
La campagna per il riconoscimento del reato di ecocidio arriva in Sardegna, dove è stata proposta una legge regionale.
In Italia a causa di poche regole, le cave causano danni irreversibili all’ambiente. Il caso del monte Magnodeno, nel lecchese, ne è l’emblema.
Sono 4.168 le cave di materiali per l’edilizia autorizzate o in funzione in Italia nel 2021 che forniscono sabbia, ghiaia e calcare, soprattutto, seguiti da basalto e argilla. Sono 14.141 quelle dismesse o abbandonate senza un piano di ripristino ambientale. Sono solo alcuni numeri del rapporto cave di Legambiente che testimoniano il perdurare della crisi del settore delle costruzioni dal 2008, ma mostrano anche come il tema dell’impatto ambientale delle cave non sia prioritario.
Uno spaccato di questo sistema lo si è visto concretizzarsi in provincia di Lecco, territorio che ha rinnovato il suo piano cave nel 2015 e dove sono attive cave – principalmente di calcare – sul monte Cornizzolo, sul monte Barro, in Valvarrone, due sono presenti nella località Moregallo e poi tre siti sul monte Magnodeno. In questo sito, composto da tre cave, gli amministratori locali hanno concesso alla società Unicalce l’autorizzazione ad ampliare l’escavazione. Aumentando i rischi per la salute degli abitanti e i danni all’ambiente.
L’azienda bergamasca Unicalce ha un contratto fino al 2024 per asportare calcare dal monte Magnodeno da “cuocere” nei due forni in loco per attenere la calce. A fine maggio 2021 gli amministratori del territorio, quindi il comune di Lecco, territorio su cui sorge il sito di escavazione, e la provincia, con l’avvallo regionale, hanno firmato un accordo che consente a Unicalce di estrarre dopo il 2024, ulteriori 2 milioni e 791mila metri cubi di materiale fino al 2034. Questo è quanto accadrà nel sito principale, denominato Vaiolo Alta, a cui sono collegati i siti Vaiolo Bassa e Cornello, gestiti dalla stessa azienda e operativi fino al 2024.
L’approvazione al progetto è stata unanime, sostenuta nei fatti dai pareri favorevoli degli uffici tecnici del comune di Lecco, della provincia di Lecco e della regione Lombardia. Sulla carta vuol dire l’impatto ambientale è stato valutato come sostenibile.
Quindi perché approfondire questo caso specifico sul Magnodeno a Lecco? Per capire i meccanismi che regolano le concessioni per le cave di calcare e di materiale per l’edilizia in Lombardia e in Italia è utile capire quale sia oggi l’impatto di questo sito di escavazione e cosa cosa accadrà è previsto nel rilancio dell’accordo estrattivo per quanto riguarda la tutela della natura sul monte Magnodeno, ma anche dell’aria che respirano i lecchesi.
A far luce sulla prima ombra ci ha pensato l’Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, che ha sollevato fino al momento della firma dell’accordo di estrazione, arrivato a maggio, una serie di critiche dal punto di vista ambientale che presentava il sito Vaiolo Alta sul Magnodeno. Il parere istituzione è stato unanimemente positivo all’ampliamento del sito e le uniche “note green” contenute nel contratto – e quindi solo sulla carta –, arrivano ancora dal monitoraggio di Arpa, prevedono quanto segue:
“Se il monitoraggio ambientale, in Lombardia è obbligatorio e sancito dal Piano Cave, sono tante le autocertificazioni e i dati che fornisce l’azienda stessa sull’impatto ambientale delle sue produzioni”, spiegano dal comitato di cittadini Salviamo il Magnodeno il cui portavoce Edoardo Magni aggiunge: “Ci sono inoltre questioni ambientali, legate all’habitat acquatico, preesistenti all’ampliamento che non potranno che peggiorare con l’aumento dell’escavazione nel sito”.
“La prima, delle segnalazioni fatte da Arpa Lombardia e mai recepite appieno dalle istituzioni e dall’azienda, riguarda il rischio che l’ampliamento dei volumi escavati aumenti l’inquinamento delle acque, sia quelle di falda che dei torrenti che scorrono attraverso il sito estrattivo”, spiega Magni. Questo perché l’impatto ambientale dalla cava colpisce già oggi il torrente Tuff che costeggia il sito.
