Elezioni Usa 2024, il secondo round di Biden contro Trump comincia adesso

Era scontato, ora è anche ufficiale. La corsa alla Casa Bianca sarà un remake del 2020. Biden contro Trump è una storia che si rinnova e continua a spaccare l’elettorato, nonostante i dubbi sull’età dei leader.

Con i risultati delle primarie di martedì 12 marzo Joe Biden e Donald Trump si sono assicurati i delegati necessari per conquistare le nomination dei rispettivi partiti in vista delle elezioni degli Stati Uniti. I due candidati avevano condotto sin qui un percorso elettorale con poche resistenze. Se Biden ha corso praticamente senza avversari, assicurandosi tutte le primarie tenutesi fin qui negli stati americani, Nikki Haley, l’ultima rivale di Trump che era riuscita a batterlo in Vermont, si è ritirata dalle primarie del Partito repubblicano poco dopo l’esito del Super Tuesday. I risultati di martedì hanno aperto la strada alla campagna elettorale generale del 2024 che, con poco meno di otto mesi, sarà una delle più lunghe nella storia recente e sarà la prima rivincita presidenziale del paese in quasi 70 anni.

Biden contro Trump, secondo round

Il passaggio decisivo per entrambi i candidati è avvenuto in Georgia, che ha dato a Biden i 108 delegati necessari a superare i 1.968 che rappresentano la soglia minima per ottenere la nomination democratica. In base al regolamento delle primarie del partito, per vincere la nomination un candidato presidenziale deve ricevere il sostegno della maggioranza dei 3.933 delegati “pledged” al primo scrutinio. Per il Partito repubblicano, Donald Trump si è assicurato la nomination con le vittorie ottenute in Georgia, Mississippi e nello stato di Washington, che gli hanno permesso di superare la soglia dei 1.215 delegati. Si è quindi conquistato nei numeri la candidatura presidenziale per il Good Old Party (Gop). Nelle prossime settimane altri stati americani sono attesi al voto, ma bisognerà aspettare le convention affinché i rispettivi partiti ufficializzino i candidati che si sfideranno per la Casa Bianca. Le convention sono il momento in cui i delegati scelgono il candidato presidente che si presenterà alle elezioni. Quella democratica si terrà a Chicago (Illinois) dal 19 al 22 agosto a, mentre i repubblicani si riuniranno a Milwakee (Wisconsin) dal 15 al 18 luglio.

Trump resta in corsa grazie alle sentenze della Corte suprema

Se le aspettative dovessero essere confermate ponendo Biden e Trump l’uno contro l’altro, gli Stati Uniti assisterebbero, scheda alla mano, al secondo episodio di uno scontro politico iniziato con la campagna elettorale per le elezioni del 2020. In quell’occasione Trump non ha mantenuto la presidenza finendo sconfitto da Biden, ma l’esito di quel voto è stato indelebilmente macchiato dall’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, solo pochi giorni prima dell’insediamento del nuovo presidente. Gli strascichi di quel momento sono sopravvissuti a 5 anni di presidenza democratica e non sembrano destinati a esaurirsi. La base più trumpiana ha continuato a seguire il suo leader nonostante le numerose incriminazioni, che in alcuni momenti hanno addirittura gonfiato il vento nelle vele dell’ex presidente. Trump ha dominato le primarie in lungo e in largo, dai caucus in Iowa di inizio anno alle primarie di martedì, costringendo prima il governatore della Florida Ron DeSantis e poi l’ex ambasciatrice alle Nazioni Unite Nikki Haley ad abbandonare la corsa.

Assalto Capitol Hill
L’assalto a Capitol Hill dei seguaci di Donald Trump, fedele alla teoria della sostituzione etnica © SAUL LOEB/AFP via Getty Images

Nemmeno i pronunciamenti sulla sua incandidabilità per aver fomentato l’assalto al Campidoglio in violazione del quattordicesimo emendamento della Costituzione americana sembrano aver rallentato le intenzioni del tycoon, che fino ad ora ha potuto contare sulle sentenze della Corte suprema – la più alta corte della magistratura federale degli Stati Uniti d’America che ha ribaltato i verdetti dei giudici statali di Illinois, Maine e Colorado. I giudici della corte vengono nominati direttamente dal presidente sulla base dell’articolo II della Costituzione. Negli ultimi anni le sentenze della corte sono divenute oggetto di aspro dibattito perché ritenute fortemente conservatrici e limitative dei diritti civili. Un caso su tutti è la sentenza del 2022 sul caso Roe vs Wade, che ha di fatto tolto la protezione federale che garantiva il diritto ad abortire. Dei nove componenti attuali tre sono stati nominati da Trump durante la sua presidenza, mentre se si aggiungono i tre risalenti alla presidenza di George W. Bush il totale dei giudici di nomina repubblicana sale a sei.

aborto
Protesta per il diritto all’aborto negli Usa © ANDREW CABALLERO-REYNOLDS/AFP via Getty Images

Le recenti posizioni mantenute dalla Corte suprema in merito al futuro politico di Trump – come, per esempio, la decisione di accogliere, per esaminarla, la richiesta di immunità presidenziale riguardo all’assalto di Capitol Hill – stanno permettendo all’ex presidente di condurre la propria campagna elettorale investendo tempo e risorse economiche, consentendogli di rafforzarsi. La sua campagna elettorale, come sempre, condotta su toni molto alti e piena di attacchi diretti al suo avversario.

