La vita di Aleksej Navalny, l’uomo che è riuscito a diventare l’oppositore più temuto da Putin

Le proteste del 2011 furono il punto di svolta nella carriera del dissidente, che divenne così il leader di riferimento dell’opposizione russa.

Come è iniziata la carriera politica di Aleksej Navalny? Come è diventato l’oppositore più temuto dal presidente russo Vladimir Putin?

Era una giornata d’inverno come tante. Una giornata d’inverno senza neve e con le strade coperte di fango. Nei pomeriggi d’inverno così, lungo il boulevard di Chistye Prudy, la gente cammina a passo svelto saltando le pozzanghere, senza far caso alle vecchiette che chiedono l’elemosina all’uscita del metrò. Ma quel giorno di dicembre di tredici anni fa, sul boulevard di Chistye Prudy, in pieno centro a Mosca, non cammina più nessuno: il viale è bloccato da una calca di persone mai vista prima. Si affollano sui marciapiedi, sulle aiuole, ai bordi del laghetto dove non c’è ghiaccio per pattinare. Sono in migliaia. Hanno le scarpe coperte di fango e degli striscioni in mano. Sotto la statua del drammaturgo russo Aleksandr Griboedov è stato montato un palco. E qualcuno da lassù grida: “Esistiamo?”. La folla va in estasi. Si alzano urla, applausi e un coro di “sì”. “Esistiamo?”. “Daaa!”. “Adesso sentono la nostra voce e hanno paura!”.

Quella che risuona dal palco è la voce di Aleksej Navalny. Era l’alba della sua ascesa politica. E quella stessa sera, al termine del comizio, Navalny viene arrestato per quindici giorni. Sarà il primo arresto della sua vita. Una vita trascorsa per troppo tempo in carcere, e che si è spenta il 16 febbraio 2024 in una colonia penale di massima sicurezza nel remoto Artico russo. 

L’inizio della carriera politica di Navalny

Cinque dicembre 2011. Non sono passate neanche ventiquattro ore dalle elezioni parlamentari, e a Mosca il clima diventa febbrile. Il partito di governo “Russia unita” ha ottenuto la maggioranza assoluta alla Duma per una manciata di voti. Si parla di brogli e falsificazioni di massa. E il malcontento si trasforma in protesta. In centro a Mosca si radunano quasi diecimila persone (duemila secondo la polizia). Studenti, giovani mamme con il passeggino, impiegati appena usciti dall’ufficio. Gente che fino a prima non si era mai interessata di politica. 

Sul palco, oltre a Navalny, si alternano Ilja Jashin, tra i fondatori del movimento democratico “Solidarnost”, ora in carcere con una condanna a otto anni e mezzo per fake news sull’esercito russo, l’attivista Evgenija Chirikova e Boris Nemtsov, considerato all’epoca uno dei politici di opposizione più esperti del Paese, assassinato nel febbraio 2015 su un ponte vicino al Cremlino. La sera prima della manifestazione, a un paio di chilometri da lì, erano state arrestate 258 persone. E quello era solo l’inizio.

Le proteste che animarono l’inverno di Mosca nel 2011 furono le più grandi dai tempi della dissoluzione dell’Urss. Andarono avanti diversi giorni e culminarono con le manifestazioni di Piazza Bolotnaya, dove accorsero quasi centomila persone (venticinquemila secondo le forze dell’ordine). A guidarle c’era lui, quel blogger anti-corruzione che aprì un nuovo capitolo nella storia politica della Russia moderna. E le manifestazioni non si fermarono lì: proseguirono anche nei due anni successivi e si estesero ad altre città del Paese, accompagnate da striscioni contro Vladimir Putin, appelli contro la corruzione e slogan per elezioni oneste.

All’epoca Navalny era un volto ancora poco conosciuto. Si era affacciato sulla scena politica all’inizio degli anni Duemila, unendosi al partito liberale e nazionalista Jabloko (mela, in russo), dal quale è stato espulso nel 2007 per “danni politici al partito”. A quegli stessi anni risalgono anche le sue attività nazionaliste e la partecipazione alle marce annuali dell’estrema destra (la Marcia russa), dove risuonavano slogan come “Basta dar da mangiare al Caucaso”,  che gli sono costati non poche critiche e le antipatie dei cittadini del Caucaso. Nel febbraio 2021, Amnesty International aveva anche deciso di “cessare di definire Navalny ‘prigioniero di coscienza’ a causa di dichiarazioni discriminatorie fatte nel 2007 e nel 2008 che avrebbero potuto costituire odio o incitamento all’odio”. Lo status di “prigioniero di coscienza” gli è stato restituito pochi mesi dopo, nel maggio 2021.