“Al suo interno è stata attestata la presenza di una comunità di gambero di fiume autoctono, una specie protetta e particolarmente preziosa per l’intero habitat. La cava, per via dell’ampliamento vedrà crescere i volumi di acque reflue, aumentando la rarefazione del gambero che continua anno dopo anno”.
Anche solo questo elemento basterebbe per creare un sito di interesse comunitario (sic) per la conservazione della biodiversità. L’unico “punto green” concreto che Arpa è riuscita ad inserire nel piano di ampliamento è la creazione di una vasca di laminazione che contenga le acque reflue salvaguardando il torrente.
La vasca però è destinata a non convogliare, secondo l’agenzia regionale, solo le acque meteoriche, ma anche parte del reticolo di acque di falda, facendo sì che si arricchiscano di materiali di lavorazione, diventando a tutti gli effetti un “refluo industriale”, cioè acque che sono venute in contatto con prodotti o sottoprodotti del ciclo lavorativo di estrazione della cava. Queste acque arriverebbero nel torrente Tuff attraverso i suoi affluenti minori o anche mediante le falde acquifere da cui “pesca”.
L’etichetta di “refluo industriale” è stata però rifiutata dall’azienda e anche dalle parti istituzionali in causa, come provincia e comune, perché richiederebbe un filtraggio delle acque troppo oneroso che così invece, nonostante la nota di Arpa, possono continuare ad essere sversate nei torrenti del reticolo idrico o finire nelle falde, arrivando, molto probabilmente, nel torrente Tuff. Danneggiando ulteriormente la popolazione di gamberi di fiume, come documentato dal comitato Salviamo il Magnodeno.
“Abbiamo documentato [il video qui sopra] – continua Edoardo Magni – che il Tuff riceve da almeno un immissario, il quale arriva proprio dalla direzione della cava, una quantitativo di acqua e fango che non si vede in natura. Può capitare solo in casi eccezionali, quindi è contaminato da solidi di produzione artificiale. Queste sono le, molto probabili, acque reflue industriali che rientrerebbero quindi a tutti gli effetti in quell’etichetta, rifiutata dall’azienda, con il consenso delle istituzioni. La differenza nella qualità delle acque è evidente a occhio e il materiale solido rimane sul fondale del Tuff fino alla sua foce nel lago di Garlate, che è molto più sedimentata di quelle degli altri torrenti limitrofi. Bisognerebbe trovarne l’origine e capire se la composizione chimica dell’acqua è in qualche modo alterata e quindi causa dello spopolamento del gambero, ma per ora, nessuno ha avviato analisi più approfondite”.
Inoltre la vasca di laminazione, prospettata come una soluzione all’impatto ambientale dell’ampliamento della cava, rimarrà anche al termine dei lavori di escavazione alterando ulteriormente il paesaggio e correndo il rischio di far infiltrare l’acqua in una roccia, come quella del monte Magnodeno, ad alto rischio di dissesto idrogeologico.
A solo 100 metri dalla cava c’è un itinerario escursionistico che lambisce il sito di escavazione che si chiama sentiero della Corna marcia. Se il nome già lascia intendere molto, i dati del dissesto idrogelogico ne sono la conferma: il costone che copre tutta la cava Vaiolo Alta, sulla base di uno studio geologico allegato al piano di governo del territorio di Lecco nel 2013 identifica la classe di franosità della zona come 4 su 4. Rischio massimo. Inoltre è l’intero sito estrattivo a essere a rischio 3 su 4. “Il tutto con un’azienda che estrae il materiale della montagna ancora con la dinamite [ciò non è vietato per legge, ma la tecnologia da decenni si è evoluta con tecniche meno impattanti, soprattutto su un terreno soggetto a dissesto, ndr]”, chiosa Magni.
