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Il White Album del trio bergamasco: un doppio, 27 canzoni per Wow.
Dopo tre anni di silenzio, trascorsi nel loro Henhouse Studio di
Albino, il trio bergamasco inaugura il nuovo anno con
un’esclamazione di stupore: Wow!. Che è anche il primo effetto
scaturito dall’ascolto di questo doppio album. Un po’ come quando
Dave Eggers ha voluto intitolare il suo primo romanzo L’opera
struggente di un formidabile genio.
Ma non siamo qui a parlare di letteratura: i Verdena ripartono da
dove erano rimasti e vanno oltre, colpendoci in piena faccia con 27
canzoni, pugni che ci afferrano lo stomaco e non lasciano la presa.
Ventisette capitoli diversi, carichi d’ispirazione e densi di
sonorità: la band elabora le influenze più disparate,
tutte di un certo calibro, e le rende un prodotto originale,
plasmando in maniera sempre più chiara (e degna di nota) una
propria, forte personalità.
Come dire, questi ragazzi prendono tutto ciò che ascoltano
(e ne fanno di ascolti) e lo trasformano in qualcosa di nuovo e
prezioso. C’è lo stoner rock, la psichedelia degli anni 60 e
70, le distorsioni e le voci malate che avevamo trovato nel
precedente Requiem (come la bomba sonora di Attonito, Lui gareggia
o Mi coltivo, con le sue batterie elettroniche e imponenti); ma ci
sono anche echi dei primi Verdena, in versione matura (Scegli
me).
Non possiamo citare tutte le canzoni, prendiamo l’emblematica
Loniterp, uno schiaffo, forte e con sviluppi inaspettati: un riff
iniziale che ricorda gli Interpol, per passare attraverso un
inedito arrangiamento vocale (mentre cantano «siamo piume nel
vento»), un passaggio alla Sympathy For The Devil, per poi
chiudersi repentinamente con un respiro di dolore. Razzi arpia
inferno e fiamme è uno dei pochi, riusciti momenti acustici,
angoscia e inquietudine distillati in 3 minuti senza il volume
delle chitarre elettriche. E dopo la claustrofobia ci sono attimi
di respiro, vedi Miglioramento o Nuova luce.
Ci sono accenni d’archi, subdoli sintetizzatori (Le scarpe volanti,
12,5 mg), tastiere ipnotiche (Adoratorio), organi (Badbea Blues),
troviamo spesso un pianoforte incalzante e minaccioso (È
solo lunedì), cori surreali (la vocale A cappello sembra
uscita da un film di Tim Burton), accenni beatlesiani (Rossella,
Letto di mosche).
Ogni brano dei due dischi è una chicca, un mondo a
sé, ma tutti sono parti indissolubili di un’opera unica e
possente, che scorre velocemente nel lettore, proprio come era per
i nostri dischi preferiti di una volta. L’intero lavoro ha un
timbro molto internazionale, rimanendo innegabilmente di stampo
Verdena. Un’ulteriore conferma, si preannuncia uno dei dischi
italiani dell’anno.
Silvia Pellizzon
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