Biden e il rompicapo della politica estera americana

Joe Biden ha incontrato poca opposizione nella sua marcia verso la nomina, dominando ogni tornata elettorale con ampi margini. Tra gli avversari che hanno suscitato le maggiori attenzioni Robert F. Kennedy Jr., appartenente alla famiglia dell’ex presidente John Fitzgerald Kennedy e avvocato ambientale dai toni piuttosto eccentrici, ha abbandonato il concorso per le nomine democratiche per candidarsi come indipendente. Gli altri avversari erano il deputato Dean Phillips del Minnesota e la scrittrice Marianne Williamson, che non sono mai andati oltre lo “zero virgola” nei voti.

A ostacolare il suo percorso verso la ricandidatura ci ha pensato lo stesso Biden, la cui condotta in merito al protrarsi delle violenze sulla popolazione palestinese nella Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano gli ha scatenato addosso l’ira di una parte molto rumorosa del suo elettorato. Tuttavia, le proteste più rumorose sono sembrerebbero rimaste circoscritte al Michigan, dove qualche giorno fa circa 100mila elettori hanno espresso un voto “uncommitted” – letteralmente, non impegnato – per protestare nei confronti del sostegno al governo di Israele. Nello stato è presente una fortissima comunità arabo-americana, per cui era scontato che la sensibilità nei confronti del destino della Striscia di Gaza e dei palestinesi si sarebbe ritorta contro l’attuale presidente.

Per ora la campagna “Abandon Biden” per sfiduciare il presidente all’interno perimetro democratico, sembra non essere decollata a livello nazionale, ma ha contribuito a fare della fragilità nella politica estera una costante per Biden. Più volte nel corso della sua presidenza Biden ha fatto scelte criticate per quanto riguarda la presenza statunitense nel resto del mondo, dalla discussa ritirata dall’Afghanistan all’invio di armi all’Ucraina, fino al venire meno di Washington nelle dinamiche geopolitiche nell’oceano Pacifico tanto care a Obama nonostante l’aumentare delle tensioni tra la Cina e Taiwan.

Nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato giovedì 7 marzo davanti ai membri del Congresso, Biden ha provato a scrollarsi di dosso tutti gli ultimi passaggi a vuoto, attaccando direttamente il suo predecessore e annunciando la costruzione di un molo temporaneo davanti alla Striscia di Gaza che consentirà l’arrivo e la distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese. Molti osservatori hanno apprezzato il contenuto e soprattutto il tono del presidente, che ha provato a spazzere via i dubbi legati alla sua “tenuta fisica” sollevati da alcuni passaggi a vuoto durante i discorsi delle ultime uscite pubbliche. Nel corso del suo discorso, Biden ha parlato anche di contrasto all’immigrazione, forse il tema più sensibile dal punto di vista domestico. Sul controllo delle frontiere l’amministrazione Biden ha tenuto fino ad ora un atteggiamento di grande prudenza, definito conservatore perfino da alcuni membri interni come la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, sostenitrice dell’abolizione della polizia di frontiera. In molti sostengono che sulle proposte in materia di immigrazione si giocherà una parte importante del consenso alle prossime elezioni, e lo spostarsi dell’attuale amministrazione su posizioni di eccessiva chiusura potrebbe costare caro a Biden.

L’età non è solo un numero per l’elettorato statunitense

Il prossimo 5 novembre, l’election day negli Stati Uniti, Biden avrà quasi 82 anni, mentre Donald Trump ne avrà già compiuti 78. Un dato sufficiente a indicare quanto l’età dei leader giocherà un ruolo fondamentale a queste elezioni. Un recente sondaggio condotto dal New York Times e dal Siena College ha chiesto all’elettorato quanto l’età dei due candidati alla presidenza li preoccupi. Ne è emerso il 47 per cento degli elettori si dichiara fortemente preoccupato per l’età di Biden, mentre meno della metà – il 21 per cento – nutre la stessa sensazione per Trump. Passando in rassegna i fatti degli ultimi mesi, notiamo che Trump ha elogiato il primo ministro ungherese, Viktor Orban, “per la sua leadership in Turchia”, e ha confuso Nikki Haley con Nancy Pelosi. Il presidente Biden ha dichiarato di aver incontrato l’ex presidente francese Mitterand – morto quasi trenta anni fa – poco dopo essere stato eletto, ha fatto riferimento al presidente egiziano al-Sisi come al leader del Messico.

Gli scivoloni da entrambe le parti potrebbero aver sollevato preoccupazioni parallele sull’età e sull’acutezza mentale dei leader. Ma, a giudicare dai sondaggi, se i dubbi sull’affidabilità di Biden si rincorrono da lungo tempo, Trump non sembra aver avvertito lo stesso contraccolpo. Quel che è probabile è che se i due dovessero effettivamente affrontarsi a novembre, alla lotta per la presidenza si affiancherebbe una lotta parallela alla vicepresidenza che potrebbe rivelarsi tra le più significative degli ultimi anni. A questo proposito, su chi affronterà a distanza Kamala Harris – che pure è sembrata incapace di allargare il consenso attorno alla sua figura – si rincorrono diverse voci. Tra queste è spuntato il nome di Elise Stefanik, membro della Camera dei rappresentanti per lo stato di New York che si è schierata contro i due impeachment a Trump.

Stefanik, 39 anni, ha anche avuto un ruolo di primo piano nelle dimissioni di Elizabeth Magill e Claudine Gay, rettrici rispettivamente dell’Università della Pennsylvania e di Harvard, accusate di non essere intervenute per condannare gli episodi di antisemitismo legati agli eventi della Striscia di Gaza verificatisi all’interno degli istituti. Non è dunque da escludere che a sorreggere il peso di due presidenti tanto ingombranti quanto attempati potrebbero essere le spalle di due candidate vicepresidenti, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti.

 

 

 

 

 

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