
La disabilità come occasione. Lo sport paralimpico come possibilità di confronto. Giusy Versace, di ritorno da Rio, ci racconta traguardi, delusioni e tutta la fatica che sta dietro all’immagine di super donna con cui tutti la vedono
Spirito olimpico, sesso e identità, schiaffi e politica. Immagini commoventi, diatribe che ci fanno arrabbiare, sorrisi che ci riconciliano con lo sport e cose che ci fanno riflettere al di là dello sport. Le Olimpiadi sono uno spettacolo globale enorme, capace di condensare moltissime tensioni nel breve arco delle due settimane sui campi di gara. Come è successo anche a Rio 2016.
Immagini e momenti da ricordare, a Rio 2016, per quel che è successo sui campi di gara che, a volte, ci ha anche ricordato quante lotte, quante emozioni, quanti contrasti ci sono al di fuori di quei campi.
Per la prima volta, sono scesi sul campo di gara, tra gli atleti in rappresentanza della loro nazione, quelli che la nazione non ce l’hanno più perché sono dovuti scappare, come rifugiati politici, da qualche altra parte. È la rappresentanza del Team dei Rifugiati. Uno dei loro simboli è la siriana Yusra Mardini.
Un anno fa Yusra Mardini è scampata dalle acque del mare mentre scappava dalla guerra in Siria, su una barca, con altri richiedenti asilo. La 18enne ha raccontato di aver dovuto nuotare per trascinare la barca, per tre ore: “Ho pensato che sarebbe stata una vera vergogna se fossi affogata in mare, dato che sono una nuotatrice”. Ora vive e si allena in Germania. E ha pure vinto la prima batteria dei 100 metri a farfalla.
È la prima atleta alle Olimpiadi a compiere un gesto simile. Finora la bandiera blu con le dodici stelle dorate non era mai comparsa ai Giochi. Bruxelles ha apprezzato il gesto. Federica Mogherini ed Enrico Letta l’hanno ringraziata. L’immagine di Elisa Di Francisca con la bandiera dell’Europa tesa tra le mani ha fatto il giro del mondo. A Rio 2016 però s’è anche discusso se il regolamento sia stato infranto: gli atleti possono mostrare la bandiera del loro Paese, non altre. La bandiera Ue non è di un Paese, quindi che fare? “Ha fatto più per l’Europa lei in pochi secondi che la burocrazia in vent’anni” scrive Aldo Cazzullo. La schermitrice d’argento ha avuto la sensibilità di farlo, e anche il coraggio, incalzata com’era dal cerimoniale che le metteva fretta, ha atteso di scendere dal podio, ha fatto segno all’addetta che la spingeva via di aspettare un attimo, e ha mostrato ai fotografi il vessillo blu con le stelle gialle.
A partire da un articolo di Usa Today, mentre i migliori atleti del mondo lottano fino in fondo con le ultime stille di energia e sudore, i commentatori di Fox News si impegnano in un’altra competizione. Sul sessismo, però.
https://www.youtube.com/watch?v=a6V0MLMeRhA
Cioè, mentre Katie Ledecky e Simone Biles mostrano di essere le più forti nel loro sport e forse anche più forti delle schifezze della vita, Mark Simone e Bo Dietl decidono di spendere prezioso tempo di messa in onda televisiva commentando la loro abilità a… truccarsi. “Perché dovrei vedere i brufoli di una ragazza?” si chiede Dietl. Che indulge poi anche in un commento sulla conduttrice: “Lei, per esempio, ha delle belle gambe”. Le atlete donne che si truccano possono farlo per aver più fiducia in se stesse, possono mettersi il rossetto per far risaltare il sorriso, lo smalto del colore nazionale per patriottismo, l’ombretto per risplendere in un momento di gloria, il fard per ricevere la medaglia in mondovisione. Ma se non lo fanno, chi se ne importa. Nessuno, tranne chi lavora nelle tv americane, guarda le Olimpiadi per irridere i brufoletti di chicchessia.
Il sorteggio aveva opposto l’egiziano e l’israeliano nel primo turno del torneo dei pesi massimi. Il judoka egiziano Islam El Shehaby, battuto negli ottavi di finale della categoria 100 chilogrammi ai Giochi Olimpici di Rio, ha rifiutato di stringere la mano al suo avversario, l’israeliano Or Sasson. Sconfitto per ippon, El Shehaby non solo ha ignorato la mano tesa che gli offriva Sasson, beccandosi fischi e disapprovazione del pubblico della Carioca Arena 2, ma non s’è nemmeno inchinato, cosa sportivamente grave.
