Svb, Credit Suisse. Perché le due banche sono crollate e cosa può accadere ora

I due istituti di credito Silicon Valley Bank e Credit Suisse, negli Stati Uniti e in Svizzera, hanno fatto tremare il sistema finanziario mondiale.

Cocaina, mafia giapponese, episodi di corruzione in Africa, spionaggio, frodi fiscali. La sequenza di scandali che hanno coinvolto il colosso bancario elvetico Credit Suisse negli ultimi anni è impressionante. E il prezzo, per la banca elvetica, è stato pagato tutto, all’improvviso, negli ultimi giorni. Domenica 19 marzo l’istituto finanziario è stato acquisito d’urgenza dalla più grande banca della nazione, Ubs, mentre era ormai sull’orlo del collasso.

In Svizzera Credit Suisse rilevata d’urgenza da Ubs

Ad annunciare l’acquisizione è stato il presidente della Confederazione e consigliere federale Alain Berset. Ma perché proprio adesso Credit Suisse si è ritrovata sull’orlo del baratro? Perché in questa fase esistono una crisi di liquidità ed una sorta di “trappola” nella quale si possono trovare facilmente le banche.

Il meccanismo è semplice: le banche ergano credito e ricevono depositi. Normalmente ciò è frutto di calcoli e rimane in equilibrio, ma quando – per ragioni varie – capita che sono di più coloro che richiedono indietro denaro di coloro che ne depositano, la banca può trovarsi in difficoltà. Normalmente in questi casi si rivolge al mercato interbancario, ovvero chiede soldi in prestito (di solito a tassi vantaggiosi) ad altri istituti di credito. Ma se si comincia a spargere la voce che la banca richiedente non se la passa bene, in pochi saranno disposti a concedere i capitali. A quel punto la banca in questione non avrà altra scelta se non quella di vendere precipitosamente (se non svendere) i propri asset: ad esempio divisioni o azioni.

Per le banche è prima di tutto una crisi di fiducia

Non solo: al contempo tutte queste voci ed evidenze di difficoltà aumenta il numero di coloro che vogliono recuperare i loro risparmi. Il che peggiora ulteriormente le condizioni dell’istituto. Producendo una crisi di fiducia. Per questo, prima dell’acquisizione d’urgenza da parte di Ubs, Credit Suisse aveva dovuto beneficiare di una linea di credito d’emergenza, del valore di circa 50 miliardi di euro, concessa dallo stato svizzero. Che di fronte all’incapacità dei mercati di rimediare, è stato costretto ad intervenire.

Un’iniezione di liquidità gigantesca, ma che non è evidentemente bastata. Occorreva, come ha spiegato Berset, “ristabilire la fiducia” per garantire “la stabilità dell’insieme del sistema finanziario”. Che così ha dimostrato ancora una volta non soltanto di non essere in grado di autoregolarsi, ma anche di vivere, si può dire, “al limite delle proprie possibilità”. Altrimenti detto senza prevedere un “cuscinetto” adeguato di sicurezza che scongiuri la necessità di doversi ciclicamente, sistematicamente appoggiare alla stampella dei poteri pubblici. Neppure quando si fa parte delle banche considerate “troppo grandi per fallire”, come nel caso di Credit Suisse.

Svb ha distribuito dividendi e bonus poco prima del crollo

Non si tratta dell’unico scossone che ha ricevuto il sistema bancario internazionale. Benché meno grande di Credit Suisse, a crollare è stata anche l’americana Silicon Valley Bank (Svb), istituto legato a filo doppio al settore high-tech statunitense. Quest’ultimo da mesi è alle prese con la bolla speculativa che aveva fatto crescere a dismisura il comparto in Borsa. E che fatalmente, come sempre, a un certo punto è esplosa.

Una sede della Silicon Valley Bank.
Una sede della Silicon Valley Bank © Justin Sullivan/Getty Images

Anche nel caso di Svb il meccanismo è stato il solito: crisi di liquidità, rumors che corrono, clientela spaventata, crisi aggravata, fallimento. Ad indignare c’è inoltre il comportamento del management: prima del default erano stati comunque distribuiti dividendi agli azionisti. E anche bonus agli stessi dirigenti. Senza dimenticare che per le agenzie di rating, che dovrebbero valutare lo stato di salute delle società che monitorano, era sostanzialmente tutto in ordine.

Il mondo della finanza incapace di auto-regolamentarsi

Fino all’8 marzo, vigilia del crollo di Svb, Moody’s giudicava la banca con un ottimo “A3”. Il 10 marzo improvvisamente il rating era stato abbassato di 13 livelli, a “C”, che equivale al fallimento. Allo stesso modo Standard & Poor’s soltanto il 9 marzo ha abbassato il giudizio sulla banca, anche se mantenendolo a “BBB-“. Solo il 10 è stato fissato a “D”, il più basso. È la riedizione di quanto accadde già nel 2008 con Lehman Brothers, colosso che crollò trascinando con sé l’intero sistema finanziario mondiale e che fino a pochi giorni prima era giudicato più che positivamente.

Nel caso di Svb, anche negli Stati Uniti ad intervenire d’urgenza sono stati i poteri pubblici. Non per salvare l’istituto ma almeno per salvaguardare i depositi dei clienti. Banca centrale, Tesoro e l’autorità finanziaria Federal depositi insurance corporation (Fdic), a tale scopo, hanno creati d’urgenza la Deposit insurance national bank of Santa Clara, alimentata con i fondi gestiti dallo stato e presenti nel Deposit insurance fund. Ma non hanno potuto bloccare del tutto sul nascere il più grande rischio di tutta la vicenda: quello di un effetto-domino. Un altro istituto è infatti crollato, la Signature Bank.

Cosa può accadere ora dopo i casi Credit Suisse e Svb

La domanda che tutti si pongono ora, anche alla luce della questione legata a Credit Suisse è: siamo all’inizio di una nuova crisi finanziaria? Dobbiamo attenderci una sequenza di fallimenti a catena, con i governi costretti a spendere enormi quantità di capitali (nostri) per salvare il sistema dal collasso? Impossibile dirlo in questo momento. Ciò che è chiaro, per l’ennesima volta, è che le regole che disciplinano il mondo della finanza non sono abbastanza stringenti, e i modelli di business non sono abbastanza prudenti. Ma d’altra parte la massimizzazione dei profitti ad ogni costo non è una stortura, ma una caratteristica del capitalismo.

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