Arredamento e Design

Yona Friedman. Architetto, visionario, artista? Sì, un semplice animale umano

Architetto, urbanista, teorico, ungherese naturalizzato francese, Yona Friedman ha oggi 95 anni. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’installazione ‘Meubles plus’ che ha realizzato su invito di Material Connextion Italia per CONAI –Consorzio nazionale imballaggi- e consorzi per il riciclo dei rifiuti di imballaggio a Superstudio, nella cornice della mostra Smart City: Materials, Technology and People. Yona Friedman

Architetto, urbanista, teorico, ungherese naturalizzato francese, Yona Friedman ha oggi 95 anni. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’installazione ‘Meubles plus’ che ha realizzato su invito di Material Connextion Italia per CONAI –Consorzio nazionale imballaggi- e consorzi per il riciclo dei rifiuti di imballaggio a Superstudio, nella cornice della mostra Smart City: Materials, Technology and People.

Yona Friedman è divenuto celebre alla fine degli anni cinquanta per le sue teorie visionarie fortemente innovative: il Manifesto dell’architettura mobile e la teoria delle megastrutture. Basate su una forte critica politica e sociale del sistema capitalistico, ipotizzavano la creazione di gruppi e comunità di piccola scala per generare progetti abitativi in modo autonomo trasformabili nel tempo secondo il mutare delle esigenze e lo sviluppo delle città attraverso l’autopianificazione di villaggi urbani e non di megalopoli.

Autore prolifico di molti libri, tra cui il notissimo ‘Utopie realizzabili’ del 1974, alla fine degli anni settanta Friedman ha prodotto una ventina di manuali di architettura di estrema semplicità visiva e didascalica per l’autocostruzione nei paesi in via di sviluppo applicati con successo in India: grazie alle Nazioni Unite sono stati, infatti, realizzati dei manifesti da attaccare ai muri nei villaggi, per divulgare le istruzioni di base per costruire la propria casa e migliorare le proprie condizioni di vita.

È stato considerato un architetto visionario, ma crede che oggi la sua utopia sia realizzabile, grazie alle nuove tecnologie?
La difficoltà dell’architettura è la tecnica. L’idea delle megastrutture è quella di trasformare una casa in una sorta di arredamento mobile, aggregabile. In questo modo, tutto potrà essere composto come si vuole, e se si vuole cambiare qualcosa, si può. Ad esempio, sarebbe logico che la casa potesse assumere una configurazione diversa a seconda del mutare del clima.

Per realizzare questo genere di architettura mobile affiora un problema che io affrontai già negli anni ’50: le infrastrutture. Le infrastrutture possono essere reti elettriche, o telefoniche, o idriche, oppure tutte le reti di distribuzione, ma tutto questo negli ultimi 20 anni grazie alla tecnologia è realizzabile. Per creare una rete telefonica, oggi esiste una rete di satelliti che lavora per far funzionare il telefono che abbiamo in tasca, e allo stesso modo possiamo utilizzare l’energia solare per illuminare le nostre strade grazie ad una rete di pannelli solari

Io la chiamo ‘cloud infrastracture’, o ‘infrastruttura immateriale’. Esiste per il telefono, esiste per l’elettricità e così via.

Il concetto generale di città sta cambiando; la città è la condensazione che mi permette di lavorare qui, ma grazie alla tecnologia è possibile oggi lavorare a distanza di miglia da casa. Questa condensazione non è necessaria, ma tutto il traffico tecnologico deriva da essa, e ci permette oggi di essere interconnessi e di avere contatti sociali.

Lei è un personaggio poliedrico: teorico, architetto, urbanista e anche artista. Qual è la definizione che preferisce?
Mi considero un semplice animale umano. Tutte le mie azioni derivano da paure relazionate con l’arte, l’architettura e la scienza, e sono paure artificiali. Come sapete, l’architettura ha un significato più profondo del semplice ‘costruire’. Penso a me stesso come membro di una specie, dotato di una capacità genetica. Tutto è connesso e se viene modificata una piccola parte di DNA, se ne vedranno gli effetti ovunque.

Il suo dunque è un punto di vista umanistico?
Certo, questo è il mio lato animale, la mia visione dell’essere uomo. Questa è la mia caratteristica. Come sapete, quella che chiamiamo civilizzazione ha avuto inizio quando noi abbiamo iniziato a progettare grandi innovazioni tecnologiche e non tecnologiche, partendo da una porta, che può essere sia aperta che chiusa, arrivando a un computer che è essenzialmente una sequenza di porte. La caratteristica della razza umana è l’abilità di immaginare le diverse possibilità che possono avere tutti i diversi materiali esistenti, tratto che risulta essere davvero importante.

Ci sono dei progetti che le sarebbe piaciuto fare nel corso della sua vita, ma che non ha avuto l’opportunità di realizzare?
L’espressione migliore per tutto ciò è la vita di tutti i giorni, quindi posso dire che il mio vero progetto è vivere domani e sto ripetendo questo progetto tutti i giorni!

Qual è l’idea da cui è nata l’installazione per Material ConneXion Italia al Superstudio Più, in questo fuorisalone 2018?
È la trasformazione di quello che negli anni ’50 chiamavo architettura mobile. Questa è una sua variazione, un convertire l’architettura in arredamento. In altre parole, si tratta di costruire una stanza che si può muovere. Negli ultimi 20 anni sto realizzando questo genere di progetti a un prezzo davvero basso, il che significa che le persone possono riprodurre quest’ idea con delle tecniche molto semplici. Questa è l’opportunità per poter sviluppare architetture popolari. Il design è un’idea elitaria, ma quello che conta davvero è il design popolare, e cioè un design che tutti possono creare per conto proprio. Credo che sia una strada necessaria.

Allora tutti possono diventare architetti?
La risposta è davvero semplice. Tutti possono scattare fotografie con il proprio smart-phone, eppure i fotografi continuano ad esistere come attività popolare e specializzata. Lo stesso vale per la musica: molte persone possono fare musica, ma solo alcuni possono essere considerati artisti. Anche gli architetti hanno la possibilità di essere degli specialisti.

Yona Friedman, Tetti
Yona Friedman, Tetti, manuale di architettura per i paesi poveri, Quodlibet, 2017 ©courtesy Domusweb

I suoi manuali di architettura si inseriscono nella grande tradizione occidentale dei trattati di architettura iniziata da Vitruvio, ma sono gli unici rivolti ai poveri, con disegni e parole essenziali, comprensibili da tutti. Qual è l’idea alla base?
Noi siamo animali visivi e pensiamo attraverso immagini. Quindi ho pensato di disegnare queste immagini nel modo più semplice ed elementare possibile, affinché risultassero di facile comprensione per tutti. Spiegare l’architettura e i principi di base delle costruzioni in modo chiaro, preciso e semplice, anche a chi non sa leggere. Ho usato questo sistema molto spesso in India. Mi fu commissionato dalle Nazioni Unite l’uso di questo metodo al fine di verificarne il funzionamento. Ha funzionato e funziona ancora adesso. La semplicità è importante. La semplicità è la cosa più complicata.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con gli studenti del Micri–Master in Comunicazione per le Relazioni Internazionali – Iulm, Milano, nell’ambito del progetto Design4Climate Action. Trascrizione e traduzione a cura di Greta Caputo, Sabrina Mazzetti, Chiara Parma, Eleonora Pupa, Edoardo Rapezzi, Laura Serratosa e Marika Verdicchio.

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