Gli ufficiali olimpici hanno deciso di dare un segnale fortissimo, e di rispedirlo a casa.
Ma il gesto ha rifiondato alle Olimpiadi l’eterna questione mediorientale tra Israele e i paesi arabi. “Nel mio Paese ci sono persone buone e rispettose. Come israeliano, sono cresciuto imparando a rispettare gli altri – ha poi dichiarato Or Sasson – ma io penso solo al lato sportivo e professionale, non a quello politico”.
Si chiama Kariman Abuljadayel. È qui contro la volontà del suo governo, perché in Arabia Saudita non si tollera che le donne facciano sport. Ma il Cio per fortuna ha una regola: ogni nazione deve iscrivere almeno una donna. Così lei entra nella storia come la prima rappresentante dell’Arabia Saudita a correre i 100 metri ai Giochi. Ai blocchi di partenza, mentre le altre esibivano ventre scolpito, braccia lucide, sguardi aggressivi, body sgargianti, lei invece era un fagotto, con addosso lo hijab d’ordinanza tutto nero da capo a piedi, senza sponsor, senza scritte. La sola ad essere coperta, a non mostrare le gambe, a chinare un po’ gli occhi. Simbolo di un futuro (chissà) in cui anche le donne saudite potranno fare sport, magari un giorno perfino a gambe nude, e di un passato incrostato di norme religiose che non consentono loro di praticare sport né, quindi, di partecipare a eventi di qualificazione. L’unico modo per andare alle Olimpiadi era – ed è stato – l’invito del Comitato Olimpico, che esige almeno una donna in ogni delegazione. I sauditi hanno accettato, controvoglia, assicurandosi di non violare le leggi religiose. Non era una batteria importante la sua: la terza dei 100 metri donne. Quella delle meno attrezzate, diciamo così. Kariman parte lenta, passi pesanti, un fagotto nero che resta indietro. A metà pista era già ultimissima. Ma la corsa è ancora lunga.
Cosa serve per andare alle Olimpiadi? Bisogna essere ventenni, avere uno stipendio dei corpi sportivi militari, passare il giorno ad allenarsi, dedicarsi solo a quello nella vita. No, ci dice Catherine Bertone, che ha corso nella maratona, una di quelle gare storiche che vale tutta un’edizione dei Giochi (possiamo dirlo visto che in tempi neppur tanto remoti siamo stati anche, come italiani, al vertice, con Gelindo Bordin nel 1988 e Stefano Baldini nel 2004). La maratona femminile di Rio è stata come al solito monopolizzata dall’Africa, anche se appena giù dal podio quasi tutti i continenti sono stati rappresentati. Catherine Bertone era all’esordio assoluto in una grande maratona a 44 anni. Ed è incredibilmente arrivata venticinquesima: ottava fra le europee, prima fra chi è dilettante (da Londra 2012 l’altra italiana Valeria Straneo non lo è più). Lei nella vita reale è medico pediatra con turni anche notturni, ha due figlie, un marito, non è tesserata per gruppi militari e la passione con cui è arrivata a Rio spiega molte cose dello sport italiano. Soprattutto, ci toglie molti pretesti per lamentarci.
Mai nessuno aveva vinto tre ori sui 100 metri in tre Olimpiadi. Ora il ciclo di Usain Bolt va verso la conclusione. Lui stesso l’aveva detto: “Corro ancora fino ai Mondiali di Londra, l’anno prossimo. Lo devo ai giamaicani d’Inghilterra, che mi hanno sostenuto in modo indimenticabile nel 2012, poi basta. Voglio smettere finché sono ancora in cima”.
Lo stadio di Rio era come sempre tutto per lui. Fischiava l’avversario americano uscito da una storia di doping e ignorato da Bolt, che invece va dopo la corsa ad abbracciare il terzo, il canadese Andre De Grasse, una spanna più basso di lui, poi a salutare mamma Jennifer, si fa un selfie con le tripliste, incoraggia il saltatore ucraino Yakovenko che tenta invano di ricatturare l’attenzione degli spalti sul suo tentativo a 2 e 26. E solo alla fine si concede il suo celebre gesto del lancio della saetta.