Oltre all’inquinamento dell’acqua la cava impregna costantemente di polveri sottili l’aria intorno al sito, che geograficamente è proprio sopra la città di Lecco. Questo accade già ora. Le cause sono molteplici: una è il ricorso alla dinamite per estrarre il materiale roccioso da cui si produce in loco la calce, “cuocendo” il calcare, “un metodo che fa ricadere ogni anno metri cubi di polveri su animali, piante, corsi d’acqua, ma anche abitazioni sottostanti”, testimonia una nota congiunta di Legambiente e Wwf Lecco, sia perché i tre siti di escavazione Vaiolo Alta, Vaiolo Bassa e Cornello si servono di due forni in attività dal 1979 uno, e l’altro dal 1992. Tra il 2017 e il 2019 il processo di produzione di calce nei forni sul Magnodeno è cambiato e avviene con la combustione di biomasse legnose, ovvero fonti energetiche rinnovabili e non fossili, con codici di emissione non ambientalmente pericolosi.
Resta significativo il fatto che questo gruppo di cave sia responsabile della produzione di 170-180mila tonnellate di monossido e biossido di carbonio (CO e CO2) l’anno, sulla base dei dati di Arpa, mentre il termovalorizzatore presente nel comune di Valmadrera, a qualche chilometro dalle cave, ne produce “solo” 130mila tonnellate. “Dopo molte richieste di chiarimento sui dati, l’azienda ci ha negato l’accesso agli atti per segreto amministrativo”, spiega ancora il portavoce del comitato cittadino Salviamo il Magnodeno.
Unicalce amministra cave e forni in altre zone della Lombardia e non solo. In molti dei suoi siti, soprattutto per i forni, dispone di certificazioni Emas, un ente di certificazione terzo che certifica le emissioni: “A Lecco non sono mai stati certificati i forni e il sito di escavazione, ma solo gli uffici amministrativi – chiosa Magni –. E la Lombardia prevede che i siti di calce abbiano una deroga nei controlli, insomma, basta che producano un’autocertificazione dei loro valori di inquinamento”. Non c’è quindi un controllo pubblico, e neppure terzo, sulle emissioni di queste cave e dei loro due forni.
Un ulteriore rischio per i polmoni di oltre 50mila lecchesi è presentato dalla pressoché totale assenza di nebulizzazione, obbligatoria per legge, sul nastro trasportatore lungo di più di un chilometro, che dovrebbe evitare le dispersione di polveri dell’aria. Nastro che oltretutto è scoperto, contravvenendo alle leggi di tutela della salute dei lecchesi, ma anche per i lavoratori.
La tutela dell’ambiente in questa cava subisce un ultimo colpo sul finale: quella del recupero ambientale dopo il 2034. Nel progetto viene precisato che dopo quella data, verrà eseguito dall’azienda un recupero ambientale attraverso il rimboschimento dei “gradoni” del sito che presenteranno – su approvazione provinciale e comunale – pareti di 15 metri.
“Con questa morfologia, come si può pensare che alberi messi a dimora in un substrato di terra così esiguo – circa 50 centimetri – possano svilupparsi in modo da coprire adeguatamente pareti di 15 metri? La montagna continuerà ad essere a strisce”, spiega una nota delle associazioni ambientaliste del territorio. Senza dimenticare che resterà la vasca di laminazione nella – allora – ex cava di Vaiolo Alta, già ora condizionata da un dissesto idrogeologico da 4 punti su 4 nella scala di valutazione. Con tutto quello che ciò comporta per una zona in cui passano molti sentieri escursionistici per famiglie.
L’attenzione alla ricostruzione del paesaggio naturale del sito di escavazione lecchese sarà delicato in partenza per via del dissesto idrogeologico che che le cave hanno contribuito semmai ad accrescere. Una riqualificazione de doveva essere pianificata nei dettagli in un città come Lecco che ha fatto della montagna, con le sue storie di alpinismo e arrampicata, e le sue prospettive di sviluppo e turismo, un punto fondamentale della sua identità.
Oltre al peso ridotto dato ai ripristini ambientali previsti nel progetto tra anni, preoccupa molto – e rende il caso lecchese emblematico – l’assenza quasi totale di leggi chiare e controlli seri sull’impatto ambientale di cave come quella del Magnodeno, a cui si aggiunge la malleabilità interpretativa delle regole per la tutela dell’ambiente, del ripristino dopo i lavori di escavazione e della salute pubblica.
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