Oltre all’attivismo politico, porta avanti l’attività legale (aveva infatti studiato legge e ottenuto il titolo di avvocato) e lancia il suo blog dove negli anni pubblica diversi articoli di denuncia.

Ma torniamo al momento della sua ascesa politica. Nonostante si profilasse all’orizzonte il terzo mandato di Putin, nel 2011 a Mosca si respirava una certa eccitazione e per le strade c’era fermento. Mentre a Sochi si lavorava alla costruzione dei nuovi stadi per le Olimpiadi del 2014, a Mosca non mancavano le manifestazioni e si iniziava a sognare il risveglio dell’impegno civile. Il 2011 fu l’Anno della cultura e della lingua italiana in Russia, con quattrocento eventi dedicati all’Italia in trentacinque città della Federazione, oltre che l’anno in cui l’interscambio tra i due Paesi schizzò in alto, superando i 27 miliardi di euro. Fu un anno in cui si intravedevano non solo relazioni più distese con Mosca, ma ci si illudeva anche di una possibile svolta più liberale nel Paese più grande del mondo.

Fu in quel periodo che Navalny passò dall’essere un semplice blogger “letto da migliaia di persone”, al nuovo leader di riferimento dell’opposizione russa. Negli anni abbandonò la retorica nazionalista, secondo alcuni per ottenere un più ampio consenso. Passerà alla Storia come un politico moderno che non ebbe paura di Putin e seppe trasformare l’isolamento mediatico a cui sono costretti gli oppositori in Russia in una forza che parla direttamente ai giovani, grazie ai social network che gli permisero di raggiungere una platea di tantissime persone.

E a guardare la Storia oggi da lontano, si vede non solo la parabola che ha fatto scivolare la Russia di nuovo nel buio, ma anche quei fili invisibili che si intrecciano agli eventi: curiosa combinazione, Navalny è morto a un mese esatto dalle elezioni presidenziali russe, proprio alla vigilia dell’anniversario dell’assassinio di un altro oppositore politico: Boris Nemtsov, ucciso il 27 febbraio 2015 con quattro colpi di pistola in pieno centro a Mosca, due giorni prima della “Marcia contro Vladimir Putin”.

Una macabra coincidenza. Un messaggio che potrebbe essere letto con chiaro cinismo. 

Con lui si chiude un intero ciclo politico della Russia contemporanea. E se ne va l’unica vera alternativa a Putin.

L’eredità lasciata da Navalny

Quello che è stato di Navalny riempirà le pagine dei giornali ancora a lungo. L’avvelenamento, il ritorno in patria, la detenzione disumana, rinchiuso per trecento giorni in una gelida cella d’isolamento di due metri per tre nel remoto Artico. Quello che resta di lui, oltre alla sua eredità di lotta politica, è l’ironia che lo ha sempre contraddistinto e l’invito a non arrendersi mai. Che risuona ora come un mantra sui social network.

Quando è tornato su Instagram, dopo l’avvelenamento del 2020 dal quale si è salvato per miracolo, ha scritto: “Ciao, sono Navalny. Mi mancate. Non riesco ancora a fare quasi niente ma, ecco, ieri sono riuscito a respirare da solo per tutto il giorno. Completamente da solo. Senza nessun aiuto esterno, non ho usato neanche una semplice valvola alla gola. Mi è piaciuto molto. È un processo sorprendente, sottovalutato da molti. Ve lo raccomando”.

E quando il regista Daniel Roher, che nel 2023 ha vinto l’Oscar con il film “Navalny”, gli ha chiesto cosa direbbe ai russi nel caso in cui venisse assassinato, Navalny ha risposto: “Direi di non arrendersi mai. Se succede, se decidono di uccidermi, significa che in quel momento siamo incredibilmente forti. E bisogna utilizzare questa forza! Non bisogna arrendersi. Ricordatevi che siamo una forza enorme”. Chissà se i russi, alle presidenziali di marzo, ricorderanno queste sue parole.

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