Survival accusa l’Unesco di complicità negli abusi contro le popolazioni indigene di Asia e Africa

Secondo l’ong, diversi siti “naturali” riconosciuti come patrimonio Unesco in Africa e Asia sarebbero zone di guerra per i popoli indigeni.

Ogni anno, dal 1983, il 18 aprile l’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) invita il mondo a celebrare la Giornata internazionale dei monumenti e dei siti, nota anche come Giornata del patrimonio dell’umanità. Anche se coltivare la consapevolezza sulla conservazione del patrimonio mondiale può sembrare una buona idea, ci sono gruppi di pressione che fanno notare come la realtà di molti siti dichiarati “patrimonio”, potrebbe essere ben diversa.

Tra questi c’è l’ong Survival International che, per l’occasione, ha diffuso il rapporto Decolonize Unesco, in cui descrive come in questi luoghi si verifichino “apertamente abusi orribili con la complicità dell’Unesco e talvolta persino con il suo sostegno”, scrive Survival. Secondo l’ong, i cosiddetti siti naturali riconosciuti come “patrimonio mondiale” sono spesso zone di guerra per i popoli indigeni, il cui ruolo vitale nella conservazione e alimentazione di questi luoghi viene negato e addirittura represso. “Quando cercano di accedere alle loro terre ancestrali, i nativi delle popolazioni indigene vengono picchiati, stuprati, abusati e persino uccisi”, sentenzia Survival.

Donne e bambini baka nei pressi del Parco nazionale di Odzala-Kokoua, Repubblica del Congo. I Baka non possono più entrare nella loro foresta per raccogliere cibo o piante medicinali © Survival

Cosa non va nei patrimoni mondiali secondo Survival 

Almeno un terzo dei 227 siti dichiarati patrimonio mondiale “naturale”, ai sensi della Convenzione sul patrimonio mondiale culturale e naturale Unesco del 1972, “si trovano in tutto o in parte all’interno dei territori tradizionali dei popoli indigeni e sono di grande importanza per i loro mezzi di sussistenza e il loro benessere spirituale, sociale e culturale”, scrivono gli autori del rapporto i quali hanno condotto le proprie indagini sul campo in varie comunità indigene di Africa e Asia.

Tra queste, ci sarebbero l’area di conservazione di Ngorongoro, in Tanzania, il parco nazionale di Kahuzi-Biega, nella Repubblica Democratica del Congo e il parco nazionale di Odzala-Kokoua, nella Repubblica del Congo. In Asia, invece, Survival ha citato altre tre luoghi, in particolare: il complesso forestale di Kaeng Krachan, Thailandia, il parco nazionale di Kaziranga, India, e il parco nazionale di Chitwan, Nepal.

Ad esempio, il Kaeng Krachan ha una lunga storia di violazioni dei diritti umani, secondo Survival, fatto di sfratti violenti, l’incendio di villaggi karen, molteplici arresti e l’omicidio dell’attivista karen Pholachi “Billy” Rakchongcharoen avvenuto nel 2014. Ai karen è vietato praticare l’agricoltura a rotazione all’interno del sito nonostante essa sia fondamentale per il loro stile di vita. Dicono che senza la loro terra “i karen non esisteranno più”. Il complesso forestale in Thailandia è stato dichiarato patrimonio Mondiale nel 2021, nonostante fosse noto che i karen erano stati sfrattati con la forza, come denunciato anche da tre relatori speciali Onu.

La replica dell’Unesco alle accuse di Survival

L’Unesco, attraverso il suo ufficio stampa, ha fatto sapere a LifeGate, attraverso una lunga replica, che il lavoro con le popolazioni indigene “è in piena sintonia con la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (Undrip). In conformità con questo principio, l’Unesco ha costantemente e pubblicamente sottolineato ai suoi Stati membri, che sono responsabili della gestione dei siti iscritti, l’importanza del pieno rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle popolazioni indigene. L’Unesco contesta quindi con forza la dichiarazione di Survival International che denigra il ruolo della convenzione sul patrimonio mondiale”.

E ancora: “Invece di un report, la pubblicazione di Survival International consiste in una raccolta di testimonianze individuali raccolte in sei siti del patrimonio dell’umanità, sulla base delle quali la ong getta vergogna su tutti i 1.199 siti del patrimonio dell’umanità. L’Unesco trova deplorevole il fatto di non essere stata consultata da Survival International nella preparazione della pubblicazione. Ciò avrebbe permesso di fornire esempi tangibili delle numerose azioni già intraprese dall’organizzazione, anche nei siti citati da Survival International e spesso direttamente con le popolazioni indigene interessate, per rafforzare la tutela dei loro diritti e la loro partecipazione diretta alla gestione dei siti”.

Per l’Unesco, infine, la convenzione sul patrimonio mondiale, grazie al suo potere normativo globale allineato con i requisiti dell’Undrip, fornisce strumenti per difendere i diritti dei popoli indigeni molto meglio di quanto non facciano le normative nazionali o locali. Dal 2023, infatti, gli stati firmatari della convenzione sono tenuti a dimostrare che prima di iscrivere un sito nella lista del patrimonio mondiale è stato ottenuto il consenso libero, preventivo e informato delle popolazioni indigene. Insomma, per Unesco, Survival se la sta prendendo con il “nemico sbagliato”.

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