTools, l’ho tagliuzzato, editato, ritagliato, smontato,
stretchato, allungato, accorciato, alzato, abbassato, fade-in,
fade-out, crossfade e tutto quello che invecchiava il suono e che
esteticamente mi dava soddisfazione. Poi l’ho rimontato, ma non
diverso da come l’avevo scritto, l’ ho rimontato identico, come se
l’avessi dissezionato, analizzato, catalogato e ricomposto identico
a se stesso. E’ un’operazione elettronica, però suona come
acustico.

 

E’ un nuovo modo di lavorare da insegnare a quanti
vorrebbero fare musica?

Va bene per chi ha tanto tempo… io ci ho messo più di
un anno e mezzo, non è consigliabile per chi ha problemi di
tempo. Negli ultimi anni, tutti i guadagni realizzati con la musica
li ho reinvestiti in strumenti musicali, così mi sono fatto
una specie di studio mobile che posso montare dove voglio, composto
di computer e macchine elettroniche di vario tipo, di vari tipi di
pianoforti, elettrici, elettroacustici, digitali, vari tipi di
sintetizzatori, analogici, digitali, campionatori. Ho dell’outboard
vario e questo mio studio posso portarmelo nei luoghi dove in quel
momento sto vivendo, visto che sono abbastanza nomade. Mi piace
vivere dei lunghi periodi in luoghi diversi, mi porto appresso gli
strumenti e scrivo musica, dove sono.

 

Il disco però è stato scritto tutto in
casa tua a Milano, in un appartamento.

Il disco l’ho fatto a Milano e volevo che proprio parlasse di
Milano, della vita civile nella società.

 

Rimani quindi legato fortemente a
Milano…

Rimango un fan di Milano nonostante molti ne siano detrattori.
Milano è disprezzata solo ed esclusivamente per non
conoscenza. E’ una città meravigliosa con una sua
personalità strutturalmente molto precisa. Milano è
una rete, per questo è la città più avanzata
d’Italia, perché ogni punto della città è
facilmente raggiungibile da qualunque altro luogo ci si trovi. E’
una città molto… connessa. Si può esemplificare
pensando all’espansione della fibra ottica, è una
città predisposta alle connessioni. Questa cosa si riflette
anche nella struttura psichico mentale della città di Milano
che è particolarmente connessa sul piano però
dell’attività produttiva, non sul piano dell’attività
ludica.

 

Spiegami bene questo concetto.

E’ una città dove più facilmente si lavora
piuttosto che divertirsi, o almeno, il divertimento è
più raro rispetto ad altre città dove il momento di
divagazione, perdita di tempo o comunque di rilassamento, è
più frequente. Non esiste mai un attimo in cui uno è
in giro senza motivo, ce ne sarà uno su un milione che trovi
in giro a passeggiare per vedere le vie di Milano o per vedere i
palazzi, i monumenti. E’ una cosa che ho fatto mentre scrivevo il
disco e mi sentivo veramente un pesce fuor d’acqua, anzi fuor di
Naviglio!

 

Le canzoni contenute in “Canzoni dell’Appartamento”
sono molto personali, non ci sono riferimenti a fatti storici, come
quindi ti relazioni a questi…

Mi interessa molto la politica, mi piace leggere i giornali,
essere informato, anche se non mi è simpatica la politica
parlamentare, per dire che non è simpatica devo conoscere e
sapere le stronzate che dicono o che fanno per poterle criticare.
Ma oggi come oggi ho 31 anni e sono un po’ più concreto di
come ero dieci anni fa, allora vivevo semplicemente di ideali
momentanei, di idealismi e di illusioni. Ad esempio, parlare dei
poeti maledetti oggi può avere un senso dal punto di vista
storico, letterario o estetico, ma non certo dal punto di vista
politico, nel senso di critica alla borghesia. Quel modo di
criticare la borghesia è superato, se non mi lavassi i denti
per criticare la borghesia o dormissi sotto i ponti, non avrebbe
più alcun senso. Adesso invece sono un po’ più
attempato ed in me è sopraggiunta una maggiore concretezza,
una partecipazione maggiore alle questioni della società,
dell’attualità della contemporaneità e della
politica. Mi piacciono sì i poeti maledetti ma non credo
più di poter imitare le gesta di Rimbaud. Sono fasi che si
attraversano e più vado avanti più mi
interesserà l’aspetto concreto e pratico di partecipazione e
ora posso comprendere perché Gaber diceva che
“libertà non è star sopra un albero, ma
libertà è partecipazione”. Certo che anche star sopra
un albero è importante, è interessante passare dalla
fase del rifiuto della società ma non è del tutto
maturo. Quando Calvino nel Barone Rampante ci rappresenta il
rifiuto della società, sta parlando di un bambino. Se il
barone rampante fosse un adulto staremmo probabilmente parlando di
un problema psichico, di una patologia, non di un rifiuto della
società sano che è giusto che appartenga ad un
bambino.

 

A volte la follia è l’unica via per la
felicità, se la follia è la via cos’è la
felicità…

Quelle sono le mie parole, non credo che potrei aggiungere
molto altro, consiglio quindi la lettura due libri fondamentali:
“Genio e follia” di Karl Jaspers, e “Storia della follia” di
Michel Foucault. C’è un tipo di follia che è
violenza, la follia della guerra, c’è invece una follia
simpatica e bonaria che è la follia di Bruno Munari, ultimo
futurista, autore di libri per bambini: pazzo scatenato però
affascinante e buono. Ci sono vari tipi di follia, la follia
è essenziale nella creatività, altrimenti non si
potrebbe produrre nulla di originale, produrre qualcosa di valido
significa fare qualcosa di diverso rispetto a quanto fatto da altri
e rompere la prassi ed essere folli in quel momento perché
si rompono le regole fondamentali di quel tipo di pratica. Nella
musica la follia è rappresentata da tutti coloro riteniamo
siano stati originali e che hanno innovato: David Bowie, un bel
pazzo! Anche Freddie Mercury mi ha sempre dato l’idea di essere uno
un po’ folle, ma di una follia positiva, non una follia pericolosa
o patologica.

 

Syd Barret come lo vedi?

Una follia strana, un po’ più cupa, ma musicalmente
senza dubbio dieci e lode. Però purtroppo la follia di Syd
Barret gli ha fatto male.

 

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