A vederlo sorridere a favore di obiettivo mentre vince – in questa splendida foto del fotografo Cameron Spencer che vedremo da qui in poi altre migliaia di volte – la simpatia si muta in ammirazione. Che l’uomo più veloce del mondo sappia essere anche ironico, entusiasta e dissacrante, non è per nulla scontato. Il dettaglio più gustoso consiste comunque nel confronto con le facce di coloro che arrancano distrutti dietro di lui. Non è più il superuomo di Pechino, primo a correre sotto i 9 e 70. Non è più il superuomo di Londra, quando scese a 9 e 63. Stavolta ha vinto a fatica, in rimonta su Gatlin che ha quasi 35 anni. Ma qualcuno che si volta a sorridere mentre è intento a compiere uno sforzo al limite del sovrumano ricorda a tutti che è lì per rendere felice se stesso e gli altri.
Simone Biles, con il suo metro e 45 centimetri, è la più bassa partecipante ai Giochi. Oggi fa poker e diventa atleta da copertina dell’Olimpiade di Rio 2016. Se non fosse stato per la mezza caduta nella trave, che l’ha fatta scivolare sul bronzo, la giovane ginnasta americana avrebbe pure monopolizzato il gradino più alto del podio nell’artistica. Il quarto primo posto è arrivato nel corpo libero grazie a un esercizio estremamente difficile ed eseguito al limite della perfezione, che le è valso uno stratosferico 15.966 da parte dei giudici. La 19enne di Columbus, Ohio, chiude con l’oro nel volteggio, nel concorso individuale e a squadre, oltre al corpo libero. Regina di Rio 2016 e campionessa del mondo dal 2013 al 2015, dimostra che ci si può quindi anche riscattare da un’infanzia orribile, volteggiando su tappeti, parallele e cavalline. Abbandonata dal padre e allontanata dalla madre alcolista è stata affidata assieme ai suoi fratellini a nonni e zii quando aveva 3 anni. Quella è la sua nuova famiglia, che per fortuna la incoraggia alla ginnastica artistica. Anche perché, da ragazzina, Simone è solita saltare su divani e mobili. È l’inizio di una carriera clamorosa. Ma lei allontana i paragoni con Nadia Comaneci, con Michael Phelps e Usain Bolt, accumulatori seriali di medaglie alle Olimpiadi. “Non sono il prossimo Bolt né Phelps. Sono la prima Simone Biles”, ha detto.
Santiago Lange è l’atleta più anziano ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Il 55enne argentino ha infatti conquistato il primo posto nella vela dopo altre tre medaglie olimpiche conquistate nel corso della sua lunga carriera. La prima, un argento, arrivò addirittura a Seul 1988, mentre i due bronzi risalgono ad Atene 2004 e Pechino 2008. L’oro conquistato da Lange insieme a Cecilia Carranza Saroli arriva dopo un anno tremendo per l’atleta argentino, tenuto lontano dall’agonismo a causa di un tumore al polmone. La malattia l’avrà pure fiaccato, ma non gli ha levato la grinta, la forza e il fiato necessari per portare a casa a 55 anni, quella medaglia che gli era sfuggita per tutta la vita. E ha pure festeggiato il trionfo con i figli Yago e Klaus, anche loro in gara a Rio de Janeiro (nei 49er). Non è l’unico atleta in gara a Rio 2016 ad aver dovuto lottare con una malattia devastante, e averla debellata, e aver anche vinto. Il decatleta belga Thomas van der Plaetsen è sopravvissuto a un tumore ai testicoli. Il vogatore del Sud Africa Lawrence Brittain ha sconfitto un linfoma di Hodgkin diagnosticatogli nel 2014 e ora ha vinto un argento.
Avendo una vagina, corre con tutte le altre. Le diatribe sull’identità sessuale, i diritti individuali e lo spirito sportivo si sono nuovamente intersecate durante le gare degli 800 metri femminili. Perché i discorsi sulla fisionomia e la fisiologia s’ingarbugliano con lei, Carter Semenya, e con chi è come lei, come la keniana Margaret Wambui e la burundiana Francine Niyonsaba, che ha gli organi sessuali femminili ma anche due testicoli che le danno una quantità esorbitante di testosterone, un fisico mascolino, due spalle larghe così e, secondo molti, un vantaggio portentoso sulle sue contendenti. Le quali si dividono, tra chi vorrebbe per atlete come lei gare a parte (Brenda Martinez, Paula Radcliffe, Natalia Lupu) e chi ammette che la Semenya si allena tanto quanto tutte le altre e quindi deve correre con tutte le altre. Divisa anche la giustizia sportiva, che oscilla tra l’obbligo di sottoporsi a cure ormonali e il diritto alla propria identità sessuale. Lei non rilascia dichiarazioni, si allena, si sposa con la sua fidanzata (donna) Violet, corre, e vince.
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